A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

FUNZIONAMENTO E CESSAZIONE DELL’ATTIVITÀ BANCARIA IN EPOCA ROMANA

Autore: Prof. Vito Lipari

 

In questo articolo ci incentreremo sul funzionamento di una banca e la cessazione per crisi della sua attività in epoca romana; noteremo anche gli sforzi compiuti dal praetor, prima, e da giuristi in seguito.[1] Iniziando dall’edictum de rationibus argentariis edendis, nel quale si trova il riferimento più antico di una fonte giuridica ad un’impresa bancaria, è stato probabilmente emanato nel corso del II secolo a.C., allorché le attività degli argentarii avevano assunto un loro preciso rilievo all’interno dell’economia romana, come ci indicano alcune fonti.[2] Il suo testo è conservato in due frammenti del quarto libro del commentario all’editto pretorio di Ulpiano collocati in D. 2.13.4 e D. 2.13.6.8.[3]

Nel primo, si afferma il principio per cui ogni esercente di una banca era obbligato ad esibire ai clienti la documentazione relativa ai loro conti bancari:

D. 2.13.4 Ulpianus libro IV ad edictum: Praetor ait: “argentariae mensae exercitores rationem, quae ad se pertinet, edent adiecto die et consule”.

La sua redazione originaria, secondo la ricostruzione di Lenel[4] accettata da tutta la dottrina, sarebbe:

argentariae mensae exercitores ei qui iuraverit non calumniae causa postulare se edi sibi rationem quae ad se pertinet, edant adiecto die et consule.

Nel secondo testo di Ulpiano si fa riferimento a quella parte dell’edictum, in cui si consideravano le particolari ipotesi del banchiere che chiedeva a sua volta l’esibizione del conto o di quanti la chiedevano una seconda volta[5]:

D. 2.13.6.8 Ulpianus libro IV ad edictum: Praetor ait: “argentario eive, qui iterum edi postulabit, causa cognita edi iubebo”.

L’editto si completava con l’indicazione della formula dell’azione che poteva esercitarsi contro il banchiere che non avesse rispettato la prescrizione pretoria di esibire i conti. Il testo di questa formula non ci è pervenuto direttamente, ma si può ricostruire solo attraverso brevi riferimenti dei giuristi. 

L’applicazione concreta e le finalità di questo editto ci danno importanti notizie gli stessi giuristi nei loro commentari[6] Soffermandoci sulla prima clausola edittale contenete il principio generale, troviamo una serie di precisazioni circa il modo di adempiere l’obbligo da parte dei banchieri e la responsabilità nascente a loro carico nel caso di inadempimento.[7] In primo luogo, l’esibizione era ordinata dal banchiere con un decretum del praetor, la cui emanazione costituiva il momento al quale il giudice doveva riferire valutazione dei danni del richiedente, ove il banchiere non avesse obbedito.

Dice, infatti, Ulpiano 4 ad ed. in D. 2.13.8.1:

D. 2.13.8.1 Ulpianus libro IV ad edictum: Is autem, qui in hoc edictum incidit, id praestat, quod interfuit mea rationes edi, cum decerneretur a praetore, non quod hodie interest: et ideo licet interesse desiit vel minoris vel pluris interesse coepit, locum actio non habebit neque augmentum neque deminutionem.

Dal passo di Ulpiano infatti risulta che l’ordine rivolto dal praetor al banchiere era espresso nella forma di un decretum, il cui carattere vincolante dipendeva dal potere di imperium insito nella sua magistratura, e che l’ammontare dei danni subiti dal cliente corrispondeva al suo interesse positivo calcolato al momento della richiesta di esibizione.[8] Quest’ultimo principio è anche confermato nel passo di Gaio 1 ad ed. prov. in D. 2.13.10.3. Perché il cliente potesse ottenere tale risarcimento dei danni dal banchiere, gli veniva concessa un’azione in factum, la cui formula è stata precedentemente riportata, basata proprio sulla circostanza della mancata esibizione e dei danni che essa aveva comportato. Il carattere in factum di quest’azione è ricordato in un passo di Paolo 3 ad ed. in D. 2.13.9, dove si esclude la sua applicabilità a quelle categorie di persone tenute all’esibizione dei conti in forza di un vincolo contrattuale o quasi contrattuale, come il procuratore, il socio o il tutore:

D. 2.13.9 Paulus libro III ad edictum: Quaedam sunt personae, quas rationes nobis edere oportet nec tamen a praetore per hoc edictum compelluntur. Veluti cum procurator res rationesve nostras administravit, non cogitur a praetore per metum in factum actionis rationes edere: scilicet quia id consequi possumus per mandati actionem. Et cum dolo malo socius negotia gessit, praetor per hanc clausulam non intervenit: est enim pro socio actio. Sed nec tutorem cogit praetor pupillo edere rationes: sed iudicio tutelae solet cogi edere.

Come si vede dall’esempio riportato nel passo, il procurator che abbia amministrato il patrimonio del dominus e tenuto la relativa contabilità, se non la presenta, viene convenuto in giudizio con l’azione di mandato e non con l’azione in factum prevista dall’edictum ora in esame, in quanto quest’ultima si può solo utilizzare nei confronti dei banchieri. Si è discuso in dottrina circa la natura di tale azione, perché, pur presentando alcuni elementi propri delle azioni penali, quali l’intrasmissibilità passiva affermata da Ulpiano, ne contiene invece altri delle actiones ad exhibendum, utilizzate in funzione preparatoria di un’azione di rivendica. L’opinione più probabile espressa dal Petrucci[9] è quella di un’azione penale privata con finalità di risarcimento del danno patrimoniale causato dall’illecito del banchiere, così come avveniva per un gran numero di actiones in factum create dalla giurisdizione pretoria.[10] Su questa ipotesi si possono porre come argomenti incontestabili, oltre l’intrasmissibilità passiva dell’azione e la sua annalità, il fine sostanzialmente risarcitorio della condanna equivalente all’interesse positivo del cliente e la mancanza di requisiti di legittimazione attiva e di oggetto delle actiones ad exhibendum.[11] Dalla natura dell’azione in factum discende come conseguenza che la mancata esibizione in giudizio da parte del banchiere della documentazione bancaria ai conti dei clienti costituisce non una violazione degli obblighi contrattuali nascenti dal conto bancario, ma un vero e proprio illecito penale privato. Inoltre la richiesta di esibire i conti poteva essere avanzata non solo in caso di controversia con il banchiere, ma anche qualora il cliente fosse in lite con un terzo e la produzione in giudizio della contabilità bancaria rappresentasse un mezzo di prova per far valere le proprie ragioni. Tale aspetto è evidenziato da Gaio ad ed. prov. in D. 2.13.10. Va osservato inoltre come la richiesta rivolta al banchiere non significasse per il cliente necessariamente la chiusura del conto, secondo quanto mette in luce il giurista Pomponio nel libro sesto del suo commentario a Sabino in D. 50.16.89.2. In questo testo, che i compilatori di Giustiniano hanno scorporato dalla sua collocazione originaria in materia di legato avente ad oggetto la liberazione da un debito (de liberazione legata), si spiega la differenza fra i concetti di  mostrare la documentazione contabile (edere rationes) e presentare un rendiconto (reddere rationes), giustificandone l’inserimento nell’importante titolo finale De verborum significatione. In secondo concetto, invece, implica la cessazione di un rapporto giuridico con il conseguente obbligo di restituzione dell’eventuale residuo da parte del soggetto tenuto al rendiconto, il primo non ha come conseguenza una tale restituzione (nec is qui edere iussus sit, reliquum reddere debet), perché l’esibizione della documentazione contabile può includersi nel rapporto giuridico senza determinarne l’estinzione.[12] L’esempio più classico che il giurista indica è quello del banchiere, che adempie all’obbligo di esibire in giudizio la documentazione contabile del cliente, ma continua ad intrattenere con lui un rapporto di conto, come si deduce dalla permanenza di denaro in deposito presso di lui.

Infine l’obbligo dell’esibizione in giudizio della contabilità si trasmetteva agli eredi del banchiere ed ai suoi soci e permaneva anche in caso di cessazione dell’attività. Alle prime due situazione allude ancora una volta Ulpiano 4 ad ed. in D. 2.13.6.1:

D. 2.13.6.1 Ulpianus libro IV ad edictum: Cogentur et successores argentarii edere rationes. Quod si plures sunt heredes et unus habeat, solus ad editionem compelletur: sed si omnes habeant et unus ediderit, omnes ad editionem compellendi sunt. Quid enim si humilis et deploratus unus edidit, ut dubitare quis merito de fide editionis possit? Ut igitur comparari rationes possint, etiam ceteri edere debent aut certe unius editioni subscribere. Hoc idem erit et si plures fuerint argentarii, a quibus editio desideratur. Nam et si plures tutores tutelam administraverunt simul, aut omnes edere debent aut unius editioni subscribere.

Come si nota nel frammento dopo l’affermazione che anche gli eredi del banchiere sono sottoposti all’ordine dell’esibizione della contabilità, si considerano due particolari ipotesi legate alla presenza di più eredi, che uno solo di essi ne sia in possesso o che tutti la possiedano. Nella prima ipotesi solo il possessore è tenuto all’esibizione; invece, nella seconda ad essa dovevano procedere tutti quanti e non bastava che lo facesse uno solo.[13] Lo stesso regime trovava applicazione nei confronti di più banchieri, legati, anche se il testo non lo dice espressamente, da un vincolo societario. La terza situazione è ricordata brevemente sempre da Ulpiano 4 ad ed. in D. 2.13.4.4:

D. 2.13.4.4 Ulpianus libro IV ad edictum: Etiam is qui desit “desiit” argentariam facere, ad editionem compellitur.

Le ragioni della difesa degli interessi dei clienti sono individuate nei principi di equità e di protezione del loro affidamento.[14] Il primo è sottolineato da Ulpiano 4 ad ed. in D. 2.13.4.1, dove si ricorda come il praetor lo ponesse a fondamento dei rapporti di contro tra banchiere e clientela:

D. 2.13.4.1 Ulpianus libro IV ad edictum: Huius edicti ratio aequissima est: nam cum singulorum rationes argentarii conficiant, aequum fuit id quod mei causa confecit meum quodammodo instrumentum mihi edi

Come si vede, le ragioni di equità, che giustificavano l’intervento pretorio, consistevano nel fatto che il titolare del conto era il cliente, considerato come proprietario della documentazione ad esso relativa, alla cui tenuta il banchiere provvedeva nel suo prevalente interesse, rendendo quindi giusta la richiesta di utilizzarla ai fini probatori in una controversia. La necessità di tutelare la fiducia di quanti si rivolgevano alle banche emerge invece in un passo di Paolo 3 ad ed. in D. 2.13.9.2, dove si accoglie l’opinione di Pomponio favorevole all’estensione dell’editto pretorio qui in esame anche ai nummularii, giustificandola con l’identità di operazioni tra di essi ed i banchieri:

D. 2.13.9.2 Paulus libro III ad edictum: Nummularios quoque non esse iniquum cogi rationes edere Pomponius scribit: quia et hi nummularii sicut argentarii rationes conficiunt, quia et accipiunt pecuniam et erogant per partes, quarum probatio scriptura codicibusque eorum maxime continetur: et frequentissime ad fidem eorum decurritur.

e fondandola con il frequente ricorso da parte dei clienti alla loro fides. Con quest’ultima espressione, che si può intendere in senso generale riferita ad entrambe le categorie professionali, si vuole infatti sottolineare la diffusa fiducia dei clienti tanto per la sicurezza del denaro ad essi affidato quanto per una corretta tenuta della relativa documentazione contabile. Se le norme fin qui considerate sembrano tutelare principalmente i diritti dei clienti, ve ne sono invece altre che dimostrano come si prestasse la dovuta attenzione allo sviluppo delle attività bancarie, evitando che tale disciplina potesse influirvi negativamente. In primo luogo, l’esibizione della documentazione contabile era subordinata al giuramento da parte del cliente di non chiederla con l’unica finalità di danneggiare il banchiere, come è ben noto in Ulpiano 4 ad ed. in D. 2.13.6.2 e in Paolo 3 ad ed. in D. 2.13.9.3, dai quali Lenel ha tratto l’integrazione della prima clausola edittale. Il primo testo dice:

D.2.13.6.2 Ulpianus libro IV ad edictum: Exigitur autem ab adversario argentarii iusiurandum non calumniae causa postulare edi sibi: ne forte vel supervacuas rationes vel quas habet edi sibi postulet vexandi argentarii causa.

Qui il giurista esprime chiaramente che lo scopo del giuramento era quello di non arrecare pregiudizio al banchiere con la richiesta di una documentazione inutile o già in possesso del richiedente, operando in caso contrario la responsabilità nascente a carico degli spergiuri. Paolo quindi si limita ad affermare che l’esibizione della documentazione a chi ne era titolare doveva avvenire in favore di tutti i richiedenti, che giurassero di aver fatto la richiesta non per calumnia.[15] Nell’ultima parte del D. 2.13.10 Gaio 1 ad ed. prov. subordina di diritto del cliente di richiedere il risarcimento dei danni alla prova dell’esistenza di una relazione causale diretta tra perdita della lite da parte del cliente ed  inadempimento all’obbligo di presentare i conti da parte del banchiere. Molto chiare ed illuminanti circa la necessità di un nesso causale diretto per far valere la responsabilità del banchiere sono le espressioni relative alla perdita della lite per mancata esibizione della documentazione contabile ed all’onere di provare tale collegamento. Inoltre il banchiere è tenuto al risarcimento dei danni solo se il suo mancato rispetto all’ordine del pretore di esibire le scritture sia dipeso da suo dolo o colpa grave, come messo in luce da Ulpiano 4 ad ed. in D. 2.13.8. Secondo la dottrina, l’edictum del praetor avrebbe fatto originariamente riferimento al dolo, dovendosi quindi ritenere il richiamo alla colpa frutto di un’interpolazione successiva di età giustinianea.[16] E’ molto probabile che la menzione accanto al dolus della culpa lata (colpa grave)[17] come criterio di responsabilità del banchiere sia stata introdotta molto prima di Giustiniano, forse già verso la fine del I secolo d.C., epoca in cui troviamo tale criterio concettualizzato da alcuni giuristi.[18] Infine l’esibizione era strettamente limitata a quella parte delle scritture contabili relative ai conti dei clienti (il codex rationum) che riguardava la sola controversia in corso, come osserva Gaio 1 ad ed. prov. in D. 2.13.10.2. Nel primo periodo del testo il giurista rileva che si considera esibito un conto solo quando se ne può prendere visione dall’inizio, perché in mancanza di ciò risulta incomprensibile l’elenco delle operazioni che lo formano.

La necessità di visionare la documentazione di un conto dall’inizio si spiega con il fatto che ognuna delle pagine di cui era composto il codex rationum cominciava con l’indicazione della data seguita dalla registrazione delle operazioni di credito e di debito relative ai singoli conti, come si desume da Ulpiano 4 ad ed. in D. 2.13.6.6.[19] Quindi le parole di Gaio vanno interpretate nel senso che chi aveva chiesto l’esibizione doveva essere posto in condizione di conoscere i riferimenti cronologici delle varie operazioni del suo conto per poter correttamente intendere l’andamento.[20] Ma, come si precisa nella seconda metà del passo di Gaio, precedentemente analizzato, tale potere di visionare e fare copia non era esteso a tutto il libro contabile, ma solo a quelle parti necessarie a fini probatori per la controversia in corso. Tale precisazione riveste grande importanza, perché è evidentemente finalizzata a proteggere il segreto delle operazioni concluse tra banca e clienti, escludendo dalla pubblicità tutto ciò che non atteneva la lite da cui era derivata la richiesta di esibizione. La conciliazione fra esigenze dei banchieri e quelle dei clienti è alla base anche della normativa discendente dalla seconda clausola dell’edictum qui preso in esame: argentario eive, qui iterum edi postulabit, causa cognita edi iubebo. Il primo fattore di equilibrio è dato dal fatto che il praetor non ordinava automaticamente l’esibizione della contabilità, quando il richiedente fosse il banchiere oppure il cliente avanzasse la richiesta una seconda volta, ma con cognizione di causa (causa cognita).Ciò significa che in queste due ipotesi particolari egli valutava caso per caso le circostanze a fondamento della richiesta prima di emettere il decretum con l’ordine di esibizione. La ratio della disposizione edittale ci mostra, da un lato, che si volevano prevenire eventuali atteggiamenti fraudolenti o gravemente negligenti del banchiere, permettendogli di chiedere al cliente l’esibizione della contabilità solo quando ricorrevano determinati eventi, dall’altro, che si volevano evitare pregiudizi per il cliente che chiedesse un’altra volta l’esibizione per fatti non dipendenti da un suo comportamento riprovevole. Sull’applicazione pratica di tale clausola ci vengono date importanti notizie dai giuristi Ulpiano e Paolo in due passi tratti dai loro commentari all’edictum:

D. 2.13.6.9-10 Ulpianus libro IV ad edictum:[9] Prohibet argentario edi illa ratione, quod etiam ipse instructus esse potest instrumento suae professionis: et absurdum est, cum ipse in ea sit causa, ut edere debeat, ipsum petere ut edatur ei. An nec heredi argentarii edi ratio debeat, videndum: et si quidem instrumentum argentariae ad eum pervenit, non debet ei edi, si minus, edenda est ex causa. Nam et ipsi argentario ex causa ratio edenda est: si naufragio vel ruina vel incendio vel alio simili casu rationes perdidisse probet aut in longinquo habere, veluti trans mare.[10] Nec iterum postulanti edi praetor iubet, nisi ex causa: D. 2.13.7 Paulus libro III ad edictum: Veluti si peregre habere quod primum editum est doceat: vel minus plene editum: vel eas rationes, quas casu maiore, non vero neglegentia perdiderit. Nam si eo casu amisit, cui ignosci debeat, ex integro edi iubebit.

Nel primo testo Ulpiano spiega dapprima le ragioni per cui la richiesta di esibizione da parte del banchiere era sottoposta all’esame preliminare delle circostanze del caso: poiché l’esercizio della sua professione implicava un obbligo di tenuta della documentazione dei conti dei clienti, sulla cui situazione egli dunque poteva sempre essere aggiornato, sarebbe stato un assurdo privilegio liberarlo da tale obbligo e permettergli di chiedere agli stessi l’esibizione giudiziale invertendo a suo favore l’onere della prova. E poi ammette che una tale richiesta possa accogliersi solo in base ad una giusta causa, indicandosi fra di esse eventi di forza maggiore (naufragio, rovina, incendio ecc…) o la conservazione della contabilità in un luogo lontano, come ad esempio, una provincia trans marina.

Infine la giusta causa può essere fatta valere anche nei confronti di un cliente che richieda l’esibizione una seconda volta. Una semplificazione di giuste cause in favore del cliente si riscontra in apertura del secondo testo, dove Paolo parla di conservazione dei documenti contabili già esibiti in una regione lontana, di incompleta esibizione da parte del banchiere la prima volta o di perdita incolpevole degli stessi per un caso di forza maggiore. E’ importante sottolineare come la prova di queste circostanze dovesse essere data dal cliente (si…doceat) e come il criterio della perdita incolpevole andasse inteso in modo non rigido, perché al cliente era consentito dimostrare l’esistenza di una qualche causa di giustificazione, che, se accolta dal praetor, permetteva la rinnovazione dell’ordine di esibire.[21]

In conclusione, in base a ciò che abbiamo affrontato, emerge che la normativa facente capo all’edictum appena esaminato si è venuta formando e completando attraverso un lavoro congiunto di attività giurisdizionale dei pretori e di attività interpretativa dei giuristi, teso ad adeguare gli strumenti giuridici alle trasformazioni dell’economia, con l’obbiettivo di coniugare esigenze di protezione della clientela ed esigenze di espansione delle banche con riguardo ad un settore così delicato ed importante come quello della contabilità. Iniziando ora ad approfondire la compensazione (agere cum compensatione), essa, prima di divenire un modo di estinzione delle obbligazioni di carattere generale, si applicava solo a casi ben determinati ed operava nel campo del processo formulare mediante un’eccezione o, se si trattava di azioni di buona fede, mediante una richiesta avanzata dal convenuto. Di qui la sua indicazione per tutta l’età commerciale come un modo di estinzione ope iudicis.[22] Nel caso della compensatione effettuata dal banchiere occorre però procedere ad alcune puntualizzazioni.[23] La fonte in cui troviamo informazioni esaustive sono le Istituzioni di Gaio che affrontano casi di compesatione tra debiti e crediti anche a quella a cui doveva far luogo un banchiere allorché voleva agire in giudizio contro il titolare di un conto.[24] Ciò che si riscontra è che il banchiere deve calcolare, fin dal momento dell’esercizio dell’azione, la differenza tra quanto gli è dovuto dal cliente e quanto gli deve a quest’ultimo e chiedere nella sua azione solo l’importo risultante da tale differenza. La compensatione non è quindi opera del giudice, ma viene compiuta dal banchiere stesso, non come una sua facoltà, bensì come un vero e proprio obbligo a lui imposto. Poi viene presentato un esempio di come doveva adattarsi la formula dell’azione usata dal banchiere, ed in particolare di quella parte di essa che conteneva l’enunciazione della pretesa da far valere in giudizio (intentio).[25] La ricostruzione completa della formula così adattata doveva essere la seguente: Se risulta che Tizio (cliente) debba dare a Caio (banchiere) diecimila sesterzi di più di quelli che Caio deve a Tizio, giudice condanna Tizio a dare diecimila sesterzi a Caio, se non risulta assolvilo” (Si paret Titium Caio sestertium X mila dare oportere amplius quam Caius Titio debet,iudex Caio X milia sestertium condemnato, si non paret absolvito). In Istitutionum 4.66 Gaio:

Institutionum commentatius IV 4.66: Inter conpensationem autem, quae argentario opponitur, et deductionem, quae obicitur bonorum emptori, illa differentia est, quod in conpensationem hoc solum uocatur, quod eiusdem generis et naturae est; ueluti pecunia cum pecunia conpensatur, triticum cum tritico, uinum cum uino, adeo ut quibusdam placeat non omni modo uinum cum uino aut triticum cum tritico conpensandum, sed ita si eiusdem naturae qualitatisque sit. in deductionem autem uocatur et quod non est eiusdem generis; itaque si pecuniam petat bonorum emptor et inuicem frumentum aut uinum is debeat, deducto quanti id erit, in reliquum experitur.

In questo testo si spiega il diverso regime tra la compensatione di debiti e crediti tra banchiere e cliente (compensatio) e quella tra bonorum emptor, cioè il compratore in blocco dei beni del debitore insolvente, e debitori di quest’ultimo (deductio). La prima è ammessa soltanto tra crediti reciproci aventi ad oggetto cose fungibili omogenee e della stessa natura (eiusdem generis et naturae), non consistenti necessariamente in denaro, ma anche in derrate (vino, grano ecc…), a riprova che presso i banchieri romani potevano aprirsi conti aventi ad oggetto queste ultime. E tale principio era inteso in senso così restrittivo da alcuni giuristi da escludere la possibilità di compensare grano e vino che non fossero anche della stessa qualità; e ciò viene precisato in Gaio Institutionum 4.67-68:

Institutionum commentatius IV 4.67-68: [67]Item uocatur in deductionem et id, quod in diem debetur; conpensatur autem hoc solum, quod praesenti die debetur. [68]Praeterea conpensationis quidem ratio in intentione ponitur; quo fit, ut si facta conpensatione plus nummo uno intendat argentarius, causa cadat et ob id rem perdat.deductum uero ad condemnationem ponitur, quo loco plus petenti periculum non interuenit, utique bonorum emptore agente, qui licet de certa pecunia agat, incerti tamen condemnationem concipit.

Mentre nella deductio si potevano anche compensare debiti non ancora scaduti, quelli oggetto della compensatione del banchiere dovevano essere scaduti; ed inoltre, se nella sua pretesa (intentio) quest’ultimo, dopo aver operato la compensatione, avesse chiesto anche un solo nummo[26] in più, subiva la perdita della causa per una richiesta eccessiva rispetto a quanto gli era effettivamente dovuto.[27] Si verificava cioè uno di quei casi di pluris petitio, relativo all’oggetto della pretesa (re), di cui parla lo stesso Gaio in Inst. 4.53.[28] Sono due i cardini fondamentali sui quali poggia questa disciplina:

1) l’esistenza di un conto fra banchiere e cliente da cui derivano i reciproci debiti e crediti, che possono essere compensati. Di ciò si può osservare un chiaro esempio nella lettera connessa alla chiusura di un conto di cui parla Scevola;

2) la tenuta di un aggiornato sistema contabile da parte del banchiere, che gli consenta di seguire lo svolgimento delle varie operazioni con il cliente e di calcolare in modo preciso il saldo dei debiti scaduti al momento dell’esercizio dell’azione contro di lui, evitando così gli effetti della pluris petitio.[29]

In base ai passi delle Istituzioni di Gaio appena affrontati, l’obbligo di operare la compensatione è un rimedio originariamente posto nell’esclusivo interesse dei clienti, sussistendo a carico del solo banchiere, mentre, contrariamente a quanto si credeva anni fa[30], esso non vale per il cliente.

Quest’ultimo anzi, se il banchiere voleva agire senza la compensatione affermando che il suo credito non dipendeva dal conto, aveva a sua disposizione un’eccezione chiamata exceptio pensatae pecuniae (eccezione del denaro compensato) per obbligarlo a compierla. E’ importante osservare come, se anche la compensatione era realizzata dal banchiere stesso al momento dell’esercizio dell’azione, ciò avvenisse in osservanza di una disposizione del praetor, che imponeva un tale regime agli argentarii, e come esistesse una chiara connessione tra questa compensatione, fondata sulla tenuta della documentazione contabile, e l’obbligo a loro carico dell’editio rationum.Quindi è evidente, che oltre ad una funzione di economia processuale, ve ne fosse anche una di tutela nei confronti dei clienti, esentati dalla necessità di un processo separato per far valere le proprie eventuali pretese creditorie nascenti dal conto. L’agere cum compensatione, che le Istituzioni di Gaio riferiscono ai soli argentarii e si giustifica con il carattere professionale e rivolto al pubblico della loro attività[31], si è probabilmente esteso nel corso del II secolo d.C. anche agli altri tipi di professioni bancarie (nummulari e coactores argentarii), grazie a quel processo di integrazione fra le stesse osservate nell’arco di tempo, generalizzandosi infine anche al di fuori di tali professioni, secondo un’evoluzione che già risulta compiuta in Pauli Sententiae 2.5.3.Abbiamo detto in precedenza che, secondo i giuristi, le specifiche normative dettate per l’attività e l’organizzazione delle banche si basavano sull’affidamento che i clienti avevano nei loro confronti e nella necessità che essi avevano di rivolgersi ai servizi prestati dalle stesse. Cio che ci domandiamo è: quali erano le condizioni contrattuali e le rispettive operazioni facenti capo al conto?Gli studiosi che si sono interessati a tale problema hanno in verità limitato la propria attenzione all’esistenza o meno di estratti conto periodici inviati dal banchiere al cliente, pervenendo sul punto a conclusioni opposte: alcuni la negano altri no.

In ordine alla configurabilità di condizioni di contratto portate a conoscenza dalla clientela, assai prezioso si presenta il testo di Ulpiano 28 ad ed. in D. 14.3.11, che riporta un regime elaborato per tutti i tipi di impresa cui si applicava l’actio institoria, compresa quindi quella bancaria.[32]

D. 14.3.11 Ulpianus libro XXVIII ad edictum: Sed si pupillus heres extiterit ei qui praeposuerat, aequissimum erit pupillum teneri, quamdiu praepositus manet: removendus enim fuit a tutoribus, si nollent opera eius uti.

Il giurista poi prosegue:

D. 14.3.11.5 Ulpianus libro XXVIII ad edictum: Condicio autem praepositionis servanda est: quid enim si certa lege vel interventu cuiusdam personae vel sub pignore voluit cum eo contrahi vel ad certam rem? Aequissimum erit id servari, in quo praepositus est. Item si plures habuit institores, vel cum omnibus simul contrahi voluit vel cum uno solo. Sed et si denuntiavit cui, ne cum eo contraheret, non debet institoria teneri: nam et certam personam possumus prohibere contrahere vel certum genus hominum vel negotiatorum, vel certis hominibus permittere. Sed si alias cum alio contrahi vetuit continua variatione, danda est omnibus adversus eum actio: neque enim decipi debent contrahentes.

Nella preposizione institoria potevano dunque essere precisate dal preponente e rese pubbliche le clausole cui era vincolata l’attività contrattuale dell’institore, che andavano comunque rispettate.

Fra di esse, come abbiamo visto, vengono espressamente indicate a mò di esempio quelle relative all’intervento di garanti personali o all’assunzione di garanzie reali o ad uno specifico oggetto o ancora al divieto di contrarre con determinate persone o con certe categorie di uomini o imprenditori oppure il permesso di farlo. Inoltre il preponente poteva preporre più institori, con i quali si concludessero contratti congiuntamente o separatamente. La possibilità di modificare in via unilaterale tali condizioni era consentita al preponente nei limiti in cui una loro continua variazione non comportasse un inganno verso i terzi contraenti. Quest’ultimo principio si presenta come quello informatore di tutta la disciplina, facendoci intendere come la situazione di incertezza provocata dai frequenti cambiamenti non sia da limitare alla sola ipotesi della presenza di più institori, come potrebbe prima facie apparire dalle parole di Ulpiano. Per la violazione delle prescrizioni ora riportate veniva previsto, una volta concluso il contratto, l’esercizio dell’azione institoria contro il preponente. Questa disciplina, se applicata ad una banca, consente di giungere ad alcune conclusioni:

a) il banchiere, nel preporre un institore alla banca, era libero di predisporre unilateralmente eventuali condizioni, cui andava uniformata la contrattazione svolta con i clienti;

b) l’esistenza di tali condizioni doveva essere resa conoscibile a questi ultimi;

c) il banchiere poteva in seguito modificarle, a meno che la loro continua variazione non si risolvesse in un inganno per i terzi contraenti, perché in tal caso era esperibile contro di lui l’azione institoria, che comportava a suo carico una responsabilità illimitata (in solidum). Non disponiamo di testi specifici riguardante la gestione delle banche, in modo personale e diretto, dal banchiere oppure dal suo filius o servus all’interno di un peculium. Possiamo, perciò, solo limitarci alla congettura che un tale dovere di informazione delle condizioni contrattuali, in quanto rispondente ai principi di affidamento e necessità sopra rilevati, trovasse realizzazione anche nei suddetti modelli organizzativi, proprio sulla base del medesimo principio neque decipi debent contrahentes. Più facile è configurarlo nella gestione personale e diretta, in cui il banchiere procedeva egli stesso alla conclusione dei contratti, mentre più delicata è la questione nel caso di scelta dello schema fondato sulla gestione di una banca da parte di un filius o servus nell’ambito del peculium, perché in questa ipotesi non occorreva un incarico specifico del banchiere all’esercizio della banca, ma unicamente l’assenza di una sua volontà contraria a ciò, non imponendosi quindi particolari forme di pubblicità come per la preposizione institoria. E’ chiaro che in quest’ultimo modello la responsabilità del banchiere per la violazione del suddetto principio non si estendeva a tutto il suo patrimonio, ma beneficiava della limitazione al peculium o a quanto da esso fosse stato direttamente riversato nel suo patrimonio (de peculio vel de in rem verso). Aspetto fondamentale della conclusione del contratto era, per i clienti titolari di un conto, l’informazione e le modifiche successive delle stesse. Alla luce di ciò, è particolarmente rilevante la questione sull’esistenza di estratti conto periodici in possesso dei clienti. Tali disposizioni che presuppongono il possesso di tali documenti si riscontrano, come abbiamo visto in precedenza, in Ulpiano in D. 2.13.6.2 e Paolo in D. 2.13.7. Ai due passi già citati, è possibile menzionare anche un’affermazione di Gaio 1 ad ed. prov. in D. 2.13.10.3 dove il giurista menziona il caso del richiedente impossibilitato ad avvalersi della documentazione al momento della lite, e perciò soccombente, il quale in un secondo momento, venuto in possesso della stessa, abbia potuto provare che sarebbe riuscito vittorioso se invece ne avesse allora disposto. Invece, la mancata trasmissione di documenti informativi al cliente era, infine, sanzionata, in ambito giurisdizionale, dalle previsioni dell’edictum de argentariis rationibus edendis, la cui aequitas era individuata proprio nell’obbligo imposto al banchiere di esibire, ove necessario a fini probatori, le scritture da lui redatte nell’interesse del cliente stesso. Parlando ora del fallimento di una banca, occorre dire che già nel Digesto sono conservati quattro casi di ciò e le conseguenze di chi gli aveva affidato il proprio denaro.

I primi due testi si riscontrano in D. 16.3 relativo al deposito e sono il frammento 7.2-3 di Ulpiano 30 ad ed. ed il successivo frammento 8 di Papiniano 9 quaest. Nel paragrafo due del testo ulpiane o si delinea la seguente situazione. Nell’ipotesi di fallimento di una banca i creditori presi in considerazione per primi sono i depositanti di somme di denaro (solet primo loco ratio haberi depositariorum, hoc est eorum qui depositas pecunias habuerunt), che il giurista distingue nettamente da quanti hanno messo a disposizione del banchiere i propri soldi al fine di effettuare investimenti fruttiferi (non quas faenore apud nummularios vel cum nummulariis vel per ipsos exercebant).Sul ricavato dalla vendita in blocco dei beni del banchiere fallito è riconosciuta ai depositanti una posizione addirittura preferenziale rispetto agli stessi creditori privilegiati (et ante privilegia…depositariorum ratio habetur), a condizione però che abbiano rinunciato a percepire, anche mediante un pactum successivo, interessi sulle somme depositate, perché in tal caso si ritiene che essi abbiano rinunciato al deposito (dummodo eorum qui vel postea usuras acceperunt ratio non habeatur, quasi renuntiaverint deposito). Ulpiano continua:

D. 16.3.7.3 Ulpianus libro XXX ad edictum: Item quaeritur, utrum ordo spectetur eorum qui deposuerunt an vero simul omnium depositariorum ratio habeatur. Et constat simul admittendos: hoc enim rescripto principali significatur.

Alla questione se i deponenti dovessero essere ammessi all’attivo fallimentare secondo l’ordine di tempo in cui erano avvenuti i depositi, oppure tutti sullo stesso piano, si risponde in quest’ultimo senso, in conformità ad un rescritto imperiale. Nel testo di Papiniano, che i compilatori giustinianei hanno concatenato al precedente, si precisa:

D. 16.3.8 Papinianus libro IX quaestionum: Quod privilegium exercetur non in ea tantum quantitate, quae in bonis argentarii ex pecunia deposita reperta est, sed in omnibus fraudatoris facultatibus: idque propter necessarium usum argentariorum ex utilitate publica receptum est. Plane sumptus causa, qui necessarie factus est, semper praecedit: nam deducto eo bonorum calculus subduci solet.

La posizione privilegiata dei deponenti, che non percepiscono interessi, si esercita quindi, ad avviso del giurista, non solo su quella parte di somme depositate ancora nel patrimonio del banchiere (non in ea tantum quantitate, quae in bonis argentarii ex pecunia deposita reperta est), ma su tutto il patrimonio (sed in omnibus…facultatibus), individuandosi la ratio dell’introduzione di un tale principio nella necessità di avvalersi dei servizi bancari per la loro utilità pubblica. Bisogna notare come Papiniano non definisca fraudator il banchiere che sia sottoposto al fallimento, per sottolineare la rottura da parte sua del rapporto fiduciario con i clienti, e come giustifichi l’estensione della sua responsabilità a tutto il patrimonio con utilità pubblica che impone il ricorso alle banche per assicurare sicurezza al proprio denaro. Il terzo frammento, sempre di Ulpiano, esamina le conseguenze del fallimento di una banca sui titolari delle somme depositate, riportate in D. 42.5.24.2 e si commenta quella parte dell’edictum relativa ai creditori privilegiati nella vendita in blocco dei beni di un debitore insolvente[33] con la bonorum venditio.[34] In esso, di fronte al fallimento del titolare di una banca (mensularius) ed alla conseguente vendita universale dei suoi beni, i deponenti di somme di denaro, che si sono basati sull’affidamento pubblicamente riconosciuto a quella banca, hanno diritto ad essere soddisfatti dopo i creditori privilegiati.[35] La loro posizione è preferita a quella di quanti hanno ricevuto dal banchiere interessi sulle somme depositate, risultando infatti questi non separati da tutti gli altri creditori.  Una tale preferenza viene spiegata con l’affermazione che le attività di deposito non si possono identificare con quelle di prestito (aliud est…credere, aliud deponere). Nel caso in cui invece il denaro depositato si potesse ancora esattamente individuare (si tamen nummi exstent), perché, ad esempio, era contenuto in sacchi e contenitori sigillati, i deponenti di tali somme potevano rivendicarle ed il loro diritto precedeva anche quelli dei creditori privilegiati. Ciò che invece occorre ora analizzare è la contraddizione fra i due frammenti di Ulpiano circa la posizione dei depositanti che non percepiscono interessi nel concorso con gli altri creditori nell’ipotesi di fallimento della banca. In D. 16.3.7.2 essi appaiono preferiti agli stessi creditori privilegiati; mentre in D. 42.5.24.2 si sostiene la soluzione opposta. Ciò ha indotto molti studiosi a risolvere la questione, considerando interpolato ora l’uno ora l’altro testo.[36] Secondo il parere del Cerami, l’opinione più plausibile è quella di ritenerli conciliabili, tenendo presente la diversa ottica con cui il giurista affrontava il problema nel libro XXX e nel libro LXIII del suo commentario all’editto. Infatti in D. 16.3.7.2 le maggiori preoccupazioni di Ulpiano, commentando l’edictum sull’azione di deposito, dovevano essere state quelle di differenziare in campo giuridico il contratto di deposito aperto di somme di denaro dagli investimenti e speculazioni realizzati dal banchiere per conto dei clienti, riconoscendo al primo una priorità nel concorso dei creditori, e precisando che l’accettazione, anche in un secondo momento (vel postea), di interessi sulle somme depositate era da ritenersi come una rinuncia al deposito, con conseguente perdita del diritto a vedere soddisfatti i propri crediti ancor prima di quelli degli stessi creditori privilegiati. In altri termini, non interessava tanto al giurista fissare in quel momento con esattezza la posizione dei deponenti nei confronti dei creditori privilegiati, quanto escludere dalla prelazione quei deponenti che comunque avessero percepito interessi sulle somme fatte fruttare dalla banca. In D. 42.5.24.2, al contrario, Ulpiano, trattando specificamente la parte dell’editto dedicata ai creditori privilegiati nella vendita in blocco dei beni del banchiere fallito, è molto attento a raffigurare con esattezza l’ordine dei deponenti nel concorso, dando priorità assoluta, prima ancora dei creditori privilegiati, a quelli che avevano effettuato depositi chiusi di denaro, ponendo subito dopo i creditori privilegiati quanti avevano concluso depositi aperti senza ricevere interessi, ed equiparando a tutti gli altri creditori chirografi quanti percepivano interessi delle somme depositate. In sostanza, dall’analisi congiunta dei due testi si può notare come il fenomeno del fallimento di una banca ed il conseguente concorso tra i creditori permetta al giurista di individuare il diverso grado di protezione accordata dall’ordinamento giuridico alle differenti categorie di clienti che si avvalevano dei suoi servizi:

1) protezione assoluta per quanti concludevano contratti di deposito chiuso o regolare, dovendo i loro clienti essere soddisfatti per primi;

2) posizione preferenziale rispetto agli altri creditori, ma posteriore a quella dei creditori privilegiati per quanti concludevano contratti di deposito aperto o irregolare;

3) posizione paritaria ai creditori chirografi per quanti depositavano somme aperte di denaro, pattuendo con il banchiere, anche in un secondo tempo, la percezione di interessi e per quanti fin dall’inizio miravano a realizzare speculazioni finanziarie attraverso la banca.

In base al frammento riportato in D. 16.3.7 si può giungere all’ulteriore conclusione che i clienti delle categorie 1) e 2) venissero ammessi tutti insieme all’attivo patrimoniale del banchiere fallito, senza riguardo al tempo della conclusione dei depositi. Per l’ipotesi di fallimento di una banca, si era venuto a formare un regime giuridico differenziato per le categorie di clienti, che il Cerami definisce “i risparmiatori”, meritevoli di una speciale protezione, e per quelle degli “speculatori”, che erano chiamati a sopportare il rischio di una crisi bancaria allo stesso modo di tutti gli altri creditori non privilegiati. Che la formazione di un tale regime sia avvenuta gradualmente sulla base della disciplina edittale in materia di deposito e di vendita in blocco dei beni del fallito si riscontra nelle espressioni solet in D. 16.3.7.2, placuit in D. 42.5.24.2, receptum est in D. 16.3.8 e rescripto principali significatur, che fanno riferimento a prassi interpretative o a decisioni dei giuristi e della cancelleria imperiale chiamati a dare una risposta ai problemi concreti nascenti dalla realtà. La collocazione di questo quadro del frammento di Papiniano di D. 16.3.8 non presenta particolari problemi, in quanto si limita a precisare ulteriormente che i crediti dei deponenti che si trovano in posizione prioritaria debbono essere soddisfatti con tutto il patrimonio del banchiere fallito, e non unicamente con quanto residua dei vari depositi. Ciò, d’altra parte, appare pienamente in linea con il regime della vendita in blocco dei beni dell’insolvente (bonorum venditio)[37], che implicava un coinvolgimento nella procedura concorsuale dell’intero suo patrimonio. Tuttavia bisogna sottolineare che la disciplina ricordata da Papiniano vale solo per le imprese bancarie fondate su uno schema organizzativo con responsabilità illimitata, mentre è da intendersi con limitazione al peculium del servus o del filius esercenti la banca, qualora l’impresa sia strutturata in modo da limitare la responsabilità. Infine, facendo un’ultima considerazione, i tre frammenti esaminati ci mostrano come la crisi di un’impresa bancaria venisse regolata non da una procedura speciale, ma da quella concorsuale comune della bonorum venditio, all’interno della quale tuttavia si era venuta introducendo una serie di cautele particolari finalizzate a salvaguardare alcune categorie di clienti. Il quarto testo, che affronta problematiche connesse al fallimento di una banca, ha ad oggetto un caso concreto riportato e risolto da Cervidio Scevola 5 dig. in D. 14.3.20, come abbiamo visto in precedenza. In esso la fattispecie da cui si prendono le mosse è quella di un liberto, Ottavio Terminale, preposto come institore alla banca (mensa nummularia) di Ottavio Felice (alias Lucio Tizio), che promette in una lettera a Domizio Felice (alias Gaio Seio) di pagargli alla data del 30 Aprile mille denari depositati presso la banca stessa (habes penes mensam patroni mei denarios mille, quos denarios vobis numerare debebo pridie kalendas Maias). Tale promessa, in seguito alla morte senza eredi del banchiere ed alla vendita in blocco dei suoi beni (Lucio Titio defuncto sine herede bonis eius venditis) resta inadempiuta, ma il giurista nega che possa essere convenuto in giudizio il liberto preposto sotto il profilo sia del diritto che dell’equità (nec iure his verbis obligatum nec aequitatem conveniendi eum superesse), in quanto egli aveva promesso nella sua funzione di institore al fine di confermare un’obbligazione della banca (cum id institoris officio ad fidem mensae protestandam scripsisset). Il punto centrale su cui viene chiamato a pronunciarsi Scevola è quello della responsabilità dell’institore verso i creditori della banca per gli atti da lui posti in essere nei limiti della preposizione institoria, quando il banchiere insolvente sia morto senza eredi e sia avvenuta la vendita universale dei suoi beni. Nella fattispecie analizzata, l’argomentazione giuridica fatta valere dai creditori davanti al fallimento del banchiere ed all’assenza di eredi doveva essere stata quella che, essendo l’institore un uomo libero, il quale aveva agito nei limiti dell’incarico ricevuto, l’azione institoria si potesse esercitare nei suoi confronti. Tale argomentazione trovava probabilmente sostegno nella possibilità, ammessa sia nelle imprese terrestri che in quella di navigazione, che i creditori scegliessero se agire contro il rappresentante oppure contro l’imprenditore. Essa però qui è respinta dal giurista, che lascia come unica via quella di rivolgersi contro l’acquirente in blocco dei beni del banchiere fallito (bonorum emptor), che, come è noto, era suo successore universale. Sono state diverse le spiegazioni che sono state avanzate in dottrina per giustificare questo responso di Scevola. Limitandoci a quelle principali, si nota, da un lato, che l’esonero da responsabilità dell’institore dipendeva nel caso di specie dal non avere lo stesso né contratto un’obbligazione in senso tecnico, mancando una stipulatio, né operato nel proprio interesse, avendo agito officio institoris ad fidem mensae protestandam.[38] Dall’altro, si accentua di più il fatto che, con l’insolvenza della banca, Ottavio Terminale avesse cessato dalle proprie funzioni manageriali e di rappresentanza.[39] Si tratta comunque di una soluzione eccezionale, legata alla specificità della situazione di D. 14.3.20, che fa intendere come il regime ordinario dovesse invece essere quello responsabilità (concorrente) dell’institore libero non soggetto a potestà. Il testo, tuttavia, ha rivestito grande importanza per la tradizione giuridica successiva a quella romana, costituendo un passo decisivo sulla strada di un pieno riconoscimento del principio della rappresentanza diretta.

Ora invece affronteremo il caso storico del fallimento di una banca amministrata da Callisto durante il regno di Commodo; periodo questo in cui la complessità e il rilievo del fenomeno creditizio era messo a dura prova.[40] Iniziando dall’imperatore Marco Aurelio (121 d.C.–180 d.C.), egli, durante il suo regno, donò un congiarium[41] al popolo, quando diede al figlio Commodo la toga virilis (che veniva indossata ai sedici anni per fare il primo ingresso nel foro con un rito di passaggio dall’adolescenza alla maturità) nel 175 d.C..Nel 161 d.C. l’imperatore Marco Aurelio fu costretto a ridurre il titolo d’argento del “denario” dall’83,5% al 79% (percentuale di purezza); ma, pochi anni più tardi, nel 168 d.C., rivalutò il denario, incrementando il suo titolo dal 79% all’82% passando da 2.57 grammi a 2.67 grammi; poi, dopo circa due anni, fu costretto di nuovo a tornare al precedente titolo a causa della guerra germanica e della conseguente crisi militare lungo le frontiere settentrionali.[42] Nel 177 d.C., quando egli associò al trono il figlio, attribuendogli la tribunicia potestas, quest’ultimo organizzò un nuovo congiarium con spettacoli di gladiatori e distribuì un nuovo congiarium al popolo di ben settecentoventicinque denari. La narrazione di Ippolito riguardante il “crack” della banca amministrata dal cristiano Callisto, schiavo del liberto imperiale Carpoforo, è di sicuro interesse. Da essa si possono trarre indicazioni significative:

1) il tipo di attività svolta;

2) l’assetto organizzativo della banca;

3) le cause della crisi e l’emersione della stessa;

4) la condanna di Callisto;

5) la posizione dei creditori.

La presenza a Roma di attività che oggi potremmo definire “finanziarie”, come abbiamo detto in precedenza, è attestata fin da epoca assai risalente. Per esempio, Livio menziona l’esistenza di tabernae argentaria e nel foro già intorno al 310 a.C. Per un periodo più recente, a ridosso delle guerre puniche, abbiamo le ben note testimonianze di Plauto.[43] In particolare, la crescente egemonia romana nel bacino del Mediterraneo, che ha inizio con la vittoria nella I guerra punica, come abbiamo detto nel primo paragrafo, comporta una incisiva  trasformazione dell’economia e, di conseguenza, il credito assume il ruolo di fattore trainante delle sempre più numerose attività commerciali che si sviluppano, si consolidano e si affermano a partire da questo periodo. Si può provare ad affrontare tematiche come il “fallimento della banca” ripercorrendo la vicenda del caso Callisto, schiavo del liberto imperiale Carpoforo, vicenda che si svolse a Roma sotto Commodo, probabilmente nel 188 d.C.[44], e che all’epoca dovette destare un certo scalpore, specialmente all’interno della comunità cristiana. Partiamo dalla lettura della fonte che ce ne riporta ampia notizia: si tratta del Κατὰπασῶν αἱρέσεων ἔλεγχος (o Refutatio omnium haeresium) attribuito a Ippolito Romano[45], un’opera pervasa da un astio profondo nei confronti di Callisto, dettato sia dalle divergenze dottrinarie sia dalla concorrenza tra i due personaggi per conseguire il primato nella comunità cristiana di Roma, ulteriormente esacerbato dal fatto che Callisto, dapprima schiavo, poi liberto, al culmine di una vita assai movimentata divenne papa dal 217 al 222[46], andando infine incontro al martirio, linciato della plebe inferocita contro i cristiani. Il brano che qui interessa è ref. 9.12.1-9:[47]

[1] Οἰκέτης ἐτύγχανε Καρποφόρου τινός, ἀνδρὸς πιστοῦ ὄντος ἐκ τῆς Καίσαρος οἰκίας. τούτῳ ὁ Καρποφόρος, ἅτε δὴ ὡς πιστῷ, χρῆμα οὐκ ὀλίγον κατεπίστευσεν, ἐπαγγειλάμενος κέρδος προσοίσειν ἐκ πραγματείας τραπεζιτικῆς ὃς λαβὼν τράπεζαν ἐπεχείρηςεν ἐν τῇ λεγομένῃ Πισκίνῃ πουπλικῇ. ᾧ οὐκ ὀλίγαι παραθῆκαι τῷ χρόνῳ ἐπιστεύθησαν ὑπὸ χηρῶν καὶ ἀδελφῶνπροσχήματιτοῦ Καρποφόρου ὁ δὲ ἐξαφανίσας τὰ πάντα ἠπόρει. οὗ ταῦτα πράξαντος οὐκ ἔλιπεν ὃς ἀπαγγείλῃ τῷ Καρποφόρῳ, [2] ὁ δὲ ἔφη ἀπαιτ<ήσ>ειν λόγους παρ' αὐτοῦ. ταῦτα<δὲ> συνιδὼν ὁ Κάλλιστοςκαὶ τὸν παρὰ τοῦ δεσπότου κίνδυνον ὑφορώμενος, ἀπέδρα τὴν φυγὴν κατὰ θάλασσαν ποιούμενος ὃς εὑρὼν πλοῖον ἐν τῷ Πόρτῳ ἕτοιμον πρὸςἀναγωγήν, ὅποι <ἂν> ἐτύγχανε πλέονἀνέβ(η)πλευσόμενος ἀλλ'οὐδὲ οὕτως λαθεῖν δεδύνηται. οὐ γὰρ ἔλιπεν ὃς ἀπαγγείλῃ τῷ Καρποφόρῳ τὸ γεγε/νημένον. [3] ὁ δὲ ἐπιστὰ(ς)κατὰ τὸν λιμένα ἐπειρᾶτο ἐπὶ τὸ πλοῖον ὁρμᾶν κατὰ <τὰ> μεμ(η)νυμένα τοῦτο γὰρ ἦν ἑστὸς ἐν μέσῳ τῷ λιμένι. τοῦ δὲ πορθμέως βραδύνοντος, ἰδὼν πόρρωθεν ὁ Κάλλιστος τòν δεσπότην, ὢν ἐν τῷ πλοίῳ καὶ γνοὺς ἑαυτὸν συνειλῆφθαι, ἠφείδησε τοῦ ζῆν καὶ ἔσχατα ταῦτα λογισάμενος <εἶναι>ἔρριψεν ἑαυτὸν εἰς τὴν θάλασσαν. [4] οἱ δὲ ναῦται καταπηδήσαντες εἰς τὰ σκάφη ἄκοντα αὐτὸν ἀνείλοντο, τῶν δὴ ἀπὸ τῆς γῆς μεγάλα βοώντων, καὶ οὕτως τῷ δεσπότῃ παραδοθεὶς ἐπανήχθη εἰς τὴν Ῥώμην. ὃν ὁ δεσπότης εἰς πιστρῖνον κατέθετο. [5] Χρόνου δὲ διελθόντος, ὡς συμβαίνει γίνεσθαι, προσελθόντες ἀδελφοὶ παρεκάλουν τὸν Καρποφόρον, ὅπως ἐξαγάγῃ τῆς κολάσεως τὸν δραπέτην, φάσκοντες αὐτὸν ὁμολογεῖν ἔχειν παρά τισι χρῆμα ἀποκείμενον. [6] ὁ δὲ Καρποφόρος, ὡς εὐλαβής, τοῦ μὲν ἰδίου ἔλεγεν ἀφειδεῖν, τῶν δὲ παραθηκῶν φροντίζειν - πολλοὶ γὰρ αὐτῷ ἀπεκλαίοντο λέγοντες ὅτι τῷ αὐτῦπροσχήματιἐπίστευσαν τῷ Καλλίστῳ ἃ πεπιστεύκεισαν -, καὶ πεισθεὶς ἐκέλευσεν ἐξαγαγεῖν αὐτόν. [7] ὁ δὲ μηδὲν ἔχων ἀποδιδόναι, καὶ πάλιν ἀποδιδράσκειν μὴ δυνάμενος διὰ τὸ φρουρεῖσθαι, τέχνην θανάτου ἐπενόησε καὶ σαββάτῳ, σκηψάμενος ἀπιέναι ὡς ἐπὶ χρεώστας, ὥρμησεν ἐπὶ τὴνσυναγωγὴν τῶν Ἰουδαίων συνηγμένην καὶ στὰς κατεστασίαζεν αὐτῶν. οἱ δὲ καταστασιασθέντες (ὑ)παὐτοῦ, ἐνυβρίσαντες αὐτὸν καὶ πληγὰς ἐμφορήσαντεςἔσ(υ)ρον ἐπὶ τὸν Φουσκιανόν, ἔπαρχον ὄντα τῆς πόλεως. [8] ἀπεκρίναντο δὲ τάδε Ῥωμαῖοι συνεχώρησαν <μὲν> ἡμῖν τοὺς πατρῴους νόμουςδημοσίᾳ ἀναγινώσκειν, οὗτος δὲ ἐπεισελθὼν / ἐκώλυε καταστασιάζων ἡμῶν, φάσκων εἶναιΧριστιανός. τοῦ δὲ Φο<υ>σκιανοῦ πρὸ βήματος τυγχάνοντος καὶ τοῖς ὑπὸ <τῶν> Ἰουδαίων λεγομένοις κατὰ τοῦ Καλλίστου ἀγανακτοῦντος, οὐκ ἔλιπεν ὁ ἀπαγγείλας τῷ Καρποφόρῳ τὰ πρασσόμενα. [9] ὁ δὲ σπεύσας ἐπὶ τὸ βῆμα τοῦ ἐπάρχου ἐβόα δέομαι, κύριεΦουσκιανέ, μὴσ<ὺ>αὐτῷ πίστευε οὐ γάρ ἐστι Χριστιανός, ἀφορμὴν δὲ ζητεῖ θανάτου χρήματά μου πολλὰ ἀφανίσας, ὡς ἀποδείξω. τῶν δὲ Ἰουδαίων ὑποβολὴν τοῦτο νομισάντων, ὡς ζητοῦντος τοῦ Καρποφόρου ταύτῃ τῇ προφάσει ἐξελέσθαι αὐτόν, μᾶλλον ἐπιφθόνως κατεβόων τοῦ ἐπάρχου. ὁ δὲ κινηθεὶς ὑπ' αὐτῶν, μαστιγώσας αὐτὸν ἔδωκεν εἰς μέταλλον Σαρδονίας.

[1] Si dà il caso che (Callisto) lavorasse come schiavo di un certo Carpoforo, un fedele della casa dell'imperatore. Carpoforo gli affidò considerando che era fedele, una somma non piccola di denaro con l’incarico di farla fruttare mediante operazioni finanziarie; questi accettò e avviò una banca nella cosiddetta Piscina Pubblica. Col tempo gli furono affidati non pochi depositi da vedove e confratelli grazie alla reputazione di Carpoforo, ma Callisto perse tutto e rimase senza un quattrino. Di questo suo comportamento non mancò chi presentasse denuncia a Carpoforo,[2] il quale rispose che gliene avrebbe chiesto conto. Callisto, venuto a sapere ciò e temendo il pericolo da parte del padrone, scappò dandosi alla fuga per mare: trovata una nave al Porto pronta per la partenza, si imbarcò per navigare ovunque capitasse che la nave fosse diretta. Eppure nemmeno così poté restare nascosto: non era mancato, infatti, chi denunciasse a Carpoforo quanto era accaduto. [3] Questi, saputolo, fece del suo meglio per raggiungere in fretta il molo ove, secondo quanto gli era stato raccontato, la nave si trovava; in effetti il vascello era alla fonda in mezzo al porto. Poiché il capitano tardava a salpare, Callisto, dalla tolda, scorse in lontananza il padrone e, sapendo che sarebbe stato catturato, non ebbe riguardo della vita: conscio che ormai era la fine, si gettò in mare. [4] I marinai saltati nelle scialuppe tirarono su Callisto a viva forza, mentre alcuni urlavano alto da terra, e così, dopo essere stato riconsegnato al padrone, fu riportato a Roma. Il padrone lo mise a lavorare al mulino. [5] Trascorso del tempo, come suole accadere, vennero alcuni confratelli per chiedere a Carpoforo di liberare dalla punizione il fuggitivo, dicendo che questi sosteneva di aver prestato del denaro a certa gente. [6] Carpoforo allora, da uomo pio, rispose che non gli interessava del proprio denaro, ma gli importava dei depositi altrui (molti, infatti, venivano a piangere da lui dicendo che proprio per la reputazione di Carpoforo avevano dato a Callisto il denaro presso di lui investito) e, persuaso, ordinò che fosse liberato. [7] Callisto non avendo nulla da restituire e non potendo scappare via di nuovo poiché era sorvegliato, escogitò un modo per morire e un sabato, facendo finta di andare dai debitori, si diresse verso la sinagoga dov’erano riuniti gli Ebrei e qui, alzatosi, cominciò a polemizzare con loro. Quelli che avevano subìto le sue provocazioni, dopo averlo insultato e bastonato, lo portarono da Fusciano, il prefetto all’Urbe. [8] Si difesero in questo modo: mentre i Romani ci concessero di professare in pubblico le leggi dei padri, costui, arrivato qua, ce lo impediva mettendoci in agitazione, affermando d'essere un cristiano. Mentre Fusciano presiedeva il tribunale ed era in collera per ciò che gli Ebrei dicevano contro Callisto, non mancò una persona che andasse da Carpoforo a raccontare quanto era accaduto. [9] Questi, corso al tribunale del prefetto, si mise a gridare: “Ti prego, signore Fusciano, di non credere a quello lì: non è per niente un cristiano, ma cerca un pretesto di morte poiché ha perduto molti soldi miei, come dimostrerò”. Siccome gli Ebrei credevano che fosse una finzione (come se Carpoforo con questo pretesto volesse far in modo che Callisto fosse liberato) urlavano con ancor più foga davanti al prefetto. Fusciano, istigato da costoro, dopo averlo fatto flagellare condannò Callisto ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna

I punti da chiarire nella vicenda narrata da Ippolito sono sostanzialmente cinque:

I) l’assetto organizzativo impresso da Carpoforo alla banca gestita da Callisto, suo schiavo, con particolare riguardo al ruolo di questi;

II) le cause che scatenano la crisi della banca;

III) il meccanismo che si innesta nel momento in cui tale crisi si manifesta in tutta la sua gravità, con l’insolvenza di Callisto nei confronti dei creditori della banca;

IV) la tipologia di attività negoziali poste in essere da Callisto con la clientela;

V) se e come i creditori della banca vedono riconosciute le proprie pretese.

Partendo dall’assetto organizzativo della banca e il ruolo di Callisto, possiamo affermare che l’attività di Callisto inizia quando il suo dominus Carpoforo gli affida una significativa somma di denaro da far fruttare in operazioni finanziarie, aventi la propria sede in una banca aperta presso la cosiddetta Piscina Pubblica (che nel tempo divennero le Terme di Caracalla): per l’esattezza, l’attività iniziale della banca consiste nel prestito feneratizio, cioè nel prestito a interesse. In seguito, Callisto non si limita a concedere prestiti, ma inizia a ricevere depositi da vedove e confratelli[48], i quali sono incoraggiati ad avvalersi dei servizi offerti dalla banca dalla retta reputazione di cui gode Carpoforo; questo profilo, che emerge a più riprese nel corso della narrazione di Ippolito è decisivo per comprendere non solo il ruolo giocato da Callisto all’interno dell’impresa bancaria da lui gestita, ma anche le vicende della banca a lui affidata, in ordine alle quali Ippolito è talora reticente, essendo più attento, nel corso della sua narrazione, a cercare di metter in cattiva luce il suo antagonista. Ora, come tutte le imprese (negotiationes)[49] “terrestri”, quella bancaria, come è stato accennato in questo capitolo, può presentare almeno due distinti assetti organizzativi: impresa individuale o impresa collettiva; peraltro, nell’impresa bancaria collettiva, basata su un contratto di societas fra gli argentarii o i nummularii, i socii sono tenuti tra loro da un regime di solidarietà attiva e passiva e di reciproca rappresentanza,che costituisce un’eccezione rispetto al regime ordinario del contratto di societas. Nel caso in esame, comunque, non v’è dubbio che ci si ritrova dinanzi ad un’impresa di tipo individuale, avente quale unico titolare Carpoforo, il quale però non esercita l’attività in prima persona, ma per mezzo di un suo servus di fiducia, Callisto. Ed è proprio la posizione di questi ad apparire incerta, poiché nel caso in cui l’impresa sia esercitata non direttamente dal titolare (o dai titolari, dato che l’alternativa sussiste anche nel caso di impresa collettiva), ma da un soggetto sottoposto alla sua potestas, filius o servus, sono configurabili due diversi assetti organizzativi: quello imperniato sulla preposizione institoria, per il quale il titolare dell’impresa bancaria,nomina un institor, filius o servus, ma in epoca imperiale anche un estraneo rispetto alla sua sfera potestativa[50]; alla gestione della banca o comunque di un’attività finanziaria; nel caso di insolvenza dell’institor, i terzi con i quali questi avesse concluso negozi compresi nell’ambito della praepositio, avrebbero convenuto in giudizio il preponente con l’actio institoria; questi, se condannato, avrebbe dovuto rispondere in solidum, cioè illimitatamente, per le obbligazioni assunte dal preposto; quello imperniato sulla concessione di un peculiumda parte del titolare della banca, pater o dominus, rispettivamente al filius o al servus, affinché il sottoposto lo impieghi nella gestione della banca;nel caso di insolvenza del filius o del servus peculiatus, i terzi avrebbero convenuto in giudizio il pater o il dominus con l’actio de peculio et de in rem verso; questi, se condannato, avrebbe dovuto rispondere per le obbligazioni assunte dal filius o dal sevus limitatamente al peculium o alla versio in rem, cioè nei limiti dell’eventuale arricchimento derivante dall’attività negoziale del sottoposto. Ora, il testo di Ippolito non chiarisce il dubbio circa la qualifica di Callisto, forse anche perché la lingua greca non ha consentito l’impiego della terminologia tecnica che sul punto sarebbe risolutiva. D’altro canto, lo stesso testo presenta degli elementi che potrebbero essere addotti a sostegno di entrambe le soluzioni:

a) il fatto che Carpoforo affidi a Callisto una rilevante somma di denaro, affinché la faccia fruttare mediante operazioni finanziarie, e che quest’ultimo eserciti questa attività con così ampia autonomia da andare oltre l’originario incarico (che sembrerebbe limitato al prestito feneratizio) e iniziare a ricevere depositi da clienti, sembra indurre a ritenere che Callisto sia un servuspeculiatus[51];

b) d’altro canto, il dominus non si limita ad affidare a Callisto la somma di denaro, ma lo insedia in un edificio situato nel quartiere della Piscina Pubblica, nel quale ha sede la banca[52]; questo ulteriore elemento può configurare altrettanto bene una situazione in cui Carpoforo prepone Callisto all’esercizio di una impresa (negotiatio) in una tabernainstructa; in tal caso Callisto sarebbe un institor.[53] Si noti anche che vedove e confratelli affidano a Callisto i propri risparmi, confidando sulla retta reputazione di Carpoforo; inoltre Carpoforo sembra ingerirsi piuttosto di frequente negli affari della banca; questi due ultimi particolari potrebbero rafforzare l’ipotesi dell’esistenza, nel caso di specie, di una preposizione institoria, resa pubblica mediante una proscriptio, che contiene una esplicita assunzione di responsabilità da parte del preponente per l’attività negoziale (rientrante nell’ambito della praepositio o comunque connessa all’oggetto di questa) posta in essere dal preposto.

Tale pubblica assunzione di responsabilità veniva resa nota alla potenziale clientela dell’impresa per mezzo di un cartello di norma esposto davanti alla taberna o comunque alla sede dell’impresa stessa.

Se così fosse, pertanto, la proscriptio affissa dinanzi alla banca avrebbe dovuto recare il nome del preponente (Carpoforo), il nome del preposto in qualità di institor (Callisto), l’indicazione del suo status (schiavo di Carpoforo), l’indicazione del negozio a lui affidato (il prestito feneratizio).

Dopo aver descritto gli esordi di Callisto nel mondo della finanza e degli affari, ora analizzeremo le cause della crisi. Ippolito narra che Callisto perse tutto e rimase senza un quattrino (ref. 9.12.1); occorre quindi capire se la responsabilità del crack sia attribuibile a Callisto, e quindi a sue operazioni speculative avventate[54], quali la scelta di debitori che poi si siano rivelati non solvibili o la mancata assunzione di garanzie adeguate, oppure, come sostengono alcuni storici moderni, a una cattiva congiuntura finanziaria creatasi durante il regno di Commodo e testimoniata dalle fonti. La seconda spiegazione sembra, secondo gli studiosi, la più plausibile. Semplificando al massimo il discorso, la congiuntura negativa sarebbe stata causata dalla riduzione del contenuto argenteo del denarius[55], che produsse effetti rovinosi proprio su operazioni del genere di quelle che Callisto poneva in essere nella sua banca, cioè il prestito a interesse e il ricevimento di depositi. Infatti, poiché all’epoca il valore reale delle somme non poteva essere intaccato, le banche erano costrette a garantire i depositi con una quantità maggiore di moneta divisionale e richiedere tassi di interessi sempre più alti ai propri debitori. Ciò potrebbe aver determinato, pertanto, la concreta impossibilità per quei soggetti ai quali la banca aveva erogato i prestiti feneratizi di restituire i capitali ricevuti e gli interessi, accresciuti notevolmente per il fenomeno appena descritto. È inoltre probabile che, nel caso di specie, almeno in base agli indizi, pur di parte, forniti da Ippolito, Callisto avesse ricevuto i depositi senza che questi avessero le idonee coperture e li avesse poi impiegati in prestiti non adeguatamente garantiti. Infatti, anche nel caso di deposito non fruttifero, in deroga alla disciplina ordinaria del deposito - per la quale il depositario non può utilizzare il bene ricevuto ed è responsabile per furto d’uso, se lo fa - il banchiere può utilizzare il denaro depositato, purché nella banca vi sia la somma corrispondente sempre a disposizione del cliente depositante che, in tal modo, la può ritirare in qualsiasi momento.[56] Ma se il banchiere risulta privo della suddetta copertura, perché l’ha utilizzata in prestiti che non sono stati onorati dai debitori, nel momento in cui i depositanti richiedono indietro il denaro e questo non viene restituito loro è conclamata l’insolvenza della banca. Questo, forse, è proprio ciò che dovette succedere a Callisto. Con l’esplosione della crisi, quello che ci si chiede è: quale meccanismo si innesca nel momento in cui i creditori della banca, cioè le vedove e i confratelli che avevano depositato i propri risparmi, si presentano a Carpoforo per fargli presente l’insolvenza del suo schiavo? Il liberto si impegna nei loro confronti a chiedere i conti a Callisto e questi, venutolo a sapere, pur di sfuggire alle ire del suo padrone, si dà alla fuga[57] e cerca di imbarcarsi a Porto su una nave diretta verso qualsiasi destinazione (ref. 9.12.2).[58] Tuttavia la sua fuga viene segnalata a Carpoforo, che riesce a raggiunge il suo servus e dopo varie peripezie ad averlo in consegna (ref. 9.12.3).Carpoforo lo riconduce a Roma e lo mette a lavorare in un mulino (pistrinum[59]) (ref. 9.12.4); è superfluo precisare che ci si trova dinanzi semplicemente all’esercizio del ius puniendi da parte del dominus nei confronti dello schiavo fuggiasco e non a una condanna della pubblica autorità.[60] Fin qui il racconto di Ippolito, pur vivido e ricco di particolari, si limita a descrivere il rocambolesco tentativo di fuga del nostro personaggio e l’inevitabile punizione comminatagli dal suo padrone, ma successivamente l’autore riporta delle notizie che offrono alcuni elementi utili ai fini della configurazione giuridica, se così si può dire, della crisi della banca, ormai conclamata. Infatti Ippolito ci dice che dopo un pò di tempo alcuni confratelli chiesero a Carpoforo di liberare Callisto, poiché questi affermava di aver prestato del denaro a delle persone (ref. 9.12.5) (notizia, del resto, del tutto plausibile, dato che il prestito a interesse doveva essere, almeno nelle intenzioni iniziali di Carpoforo, l’attività della banca).Quest’ultimo dichiara ai creditori di non essere interessato al proprio denaro, ormai perduto, ma ai depositi dei suoi clienti, anche perché molti fra costoro erano andati a lamentarsi proprio con lui dell’insolvenza di Callisto, affermando di aver depositato il denaro nella banca perché facevano affidamento sul suo buon nome e sulla sua retta reputazione (ref. 9.12.6).L’atteggiamento di Carpoforo è davvero singolare: egli avrebbe potuto far presente ai creditori che lo assillavano che il ricevimento dei depositi non costituiva oggetto della praepositio di Callisto (se è corretta la narrazione dei fatti dovuta a Ippolito) e invece si assume esplicitamente la responsabilità per i debiti che questi aveva contratto con i depositanti. Così, per dare concreta attuazione al suo impegno, Carpoforo libera Callisto dal mulino, ma questi non riesce a recuperare il denaro che aveva prestato: Ippolito, con la solita malevolenza, racconta che a questo punto Callisto, per cercare ancora la morte, si sarebbe recato presso la sinagoga per provocare gli Ebrei, disturbandoli durante le celebrazioni del sabato, con la scusa di voler richiedere loro il denaro del quale erano debitori. Dal particolare appena riferito emerge un elemento assai significativo ai fini della ricostruzione delle attività finanziarie esercitate dalla banca gestita da Callisto: essa eroga prestiti a interesse a soggetti estranei rispetto alla comunità cristiana e riceve depositi da vedove e confratelli della comunità. In buona sostanza, uno dei due settori finanziari, se così si può dire, è rivolto all’esterno della comunità, mentre l’altro è rivolto all’interno di questa. Ora, Ippolito pare dare per scontato che pur non avendo dato Carpoforo a Callisto l’incarico di ricevere i depositi dei confratelli, egli si senta comunque responsabile nei confronti di costoro. In proposito si può ipotizzare, sia pure con cautela, che Carpoforo - che sembra occupare una posizione di prestigio nella comunità cristiana di Roma - sia stato previamente informato dai confratelli che essi erano intenzionati ad affidare i propri risparmi alla sua banca. Se ciò fosse accaduto, sarebbe stato ben possibile che Carpoforo avesse approvato, anche solo tacitamente, l’ampliamento del raggio di affari operato da Callisto e, di conseguenza, che egli fosse a conoscenza dei depositi già prima dell’esplosione della crisi. Ma siamo ovviamente sul piano delle congetture: il brano di Ippolito non consente davvero di dare un riscontro oggettivo a questa, ripetiamo, pur possibile spiegazione del comportamento responsabile di Carpoforo nei confronti dei depositanti. Occorre analizzare un ulteriore problema, relativo al tipo di contratto che i creditori della banca potevano aver stipulato con Callisto. Anche in ordine a tale profilo giuridico il testo di Ippolito non risulta essere risolutivo, poiché egli usa il termine παραθήκη (ref. 9.12.1; 6), che designa il deposito greco (detto anche παρακαταθήκη), il quale aveva un ambito negoziale più ampio rispetto al deposito irregolare romano, potendo avere per oggetto sia il denaro sia altri beni fungibili e, nel caso del denaro, essere chiuso o aperto e prevedere o meno la corresponsione di interessi, secondo gli accordi tra le parti.[61] Si possono comunque richiamare molto rapidamente tre testi del Digesto, che abbiamo visto in questo capitolo, relativi proprio all’insolvenza della banca, che offrono spunti utili ai fini della risoluzione del problema appena segnalato D. 16.3.7.2-3, D. 16.3.8 e D. 42.5.24.2[62] Dalla narrazione di Ippolito non risulta che tipo di deposito avessero concluso le vedove e i confratelli, se un deposito “chiuso”, oppure un deposito produttivo di interessi, che per Ulpiano, come si evince, non garantirebbe comunque una posizione privilegiata al creditore della banca nel caso di procedura esecutiva per l’insolvenza di questa. Secondo gli studiosi gli interessi che la banca richiedeva ai clienti ai quali aveva erogato prestiti erano più alti di quelli che la stessa pagava sui depositi fruttiferi e questo avrebbe dovuto consentire, in una congiuntura economica “sana”, un buon margine di guadagno per la banca. Ora, anche alla luce di questa importante osservazione, si può provare a capire cosa sia successo alla banca gestita da Callisto; si debbono fare tre considerazioni, suggerite dal confronto tra i testi del Digesto sopra citati e la narrazione di Ippolito (ref. 9.12.1;5):

1) i depositanti - qualificati come vedove e confratelli - sembrano essere piccoli risparmiatori non propensi a rischiose speculazioni finanziarie; essi si rivolgono alla banca per ottenere un servizio di custodia delle proprie somme, il che non dovrebbe escludere la possibilità di percepire anche degli interessi. Elemento decisivo ai fini della conclusione del contratto è la retta reputazione, il buon nome di cui gode Carpoforo (ref. 9.12.1;6), che pare richiamare la fides publica di cui godono i banchieri, menzionata per esempio da Ulpiano in D. 42.5.24.2 (Ulp. 63 ad ed.);

2) non sembra che nel caso sia riscontrabile la varietà di creditori che risulta dai due passi di Ulpiano; non dovrebbe pertanto porsi il problema del grado in base al quale essi potranno rivalersi;

3) nel momento in cui gli affari della banca iniziano ad andar male e i depositanti si rendono conto che Callisto non è più grado di restituire loro le somme affidate, Carpoforo, avvisato della crisi, chiede a Callisto i registri della contabilità e questi, spaventato, si dà alla fuga (ref. 9.12.2).

In questo momento Carpoforo è ormai a conoscenza dell’insolvenza del suo servus, ma ciò che egli con buona probabilità vuol verificare è se questi abbia utilizzato per i prestiti a interesse non solo la somma di denaro che gli aveva affidato a tal fine, ma anche i depositi di vedove e confratelli e, soprattutto, se Callisto abbia fatto queste operazioni senza che vi fosse nella cassa della banca il denaro necessario per restituire le somme oggetto dei depositi a richiesta dei depositanti. Proprio quest’ultimo è il “punto dolente” della gestione di Callisto: egli ha impiegato nel prestito a interesse non solo la somma affidatagli da Carpoforo, ma anche i depositi dei confratelli, i quali ben difficilmente potevano averlo incaricato di svolgere speculazioni finanziarie coi loro risparmi. Forse, in una situazione finanziaria “sana”, nella quale i debitori della banca sono di norma adempienti, l’operazione poteva aver un margine di rischio non eccessivo e garantire da una parte buoni guadagni alla banca e, dall’altra, interessi per i depositanti, ma nella cattiva congiuntura finanziaria che si crea sotto il regno di Commodo l’operazione diventa rovinosa perché, come si è visto, i debitori della banca che avevano da questa ricevuto i prestiti non sono più in grado di restituire le somme ricevute con gli interessi; quindi Callisto, a sua volta, non può restituire ai depositanti le somme che costoro gli avevano affidato e la sua azzardata operazione diventa palese. Analizzando ora la condanna di Callisto, è necessario tornare al racconto di Ippolito. Abbiamo visto che Callisto si reca di sabato alla sinagoga, secondo l’autore per provocare gli Ebrei e trovare la morte nel tumulto; più verosimilmente, per chiedere ai debitori della banca, almeno in parte membri di questa comunità, la restituzione delle somme ricevute in prestito con gli interessi maturati. I debitori, però, com’era prevedibile, si infuriano con Callisto, la discussione forse degenera dal campo degli affari a quello religioso - sembra infatti avvertirsi, secondo la Ligios, una certa tensione tra le due comunità - e ne nasce una rissa, nel corso della quale Callisto viene insultato e malmenato, per poi essere trascinato dinanzi al praefectusurbi Seio Fusciano (ref. 9.12.7[63] Col prefetto gli Ebrei si lamentano del disturbo arrecato da Callisto alle loro funzioni, facendo presente che i Romani permettevano loro di praticare pubblicamente i propri culti, cosa che Callisto aveva impedito col suo comportamento (ref. 9.12.8)[64] A questo punto, sempre davanti al prefetto, interviene Carpoforo prontamente avvisato dei guai del suo servus, il quale accusa Callisto per il cattivo andamento dei suoi affari e nega che questi appartenga alla comunità cristiana (gli Ebrei lo avevano accusato, dicendo che li aveva disturbati dichiarandosi cristiano), ma Seio Fusciano, istigato dagli Ebrei, fa flagellare Callisto e lo condanna ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna (ref. 9.12.9). Ciò che ci si domanda è:

1) A quale titolo Seio Fusciano pronuncia questa condanna?

2) Per quale crimine Callisto è stato denunciato dagli Ebrei?

3) Per il fatto di essere cristiano o per il tumulto alla  Sinagoga?[65]

È del tutto plausibile che gli Ebrei, proprio facendosi forti della protezione accordata loro, abbiano denunciato Callisto per il grave disturbo arrecato al culto e si siano difesi per aver partecipato a una rissa che doveva aver evidentemente turbato l’ordine pubblico, il cui mantenimento era proprio demandato al praefectus urbi. Mazzarino, ipotizza che Seio Fusciano possa aver condannato Callisto in applicazione del rescritto di Marco Aurelio menzionato in D. 48.19.30 (Mod. 1 de poen.):

D. 48.19.30 Modestinus libro I de poenis: Si quis aliquid fecerit, quo leves hominum animi superstitione numinis terrentur, divus Marcus huiusmodi homines in insulam relegari rescripsit.

In realtà si tratta di capire se il rescritto sanzioni la condotta di chi abbia suscitato uno smodato terrore di carattere religioso in persone dal carattere non saldo[66] (e in questo caso non dovrebbe essere applicabile a Callisto) oppure la condotta che abbia urtato il sentimento religioso delle persone, causando fra queste terrore e quindi agitazione e perturbamento dell’ordine pubblico[67] Se il rescritto è focalizzato su questa seconda tipologia di condotta, punita per l’allarme sociale che essa suscita, non si può escludere, seguendo l’autorevole opinione di Mazzarino, che Seio Fusciano possa aver condannato Callisto proprio in applicazione del rescritto di Marco Aurelio.Ora ci poniamo un ulteriore interrogativo ovvero: come hanno agito i creditori della banca per far valere le proprie pretese? All’epoca, come già detto, per le liti nelle quali una delle parti fosse stato un argentarius o un nummularius, v’era l’alternativa tra il processo formulare e la procedura cognitoria e si poteva, pertanto:

a) agire davanti al praetor con l’actio depositi, adattata come actio depositi institoria - se, come pare più probabile, Callisto avesse rivestito la qualifica di institor- o come actio depositi de peculio et de in rem verso - se Callisto fosse stato un servuspeculiatus; l’actiodepositi in ius ex fide bona (o institoria o de peculio et de in rem verso) avrebbe implicato la condanna per Carpoforo, convenuto per le obbligazioni assunte da Callisto, anche al pagamento degli interessi convenzionali; se Carpoforo non avesse potuto ottemperare alla condanna, a questa sarebbe eventualmente seguita la bonorum venditio, secondo la procedura abituale, che parrebbe quella seguita nei tre testi del Digesto esaminati in questo capitolo,nei quali appunto si evidenzia l’ordine secondo il quale debbono essere soddisfatti i creditori dell’argentarius o del nummularius insolvente. Nel nostro caso, però, non sembra che i depositanti si siano avvalsi di questa misura processuale. Secondo Ippolito, infatti, essi si rivolgono direttamente a Carpoforo e questi risponde loro che avrebbe richiesto le rationes al proprio servus. Inoltre i depositanti fanno presente a Carpoforo che Callisto aveva rivelato loro l’esistenza di crediti vantati dalla banca nei confronti di altri clienti (almeno in parte, a quanto pare, membri della comunità ebraica di Roma), ragion per cui il dominus libera il servus dal mulino affinché li possa riscuotere;

b) accantonata l’ipotesi del procedimento formulare, si può considerare l’alternativa del processo cognitorio dinanzi al praefectus urbi.

Ma anche tale evenienza pare improbabile, poiché Ippolito nomina più volte Seio Fusciano, che all’epoca dei fatti rivestiva tale carica, e descrive dettagliatamente il procedimento nei confronti di Callisto per la rissa alla sinagoga, ma non dice nulla in merito a un eventuale processo per l’insolvenza di Callisto, che avrebbe dovuto aver luogo nei confronti di Carpoforo. Infatti Carpoforo si presenta dinanzi al praefectus urbi solo per negare che il suo servus sia cristiano e affermare di aver subito una forte perdita per il suo comportamento (con l’intento, probabilmente, di allontanare l’attenzione della pubblica autorità dalla comunità cristiana). Ora, facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire per quale ragione, forse, i creditori della banca non diedero inizio a nessuna delle procedure alternativamente a loro disposizione: in ref. 9.12.6 si legge che Carpoforo si impegna personalmente nei confronti delle vedove e dei confratelli per consentire loro il recupero dei depositi e afferma di non preoccuparsi per la somma di denaro che egli stesso aveva affidato a Callisto perché avviasse l’attività creditizia, alla cui perdita si era evidentemente rassegnato. Pertanto, a fronte dell’impegno di Carpoforo, è ipotizzabile che i creditori si aspettino che il liberto imperiale provveda con prontezza e in prima persona a onorare i debiti assunti dal suo schiavo. Forse anch’essi, al pari di Carpoforo, non vogliono attirare l’attenzione della pubblica autorità sulla comunità cristiana, agendo in giudizio per far valere le proprie pretese. Questa ipotesi è rafforzata dalle stesse parole che Carpoforo pronuncia dinanzi a Seio Fusciano: egli dice che Callisto gli ha fatto perdere una grossa somma, ma non accenna minimamente alla perdita dei depositi e, più in generale, al crack della banca. A queste considerazioni si deve aggiungere l’argomento più significativo, quello e silentio: Ippolito non fa menzione alcuna di un procedimento, formulare o extra ordinem, nei confronti di Carpoforo per la “bancarotta” di Callisto, né, tanto meno, dell’apertura di una eventuale procedura concorsuale, che si sarebbe dovuta svolgere sempre nei confronti di Carpoforo, con gravissime conseguenze patrimoniali e non. Se anche solo una di queste tre possibili procedure avesse avuto luogo, Ippolito ne avrebbe dato sicuramente conto, al fine di gettare ulteriore discredito sul suo rivale e invece, nella sua narrazione, non v’è riferimento alcuno in tal senso. Un profilo da tenere ben presente consiste nel fatto che sia se i creditori avessero scelto la procedura formulare sia se si fossero rivolti al praefectus urbi, sia se si fosse aperta la procedura concorsuale, il procedimento sarebbe stato comunque contro Carpoforo, perché è il dominus a dover rispondere dell’attività negoziale posta in essere dal servus preposto alla mensa, come risulta dai testi in tema di preposizione institoria e, nello specifico, da quelli relativi a questo genere di negotiatio, principio ancora ribadito da una costituzione di Alessandro Severo del 230 d.C., riportata, come analizzato in questo capitolo, in C. 4.25.3.[68] Nel caso narrato da Ippolito - che presenta degli evidenti profili di analogia con la fattispecie in merito alla quale era stata emanata questa costituzione imperiale - sarebbe dovuto essere Carpoforo a dover rispondere in giudizio per i debiti contratti da Callisto.[69] Dunque, se riconsideriamo ref. 9.12.1, pare chiaro, malgrado il lieve margine di incertezza derivante dal testo greco, che Carpoforo ricorra agli “strumenti giuridici” del diritto romano (probabilmente praepositio dell’institor e taberna instructa) per organizzare la sua impresa bancaria, predisponendo a tal fine un complesso di beni e preponendovi Callisto. Ma, nel momento in cui gli affari iniziano ad andar male e si profila in tutta la sua gravità lo stato d’insolvenza, i depositanti non si avvalgono dei mezzi di tutela predisposti dal diritto romano: essi non esperiscono l’actio institoria davanti al pretore, né in alternativa si rivolgono al praefectus urbi. Dalla narrazione di Ippolito risulta inoltre con chiarezza come si cerchi di risolvere le questioni della banca all’interno della comunità cristiana, senza far ricorso all’autorità pubblica: c’è sempre qualcuno che avverte Carpoforo dei movimenti di Callisto, i creditori si rivolgono direttamente a Carpoforo, lamentando l’insolvenza del suo servus, sempre i creditori chiedono a Carpoforo di liberare Callisto dal mulino, per agevolare la riscossione dei crediti che aveva erogato quando era a capo della banca, c’è infine qualcuno che va prontamente a riferire a Carpoforo della rissa scatenata da Callisto nella sinagoga e del fatto che questi sia stato trascinato dinanzi al praefectus urbi. È solo in questo momento che Carpoforo mette piede in un tribunale e non vi è certo trascinato dai creditori della banca. D’altro canto, Carpoforo non sembrerebbe agire in giudizio per cercare di recuperare i prestiti erogati dallo schiavo, più gli interessi. Non solo: se davvero - come si deduce dalla narrazione di Ippolito - i debitori della banca (o parte di questi) sono membri della comunità ebraica, egli non fa neppure presente questa circostanza quando compare dinanzi al praefectus urbi nel corso del processo per la lite alla sinagoga. Tale atteggiamento, forse, può essere dettato dalla volontà di stemperare le tensioni intercorrenti tra la comunità cristiana e quella ebraica, che all’epoca godeva della libertà di culto che alla prima non era concessa, pur aprendosi con Commodo un periodo favorevole per i cristiani, che prosegue con la dinastia severiana. Proviamo a capire il comportamento quantomeno singolare del liberto imperiale: alla fine della lunga e travagliata vicenda, l’unico ad aver subito un danno dal crack della banca parrebbe essere appunto Carpoforo. Si potrebbe ipotizzare, secondo gli studiosi, che egli abbia pagato i creditori della banca utilizzando del denaro proprio (evidentemente non investito nell’impresa bancaria) e onorando così l’impegno assunto nei confronti delle vedove e dei confratelli (ref. 9.12.6). Ma si può credere che questo comportamento possa anche essere dettato dalla volontà di Carpoforo di non attirare l’interesse della pubblica autorità sulla comunità cristiana, cosa che sarebbe potuta accadere se qualcuno dei creditori della banca avesse deciso di agire in giudizio - davanti al praetor con la procedura formulare o extra ordinem davanti al praefectus urbi - per far valere il proprio credito e in questa prospettiva si può anche comprendere il fatto che Carpoforo neghi che Callisto sia cristiano. La vicenda parrebbe quindi chiudersi per lui con delle gravi perdite sul piano economico, ma la comunità cristiana è protetta e il suo buon nome è salvo e infatti non è un caso che Ippolito lo rimarchi nella sua narrazione. Per terminare la storia di Callisto, conclusa la triste esperienza in ambito finanziario, egli, durante la detenzione nelle miniere in Sardegna ebbe la “vocazione”, e grazie all’intervento di Marcia (donna amata dall’imperatore Commodo) che proteggeva i cristiani, lo liberò e, successivamente, egli si trasferì ad Anzio dove ben presto guadagnò la stima della stessa comunità.[70] Con l’avvento di Papa Zefirino, Callisto viene chiamato a Roma e viene preposto al cimitero (le celebri catacombe di S. Callisto).[71] Alla morte di Papa Zefirino (217 d.C.), Callisto viene eletto come successore di Pietro sulla cattedra di Roma; così egli in un solo giorno diviene sacerdote, vescovo e Papa (tempo dell’impero di Elagabalo 218-222). Ippolito, dotto sacerdote, sentendosi defraudato, riesce a farsi eleggere vescovo dai suoi adepti e diventa il primo antipapa della storia. L’astio che egli nutriva nei confronti di Callisto era mosso da diverse motivazioni:

1) la vicenda legata al fallimento della banca;

2) benevolenza per le donne senatorie di fede cristiana che volevano unirsi a schiavi o a plebei (dunque una sorta di riconoscimento ecclesiastico);

3) l’Editto di Callisto con cui venivano riammessi al sacramento della comunione, dopo una giusta penitenza, coloro che avevano commesso adulterio e fornicazione;

4) concessione del perdono cristiano a chi, dopo aver aderito ad eresie, chiedeva di rientrare nella chiesa cristiana;

5) infine, sembra si debba a lui la proibizione del matrimonio tra consanguinei.

La risposta di Papa Callisto venne dimostrata nei fatti in quanto, nel breve tempo, molti fedeli cominciarono a frequentare la sua chiesa accogliendo poveri, peccatori e pagani. Muore martire nel 222 d.C., vittima di una feroce persecuzione; infatti, gli legarono una pietra al collo e lo gettarono nel pozzo finendolo poi con la lapidazione; poi fu, successivamente sepolto segretamente nel cimitero di Calepodio. Un secolo dopo, Papa Giulio I fa erigere, in sua memoria, la Basilica di Santa Maria in Trastevere.

 

[1]V. Lipari, Le stagioni del diritto romano – le prime transazioni bancarie, Tricase 2018, p. 90.

[2]Idem.

[3]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, Torino 2010, p. 192.

[4]O. Lenel, Das Edictum perpetuum: ein Versuch zu dessen Wiederherstellung, Leipzig 1883., pp. 9, 2.

[5]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, cit., p. 192.

[6]A. Petrucci, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana (II secolo a.C. metà del III secolo d.C.), Napoli 1991, p. 141.

[7]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, cit., p. 193.

[8]A. Bürge, Zum Edikt De edendo, in ZSS, 112, 1995, p. 37.

[9]A. Petrucci, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana (II secolo a.C. metà del III secolo d.C.), cit., p. 158.

[10]B. Albanese, Illecito (storia), in Scritti giuridici, Vol. 1, Palermo 1991, p. 791.

[11]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, cit., p. 195.

[12]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, cit., p. 196.

[13]V. Lipari, Le stagioni del diritto romano – le prime transazioni bancarie, cit., p. 95.

[14]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, cit., p. 197.

[15]Idem.

[16]A. Petrucci, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana (II secolo a.C. metà del III secolo d.C.), cit., p. 155.

[17]P. Voci, Diligentia, custodia, culpa. I dati fondamentali, in SDHI, 56, 1990, p. 50.

[18]C. A. Cannata, Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano, Catania 1996, p. 28.

[19]P. Gröschler, Die tabellae-Urkunden aus den pompejanischen und herkulanensischen Urkundenfunden, Berlin 1997, p 266.

[20]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, cit., p. 201.

[21]Idem.

[22]M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palermo 2003, p. 526.

[23]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, cit., p. 203.

[24]P. Pichonnaz, La compensation. Analyse historique et comparative des modes de compenser non conventionnels, Fribourg 2001, p. 127.

[25]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, cit., p. 204.

[26]F. Camilletti, Profili del problema dell’equilibrio contrattuale, Milano 2004, pp. 117, 118, 119.

[27]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, cit., p. 205.

[28]G. Sacconi, La pluris petitio nel processo formulare, Milano 1977, p. 79.

[29]A. Petrucci, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana (II secolo a.C. metà del III secolo d.C.), cit., p. 383.

[30]S. Solazzi, Studi sulla compensazione in diritto romano, Napoli 1950, p. 41.

[31]P. Pichonnaz, La compensation. Analyse historique et comparative des modes de compenser non conventionnels, cit., p. 36.

[32]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, cit., p. 207.

[33]O. Lenel, Das Edictum perpetuum: ein Versuch zu dessen Wiederherstellung, cit., p. 219.

[34]A. Guarino, Diritto privato romano: lezioni istituzionali di diritto romano, III ed., Napoli 1966, pp. 184, 268 e 449.

[35]P. Cerami, A. Petrucci, Diritto commerciale romano, profilo storico, cit., p. 213.

[36]W. Litewski, Le dépôt irrégulier. Revue internationale des droits de l’Antiquité, 21, in RIDA 1974, p.287.

[37]A. Cenderelli, Scritti romanistici, Milano 2011, p. 32.

[38]M. Miceli, Sulla struttura formulare delle actiones adiecticiae qualitatis, Torino 2001, p. 217.

[39]A. Wacke, Die adjektizischen Klagen im Überblick. Erster Teil: Von der Reederund der Betriebsleiterklage zur direkten Stellvertretung, in ZSS, 111, 1994, p. 348.

[40]M. A. Ligos, Le  banche  fallivano  anche  a  Roma:  il crack di  Callisto  all’epoca  di Commodo, in APUA, 13, n. 1, 7 Gennaio 2015, p. 8.

[41]M. David, Eburnea diptycha: i dittici d’avorio tra antichità e Medioevo, Bari 2007, pp. 268, 269, 270.

[42]G. G. Belloni, La moneta romana, Roma 2002, p.258.

[43]G. Maselli, Argentaria. Banche e banchieri nella Roma repubblicana, Bari 1986, p. 19.

[44]G. Vitucci, Ricerche sulla praefectura urbi in età imperiale, Roma 1956, p. 118.

[45]J. De Churruca, La quiebra de la banca del cristiano Calisto (ca. 185-190), in Seminarios Complutenses de derecho romano, 3, 1991, p. 6.

[46]A. Hamel, Kirche bei Hippolyt von Rom, Gütersloh 1951, p. 125.

[47]F. De Martino, Storia economica di Roma antica, II, Firenze 1979, p. 364.

[48]J. DeChurruca, La quiebra de la banca del cristiano Calisto (ca. 185-190), in Seminarios Complutenses de derecho romano, 3, 1991, p. 78.

[49]M. A. Ligios, Nomen negotiationis. Profili di continuità e di autonomia della negotiatio nell’esperienza giuridica romana, Torino 2013, p. 11.

[50]A. Watson, The Law of Obligations in the Later Roman Republic, Oxford 1965, p. 192;

[51]A. McClintock, Servi della pena. Condannati a morte nella Roma imperiale, Napoli 2010, p. 116

[52]J. DeChurruca, La quiebra de la banca del cristiano Calisto (ca. 185-190), in Seminarios Complutenses de derecho romano, 3, cit., p. 73.

[53]S. Mazzarino, Religione ed economia sotto Commodo e i Severi. Premesse sulla democratizzazione della cultura nella tarda antichità, 1957, in Antico, tardoantico ed era costantiniana, I, Bari 1974, p. 57.

[54]J. DeChurruca, La quiebra de la banca del cristiano Calisto (ca. 185-190), in Seminarios Complutenses de derecho romano, 3, cit., p. 253.

[55]S. Mazzarino, Religione ed economia sotto Commodo e i Severi. Premesse sulla democratizzazione della cultura nella tarda antichità, 1957, in Antico, tardoantico ed era costantiniana, cit., p. 61.

[56]A. Petrucci, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana (II secolo a.C. metà del III secolo d.C.), cit., p. 210.

[57]H. Bellen, Studien zur Sklavenflucht im römischen Kaiserreich, Wiesbaden 1971, p. 1.

[58]M. A. Ligos, Le  banche  fallivano  anche  a  Roma:  il crack di  Callisto  all’epoca  di Commodo, cit., pp. 34-35.

[59]S. Mazzarino, Il basso impero. Antico, tardoantico ed era costantiniana, I, Bari 2003, p. 55, era un antico mulino romano dove gli schiavi giravano, con estenuante fatica, la mola macinando il grano.

[60]R. Étienne, Recherches sur l’ergastule, in Actes du colloque 1972 sur l’esclavage. Annales littéraires del’Université de Besançon, Paris 1974, p. 252.

[61]J. DeChurruca, La quiebra de la banca del cristiano Calisto (ca. 185-190), in Seminarios Complutenses de derecho romano, 3, cit., p. 70.

[62]M. A. Ligos, Le  banche  fallivano  anche  a  Roma:  il crack di  Callisto  all’epoca  di Commodo, cit., p. 37.

[63]M. A. Ligos, Le  banche  fallivano  anche  a  Roma:  il crack di  Callisto  all’epoca  di Commodo, cit., p. 44.

[64]Idem.

[65]G. Lanata, Gli atti dei martiri come documenti processuali, Milano 1973, p. 61.

[66]G. DeBonfils, Roma e gli ebrei (secoli  I-V), Bari 2002, p. 70.

[67]M. A. Ligos, Le  banche  fallivano  anche  a  Roma:  il crack di  Callisto  all’epoca  di Commodo, cit., p. 46.

[68]M. A. Ligos, Le  banche  fallivano  anche  a  Roma:  il crack di  Callisto  all’epoca  di Commodo, cit., p. 48.

[69]Ibidem, p. 49.

[70]S. Mazzarino, Il basso impero. Antico, tardoantico ed era costantiniana, I, cit.,  p. 55.

[71]Ibidem, p. 56.