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AVV. ANTONELLA ROBERTI

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA: LA CONTRAFFAZIONE DI UN MARCHIO PUÒ ESSERE QUALIFICATA DAL DIRITTO NAZIONALE DI UNO STATO MEMBRO UE SIA COME REATO CHE COME ILLECITO AMMINISTRATIVO (CGUE 19 OTTOBRE 2023, C-655/21).

Autore: Avv. Teresa Aloi

 

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza pronunciata il 19 ottobre scorso, si sofferma sul rapporto tra le norme di diritto europeo ed il diritto bulgaro in materia di contraffazione di un marchio registrato sotto il profilo della qualificazione giuridica e delle sanzioni da applicare.

La domanda di pronuncia pregiudiziale, in particolare, verte sull’interpretazione dell’art. 13 della direttiva 2004/48/CE, relativa al rispetto dei diritti di proprietà intellettuale e dell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Secondo i termini contenuti nel considerando 28 della stessa direttiva, in aggiunta alle misure, alle procedure ed ai mezzi di ricorso di natura civile ed amministrativa previsti dalla stessa, anche le sanzioni penali costituiscono, nei casi appropriati, un mezzo per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale. Inoltre, ai sensi dell’art. 16 della direttiva 2004/48/CE, gli Stati membri possono applicare altre appropriate sanzioni nel caso in cui il diritto di proprietà intellettuale sia stato violato.

Il caso posto all’attenzione della Corte di Giustizia UE vede come protagonista un’impresa individuale che esercita, in Bulgaria, un’attività di vendita di capi d’abbigliamento. Nel 2016, le autorità bulgare, nel corso di un controllo effettuato nel locale utilizzato da detta impresa, procedevano al sequestro di prodotti offerti in vendita constatando che i segni apposti su di essi fossero simili a marchi registrati.

La Procura distrettuale competente ha ritenuto che il proprietario della ditta avesse utilizzato marchi oggetto di diritto esclusivo senza il consenso dei titolari degli stessi con “effetti gravemente dannosi”. L’interessato, di conseguenza, era stato accusato del reato di contraffazione aggravata ex art. 172 b, paragrafo 2, del Codice penale bulgaro. Tale norma, al paragrafo 1 qualifica come reato l’uso di un marchio nel commercio senza il consenso del titolare del diritto esclusivo e, al paragrafo 2, fa riferimento al caso in cui tale atto sia stato commesso ripetutamente o abbia causato effetti gravemente dannosi.

L’art. 127, paragrafo 1, della Legge in materia di marchi ed indicazioni geografiche, DV n. 81 del 14 settembre 1999 (ZMGO), inoltre, disciplina un illecito amministrativo destinato a sanzionare i medesimi fatti regolati dalle disposizioni penali. La normativa bulgara, infatti, contiene disposizioni che definiscono la stessa condotta tanto come reato quanto come illecito amministrativo senza però indicare criteri specifici che consentano di delimitare le singole fattispecie. Tale mancanza condurrebbe a prassi contraddittorie e ad un trattamento diverso di soggetti che hanno praticamente posto in essere le stesse condotte.

Il Tribunale distrettuale bulgaro competente in materia, chiamato a pronunciarsi sul caso, decide di sospendere il procedimento e di chiedere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea chiarimenti circa la compatibilità con il diritto dell’Unione della normativa bulgara che reprime la contraffazione di marchi, in considerazione della severità delle sanzioni previste e del fatto che la mancanza di criteri chiari e precisi di qualificazione della stessa condotta come reato o come illecito amministrativo conduce a prassi contraddittorie e ad una disparità di trattamento tra persone che hanno commesso gli stesi atti. Tutto ciò alla luce del principio di legalità dei reati e delle pene sancito dall’art. 49 della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE.

Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia UE, in primo luogo ricorda che la contraffazione di un marchio può essere qualificata dal diritto nazionale di ciascuno Stato membro tanto come illecito ammnistrativo quanto come reato. A tal riguardo essa sottolinea che, in forza del principio di legalità, le disposizioni penali devono rispettare determinati requisiti di accessibilità e di prevedibilità per quanto concerne sia la definizione del reato sia la determinazione della pena.

Secondo la giurisprudenza della Corte europea, tale principio costituisce una particolare espressione del principio generale della certezza del diritto ed implica, in particolare, che la legge definisca chiaramente i reati e le pene conseguenti che li puniscono.

Tale condizione viene soddisfatta quando il singolo cittadino è posto nelle condizioni di sapere, sulla base del dettato della disposizione pertinente e con l’eventuale interpretazione che viene data dai giudici e/o da un parere giuridico, quali condotte possono far sorgere la sua responsabilità penale.

Nel caso di specie, l’art. 172 b del Codice penale bulgaro prevede che, qualsiasi uso nel commercio di un marchio senza il consenso del titolare del diritto esclusivo su di esso costituisce reato e dà luogo a l’irrogazione delle pene previste. E’ anche vero che, in forza della legge bulgara sui marchi, questo stesso comportamento è parimenti qualificato come illecito amministrativo con conseguente irrogazione di una sanzione pecuniaria. La conseguenza è che, con riguardo alla stessa condotta trovano applicazione sanzioni di natura diversa senza che si determini una violazione del principio di legalità.

In secondo luogo, la Corte di Giustizia considera che una disposizione nazionale la quale, in caso di contraffazione di un marchio ripetuta e con effetti gravemente dannosi, preveda una pena minima di cinque anni di reclusione è contraria al diritto dell’Unione europea. La Corte precisa che, anche se la direttiva 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale non trova applicazione in materia penale, ai sensi dell’accordo sugli Aspetti dei Diritti di Proprietà Intellettuale attinenti al Commercio (ADPIC/TRIPS), che vincola sia l’Unione europea che i suoi Stati membri, quest’ultimi possono imporre una pena detentiva per alcuni atti di contraffazione di marchi, sempre nel rispetto del principio che le pene inflitte devono essere proporzionate rispetto al reato per cui sono previste.

Ricorda la Corte che, pur lasciando la scelta e le modalità dei procedimenti penali e delle sanzioni applicabili alla discrezionalità dei membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC-World Trade Organization, organizzazione internazionale nata allo scopo di supervisionare numerosi accordi commerciali tra gli Stati membri), l’art. 61 dell’accordo sugli ADPIC impone a quest’ultimi di sanzionare penalmente almeno alcune violazioni del diritto di proprietà intellettuale, come gli atti di contraffazione intenzionale di un marchio o di violazione del diritto d’autore su scala commerciale. Tale norma, inoltre, stabilisce che le sanzioni devono includere “pene detentive e/o pecuniarie sufficienti a costituire un mezzo di dissuasione” e devono essere coerenti con il livello delle sanzioni applicate per i reati di corrispondente gravità. Ove opportuno, i possibili provvedimenti devono comprendere anche il sequestro, la confisca e la distruzione dei prodotti costituenti violazione e di qualsiasi materiale e strumento utilizzato nell’esecuzione del reato. Pertanto, quando la normativa nazionale prevede un cumulo di sanzioni di natura penale, le autorità competenti hanno l’obbligo di assicurarsi che la severità dell’insieme delle sanzioni inflitte non ecceda la gravità della violazione accertata nel rispetto del principio di proporzionalità. Tale principio esige che, nella determinazione della pena e nella fissazione dell’importo della sanzione pecuniaria, si tenga conto delle specifiche circostanze del caso di specie.

Nella vicenda oggetto di valutazione da parte dei giudici europei, la contraffazione di un marchio esclusivo era stata posta in essere con una certa gravità nell’uso per essere avvenuto ripetutamente o per avere causato tale uso danni gravi.

L’art. 172 b, paragrafo 2, del Codice penale bulgaro prevede per il reato di contraffazione aggravata, una pena detentiva da 5 a 8 anni ed una multa da 2.550,00 a 4.080,00 euro. A tali pene si aggiungono misure supplementari quali, la confisca e la distruzione dei beni oggetto del reato che sono tali da contribuire a rendere efficace la sanzione prevista, in quanto evitano che merci che violano un diritto intellettuale possano restare sul mercato ed essere oggetto di ulteriore utilizzo. Di conseguenza, sono le stesse disposizioni contenute nell’accordo sugli ADPIC a richiedere un grado di severità sufficientemente elevato al fine di evitare che il comportamento censurato sia adottato o si ripeta. Non si può affermare che una normativa penale introdotta da uno Stato membro al fine di reprimere atti di contraffazione di un marchio che presentano una certa gravità sia proporzionata per il solo fatto che essa prevede, in casi appropriati, oltre all’irrogazione di una sanzione pecuniaria ed alla distruzione delle merci di cui trattasi e degli strumenti che sono serviti a commettere il reato, l’irrogazione di una pena detentiva.

La condotta illecita di cui all’art. 172 b del Codice penale sembra ricomprendere tutti gli atti di cui all’art.13 della legge bulgara sui marchi (ZMGO) che corrispondono, in sostanza, all’art. 10, paragrafi 2 e 3, della direttiva UE 2015/2436 sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa. Risulta così che, l’art. 172 b c. p. può comprendere qualsiasi atto posto in essere nel settore commerciale di uso di un marchio esclusivo senza il consenso del titolare dello stesso. Tale atto se ripetuto o se abbia causato effetti gravemente dannosi è punito con la reclusione di almeno cinque anni. Sebbene tale sanzione non sia necessariamente sproporzionata in alcuni casi di contraffazione, si deve constatare che una disposizione come quella dell’art. 172 b, paragrafo 2, c. p., che associa una descrizione di reato particolarmente ampia ad una pena detentiva di almeno cinque anni, non consente di garantire la capacità delle autorità competenti di assicurare in ciascun caso individuale che la severità delle sanzioni inflitte non ecceda la gravità del reato accertato. Tali autorità possono, infatti, essere indotte ad esaminare atti di contraffazione di un marchio il cui effetto rimane particolarmente limitato nel commercio, pur se tali atti siano stati commessi intenzionalmente e ripetutamente o che si rivelano illeciti solo dopo una valutazione complessa della portata del diritto esclusivo.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza in commento, ha ritenuto che, l’art. 49, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea deve essere interpretato nel senso che, il principio di legalità non osta ad una normativa nazionale che preveda che la stessa condotta possa essere qualificata tanto come illecito amministrativo quanto come reato, senza indicare i criteri che consentano di delimitare i confini dell’uno rispetto all’altro, dato che le due fattispecie sono descritte in termini simili, se non identici, nella legge penale e nella legge sui marchi. Inoltre,  l’art. 49, paragrafo 3, deve essere inteso nel senso che, una disposizione normativa nazionale che, in caso di contraffazione di un marchio esclusivo ripetuta o con effetti gravemente dannosi, preveda una pena minima di cinque anni di reclusione è contraria al diritto dell’Unione. Certamente, in assenza di misure legislative a livello europeo, gli Stati membri restano competenti a determinare la natura e l’entità delle sanzioni applicabili, tuttavia, tali misure repressive devono essere proporzionate. Orbene, la previsione di una pena minima di cinque anni di reclusione per tutti i casi di uso non consentito di un marchio esclusivo nell’ambito del commercio, non soddisfa tale imperativo. Una tale normativa, infatti, non tiene conto delle eventuali specificità delle circostanze in cui tali reati sono commessi.

 

Avv. Teresa Aloi,  Foro di Catanzaro.