A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA: LA CORTE EUROPEA SI PRONUNCIA SULLA NON SUSSISTENZA DELL’OBBLIGO DI REVOCAZIONE DI UNA SENTENZA NAZIONALE PASSATA IN GIUDICATO NEL CASO IN CUI ESSA SIA CONFLIGGENTE CON UNA PROPRIA PRECEDENTE DECISIONE (CGUE 7 LUGLIO 2022, C-261/21). 

Autore: Avv. Teresa Aloi 

 

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza pronunciata il 7 luglio 2022, si sofferma sulla corretta interpretazione del diritto dell’Unione nell’ipotesi in cui si chieda la revoca di una sentenza definitiva pronunciata da un giudice nazionale sulla base di motivi legati ad una corretta interpretazione del diritto europeo.

La sentenza in commento vede come protagonisti due case farmaceutiche, Roche e Novartis, e l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM Italia) e ha la sua origine nella domanda di pronuncia pregiudiziale presentata dai due gruppi farmaceutici diretta ad ottenere la revocazione di una sentenza del Consiglio di Stato (Italia) in quanto ritenuta non conforme all’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla stessa Corte UE in una precedente sentenza. L’AGCM, con decisione del 27 febbraio 2014, n. 24823, aveva inflitto a Roche e Novartis un’ammenda complessiva di oltre 180 milioni di euro per aver violato l’art. 101 TFUE che vieta tutti gli accordi o tutte le pratiche concordate tra imprese che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza nell’ambito del mercato interno[1].

I due gruppi farmaceutici, infatti, avevano concluso un accordo di ripartizione del mercato, costitutivo di una restrizione della concorrenza per oggetto in quanto diretto a determinare una differenziazione artificiosa tra i medicinali Avastin e Lucentis. Specificamente, nonostante i due medicinali fossero entrambi utilizzati in ambito oftalmico, Roche e Novartis, avevano operato per ridurre la domanda del prodotto meno costoso, Avastin, a favore di quello più costoso e concorrente, Lucentis, manipolando la percezione dei rischi legati all’uso off-label del primo per la cura di patologie oftalmiche, mediante la diffusione di informazioni tali da generare preoccupazioni in merito alla sua sicurezza e così condizionare le scelte terapeutiche dei medici, determinando un calo delle vendite di Avastin ed uno spostamento della domanda verso Lucentis. 

I due gruppi avevano impugnato il provvedimento dell’Autorità Garante davanti al TAR Lazio che aveva respinto entrambi i ricorsi (sentenza 2 dicembre 2014, n. 12168), per cui, successivamente avevano proposto appello davanti al Consiglio di Stato, il quale aveva ritenuto necessario sospendere il procedimento e sottoporre la questione pregiudiziale circa l’esatta interpretazione del diritto dell’Unione, art. 101 TFUE, alla Corte di Giustizia europea.

La Corte UE, con sentenza del 23 gennaio 2018, C-179/16, aveva dichiarato che, ai fini dell’applicazione dell’art. 101 TFUE, la strategia messa in atto da Roche e Novartis costituiva una restrizione della concorrenza per oggetto in quanto diretta, da un lato, ad indurre in errore sia l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) che la Commissione, al fine di ottenere l’aggiunta delle indicazioni di effetti collaterali nell’indicare le caratteristiche di Avastin, e, dall’altro, ad enfatizzare, in un contesto di incertezza scientifica, la percezione da parte del pubblico dei rischi connessi al suo uso off-label.

Riassunta la causa davanti al giudice nazionale, il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4990/2019 aveva respinto gli appelli confermando la sentenza di primo grado ed il provvedimento sanzionatorio dell’AGCM.

I due gruppi farmaceutici, di conseguenza, si rivolgevano nuovamente al Consiglio di Stato per chiedere, ai sensi dell’art. 106 del Codice del processo amministrativo, la revocazione di tale sentenza ritenendo che essa fosse inficiata da un “errore di fatto” ai sensi dell’art. 395, punto 4, c.p.c. (la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa nel senso che tale errore è configurabile solo riguardo all’attività ricognitiva di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale, ma non coinvolge la successiva attività di ragionamento ed apprezzamento ai fini della formazione del convincimento del giudice). Essi osservavano, inoltre, che la sentenza 4990/2019 non contiene alcuna valutazione in merito all’ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle aziende interessate mentre da essa risulterebbe che una valutazione di questo tipo sia, invece, necessaria.

L’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia UE implicherebbe che, in una situazione come quella oggetto del procedimento principale, una restrizione della concorrenza per oggetto sia configurabile solo a condizione che le informazioni diffuse dalle imprese interessate siano ingannevoli. La Corte UE avrebbe precisato che spetta al giudice del rinvio esaminare tale aspetto.

Essi sostengono, inoltre, che il regime di sindacato giurisdizionale istituito dall’art. 106 c.p.a. in combinato disposto con gli artt. 395 e 396 c.p.c., è lacunoso, in quanto non prevede la possibilità di chiedere la revocazione di una sentenza di un giudice amministrativo nazionale laddove quest’ultima comporti una violazione manifesta dei principi di diritto affermati dalla Corte europea in sede di rinvio pregiudiziale. La conseguenza di tale lacuna è che possono acquisire forza di giudicato decisioni giurisdizionali contrarie al diritto dell’Unione non consentendo, pertanto, di prevenire la formazione di un giudicato anticomunitario. Una situazione simile pregiudicherebbe il carattere vincolante e l’efficacia erga omnes delle decisioni pregiudiziali della Corte e rischierebbe di condurre alla proposizione, da parte della Commissione europea, di un ricorso per inadempimento contro lo Stato italiano.

Alla luce della necessità di interpretare la legislazione europea rilevante in materia, il Consiglio di Stato aveva sospeso il giudizio davanti a sé, sollevando davanti alla CGUE una nuova questione pregiudiziale al fine di verificare se l’ordinamento nazionale sia tenuto a prevedere l’obbligo di revocazione di una sentenza passata in giudicato nel caso essa sia confliggente con una precedente sentenza della stessa Corte europea.

La Corte di Giustizia UE, nella sentenza del 7 luglio scorso, in commento, ha preliminarmente ricordato che, in assenza di norme europee in materia, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro in virtù del principio dell’autonomia procedurale di quest’ultimo, nel rispetto, tuttavia, dei principi di equivalenza e di effettività, senza che il diritto dell’Unione imponga ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto dell’Unione.

Per quanto riguarda il principio di equivalenza, l’art. 106, paragrafo 1, c.p.a., letto in combinato disposto con gli artt. 395 e 396 c.p.c., limita la possibilità per i singoli di chiedere la revocazione di una sentenza pronunciata dal Consiglio di Stato ai casi ed alle modalità ivi previste, indipendentemente dal fatto che la domanda di revocazione trovi il proprio fondamento in disposizioni di diritto nazionale oppure in disposizioni di diritto dell’Unione, per cui tale principio non risulta violato dalle norme di diritto interno. Per quanto attiene al principio di effettività, il diritto dell’Unione non obbliga gli Stati membri ad istituire mezzi di ricorso diversi da quelli già contemplati dal diritto interno, a meno che dall’impianto sistematico dell’ordinamento giuridico nazionale risulti che non esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche solo in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione, o che l’unico modo per adire un giudice da parte di un singolo sia quello di commettere violazioni del diritto.

Nel caso di specie, nessun elemento indicato nella domanda di pronuncia pregiudiziale o nelle osservazioni presentate alla Corte UE induce a ritenere che il diritto processuale italiano abbia, di per sé, l’effetto di rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, nel settore del diritto della concorrenza, dei diritti conferiti ai singoli dal diritto dell’Unione europea. In tali circostanze, una disposizione come l’art. 106, paragrafo 1, c.p.a., in combinato disposto con gli artt. 395 e 396 c.p.c., non lede neppure il principio di effettività e non risulta, pertanto, contraria all’art. 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, norma che obbliga gli Stati membri a stabilire i rimedi giurisdizionali necessari ad assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, il rispetto del loro diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva.

La Corte di Giustizia UE, inoltre, osserva che, in una situazione caratterizzata dall’esistenza di un rimedio giurisdizionale che consente di garantire il rispetto dei diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione, è perfettamente ammissibile che lo Stato membro interessato conferisca all’organo di ultimo grado della giustizia amministrativa di detto Stato la competenza a pronunciarsi in ultima istanza, tanto in fatto quanto in diritto, sulla controversia di cui trattasi. Qualora, pertanto, siano invocate disposizioni di diritto europeo davanti ad un organo giurisdizionale nazionale che emette la propria decisione dopo aver ricevuto la risposta alle questioni che esso aveva sottoposto all’attenzione della CGUE in merito alla loro interpretazione, la condizione relativa all’esistenza, nello Stato membro interessato, di un rimedio giurisdizionale che consenta di garantire il rispetto dei diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione, è necessariamente soddisfatta.

Lo Stato membro, di conseguenza, può limitare la possibilità di chiedere la revocazione di una sentenza pronunciata dal suo organo giurisdizionale amministrativo di ultimo grado a situazioni eccezionali e tassativamente disciplinate, che non includano l’ipotesi in cui, ad avviso del singolo soccombente dinnanzi a tale organo, quest’ultimo non abbia tenuto conto dell’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte UE in risposta alla sua domanda di pronuncia pregiudiziale. Di conseguenza, l’art. 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE non obbliga gli Stati membri a consentire ai singoli di chiedere la revocazione di una decisione giurisdizionale emessa in ultimo grado in quanto quest’ultima violerebbe l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta ad una precedente domanda pregiudiziale già formulata nel medesimo procedimento.

Tale conclusione non può essere rimessa in discussione, né alla luce dell’art. 4, paragrafo 3, TUE, che per quanto riguarda il sistema di rimedi giurisdizionali necessari per assicurare un controllo giurisdizionale effettivo nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione non può essere interpretato nel senso che esso obbliga gli Stati membri ad istituire nuovi rimedi, né alla luce dell’art. 267 TFUE, in quanto non spetta alla Corte europea di esercitare, nell’ambito di un nuovo rinvio pregiudiziale, un controllo che sia destinato a garantire che il giudice nazionale, dopo aver investito la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione di disposizioni di diritto dell’Unione applicabili alla controversia posta alla sua attenzione, abbia applicato tali disposizioni in modo conforme all’interpretazione fornita dalla Corte stessa.

Per quanto, infatti, i giudici nazionali possano, in virtù della cooperazione tra gli organi giurisdizionali nazionali e la Corte europea prevista dall’art. 267 TFUE, rivolgersi nuovamente alla Corte prima di dirimere la controversia di cui sono investiti al fine di ottenere ulteriori chiarimenti sull’interpretazione del diritto dell’Unione già da essa fornita, tale disposizione non può, tuttavia, essere interpretata nel senso che un organo giurisdizionale nazionale possa proporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale diretta a chiarire se tale organo abbia correttamente applicato al procedimento principale l’interpretazione fornita dalla Corte. Di conseguenza, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha statuito che, l’art. 4, paragrafo 3, e l’art. 19, paragrafo 1, TUE nonché l’art. 267 TFUE, letti alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che non ostano a  disposizioni di diritto processuale di uno Stato membro che, pur rispettando il principio di equivalenza, producono l’effetto che, quando l’organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa di tale Stato membro emette una decisione risolutiva di una controversia nell’ambito della quale esso aveva investito la Corte europea di una domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi del suddetto art. 267 TFUE, le parti di tale controversia non possono chiedere la revocazione di detta decisione sulla base del motivo che l’organo giurisdizionale nazionale avrebbe violato l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta a tale domanda.

La sentenza della Corte di Giustizia UE, in commento è di particolare interesse, per almeno due ragioni. In primo luogo, per aver posto fine alla lunga vicenda giudiziaria Avastin/Lucentis nel merito, così fissando rigorosi limiti alla libertà d’azione commerciale delle imprese farmaceutiche, laddove il target del loro operato investa le caratteristiche di sicurezza dei farmaci e la loro percezione da parte della comunità scientifica e medica. In secondo luogo, per aver circoscritto entro limiti altrettanto rigorosi le eccezioni al principio di autonomia processuale nazionale nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività, in particolare, escludendo che, sulla scorta delle norme europee, possa espandersi la portata dei rimedi giurisdizionali straordinari, come la revocazione, disciplinati dai singoli Stati membri. Inoltre, si pone fine anche a quelle correnti di pensiero nate in Italia che si erano interrogate sull’ammissibilità della creazione per via giurisprudenziale di nuove ipotesi di revocazione come conseguenza della violazione del principio del primato ad opera di una sentenza di ultimo grado.

 

Avv. Teresa Aloi,  Foro di Catanzaro.

 

[1] I farmaci off-label sono farmaci cosiddetti “fuori etichetta”, cioè autorizzati per legge ad essere impiegati in maniera non conforme, per patologia, popolazione o posologia, a quanto previsto dal riassunto delle caratteristiche del prodotto autorizzato.