A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

IL SOSTEGNO ALLA RIPRODUZIONE: UNA QUESTIONE DI INTERESSE PUBBLICO, NAZIONALE ED EUROPEO

Autrici: Prof.ssa Cristina Giudici e  Dott.ssa Eleonora Miaci

 

Nota di presentazione della Direzione della Rivista: Foroeuropa è particolarmente grata alla Professoressa Cristina Giudici e alla Dottoressa Eleonora Miaci per averle consentito di pubblicare un così importante ed essenziale contributo scientifico all’approfondimento di una tematica attualissima e di estremo interesse per l’Europa e per il nostro Paese. Questo articolo ci mostra tanto gli aspetti teorici e di principio del sostegno alla riproduzione quanto le conseguenze che auspicabilmente dovrebbero esserne tratte in sede politico-decisionale.

 

Segue il testo dell’articolo

L’Europa si confronta da tempo con una fase dell’evoluzione demografica caratterizzata dalla più lunga permanenza dei giovani nel nucleo famigliare originale, dallo spostamento in avanti dell’età al primo matrimonio, dalla fecondità realizzata in età avanzata, dall’avvento del cosiddetto modello del figlio unico, cui continuano ad associarsi progressi nella lotta alla mortalità, soprattutto nelle età avanzate, con il conseguente invecchiamento della popolazione. Tutti questi fenomeni demografici, in Europa e nel mondo occidentale, vedono i diversi paesi procedere su binari paralleli nelle esperienze e nei conseguenti esperimenti politici e socio-demografici, mentre la sfida demografica entra a pieno titolo tra le priorità dell’agenda dell’Unione europea: la relazione sull’impatto dei cambiamenti demografici adottata per la prima volta dalla Commissione europea nel giugno 2020 segna un passo importante in questo senso.

L’Europa della bassa fecondità, fortemente voluta in un passato non molto lontano, riconosce nell’esiguità numerica delle nuove generazioni un limite alla sostenibilità a lungo termine del sistema economico e sociale: sono poco più di 4 milioni i bambini nati nel 2019 sul territorio dell’Unione Europea, con un tasso di fecondità totale di 1,53 figli per donna ed una tendenza al ribasso che prosegue dal 2008. I livelli più alti di fecondità sono registrati in Francia, nonostante il paese abbia subito un recente calo delle nascite, con 1,86 nati per donna, seguita da Romania (1,77) e Repubblica Ceca, Irlanda e Svezia (1,71). All’estremo opposto si trova Malta, con 1,4 figli per donna, preceduta da Spagna (1,23) e Italia (1,27).

Gli approcci teorici della cosiddetta New Home Economics e della Seconda Transizione Demografica rimangono essenziali per spiegare il calo demografico nei paesi occidentali. L’esistenza di un effetto sostituzione tra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla cura dei figli è stata più volte sottolineata nel contesto della copiosa letteratura appartenente alla prima corrente (Becker, 1960; Becker, Lewis, 1973). Occorre tuttavia sottolineare che, nel richiamare l’attenzione sugli aspetti economici delle scelte riproduttive, la New Home Economics spesso sottostima l’influenza che i diversi contesti sociali, culturali ed istituzionali possono avere sulle decisioni di fecondità (Schleutker, 2013). Le intenzioni di genitorialità delle coppie sono infatti influenzate, tra l’altro, anche dalla disponibilità e dal costo dei servizi per l’infanzia o dal ritardo con cui i giovani sono diventati produttori di reddito (Mencarini, Vignoli 2018). Inoltre, la trasformazione delle strutture familiari, con l’aumento delle convivenze, dei divorzi e delle nascite al di fuori del matrimonio, è andata accompagnandosi con il trionfo dei valori individualisti su quelli collettivi e con il desiderio di auto-realizzazione al di fuori della famiglia da parte delle donne. Come sottolineato dalla teoria della Seconda transizione demografica (Van Dee Kaa, 1987; Lesthaeghe, 2010) questo processo ha determinato una diminuzione dell’importanza un tempo assegnata ai figli e al ruolo di madre.

Pur evidenziando diversi aspetti, i due approcci giungono alla medesima conclusione: l’aumento dell’istruzione femminile e il desiderio di molte donne di realizzarsi in primis nella sfera lavorativa, hanno indotto un continuo spostamento in avanti dell’esperienza della maternità, che si è spesso tradotto nella rinuncia ad avere il primo o ulteriori figli, con il conseguente ridimensionamento delle intenzioni di fecondità associato ad un crescente divario tra aspettative e realizzazione. Questo paradigma non sembra tuttavia essere esaustivo per spiegare le differenze di fecondità osservate tra i paesi europei. Ulteriori elementi determinanti sono da ricercare nell'egualitarismo di genere (Mencarini, L. 2018),e nell’incertezza economica (Alderotti et al. 2019).

 

Fecondità, disparità di genere ed incertezza economica

Tra i fattori che hanno determinato l'inversione demografica rispetto alle tendenze osservate nella seconda metà del ventesimo secolo, un ruolo centrale è da attribuire alla trasformazione dei ruoli e delle relazioni di genere (Esping‐Andersen, Billari; 2015). A partire dagli anni '90, nelle società che sono state in grado di adattarsi al nuovo ruolo sociale delle donne, una più alta occupazione femminile coesiste -e in alcuni casi ha preluso - con una fecondità vicina alla soglia di sostituzione. Al contrario, si è registrato un più rapido declino della fecondità nei paesi che hanno conosciuto un’evoluzione più lenta dei ruoli familiari e di genere, sia nella sfera pubblica che in quella privata (OECD 2011).

Queste differenze possono essere spiegate attraverso la cosiddetta teoria degli equilibri multipli (Esping-Andersen, 2013), secondo la quale a livelli alti e bassi di equità di genere (ad esempio nella partecipazione al mercato del lavoro) corrisponderebbero valori più elevati di fecondità. Le società si disporrebbero, in altre parole, seguendo una curva ad U, ai cui estremi si troverebbero paesi caratterizzati da alta fecondità ma livelli profondamente diversi di equità di genere. Ad esempio, paesi come la Romania e la Bulgaria, che si caratterizzano per una tradizionale polarizzazione male-breadwinner - female-caregiver, presentano alta fecondità ma bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro. All’estremo opposto, Svezia e Francia hanno sperimentato una rivoluzione nei ruoli di genere ed una più equa divisione del lavoro[1] all’interno della coppia, registrando anch’essi alti livelli di fecondità. In posizione intermedia si trovano quei paesi in cui la società non ha ancora risposto pienamente alla rivoluzione femminile in corso. È questo il caso dell’Italia, che si caratterizza per tassi di fecondità e di uguaglianza di genere inferiori rispetto alla media europea.

La misura dell’uguaglianza di genere sarebbe quindi determinante nel dibattito sulla fecondità. In questo contesto, lo European Institute for Gender Equality ha recentemente proposto un interessante strumento che permette di misurare l’evoluzione della parità di genere registrata nell’UE nel corso del tempo, con l’obiettivo di rendere visibili quegli ambiti della vita sociale e familiare che presentano i maggiori squilibri. Si tratta del cosiddetto Gender Equality Index, costruito con riferimento a sei ambiti: lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute, cui si aggiungono i due domini trasversali della violenza contro le donne e delle disuguaglianze intersezionali. L’indice, che varia da 1 a 100, per valori crescenti di equità di genere, ha visto l’Unione Europea nel suo complesso raggiungere, nel 2020, il punteggio di 67,9,in lieve aumento negli ultimi 10 anni. Il valore dell’indicatore composito nasconde tuttavia profonde differenze tra le sue componenti parziali: gli ambiti della salute e del livello salariale, che mostrano maggiori livelli di equità di genere (rispettivamente 88 e 80,6 punti), si contrappongono agli ambiti della conoscenza e della partecipazione ad incarichi dirigenziali (con punteggi di 63,6 e 53,5 rispettivamente). Dal 2010, inoltre, il punteggio dell'UE è diminuito nell’ambito del tempo dedicato al lavoro domestico e di cura (- 0,6 punti).

Attualmente l’Italia si trova al quattordicesimo posto nella graduatoria dei paesi europei, con un punteggio inferiore di 4,4 punti rispetto alla media. L’ambito della salute (88,4 punti) e del livello salariale (79punti) fanno registrare i punteggi più alti, mentre le disuguaglianze di genere sono maggiormente pronunciate nella partecipazione ad incarichi dirigenziali (48,8 punti), e nella distribuzione del tempo dedicato al lavoro domestico e di cura (59,3 punti). Inoltre, nonostante il fortissimo miglioramento sperimentato negli ultimi 10 anni nell'accesso all’istruzione e alla formazione da parte delle donne (+ 8,1 punti),l’Italia presenta tuttora il punteggio più basso nella partecipazione al mercato del lavoro (63,3 punti). Ampie disuguaglianze emergono, ad esempio, nella quota di lavoratori autonomi (3,5% tra le donne e 7,1% tra gli uomini), nel guadagno medio mensile (quello delle donne è quasi un quinto rispetto a quello degli uomini), nella divisione del lavoro domestico e di cura, per il quale le donne sono quattro volte più soggette degli uomini ad impegnare il proprio tempo ogni giorno per almeno un'ora, nonché nel tasso di inattività delle donne attribuibile a responsabilità di assistenza (35,7 % contro il 31,8% della media UE) (Eurostat 2021).

Un ulteriore elemento che aiuta a spiegare la persistenza di bassi livelli di fecondità in molti paesi europei, in particolare dopo la Grande Recessione, è la relazione tra incertezza economica e fecondità. Al fine di favorire l’occupazione, infatti, a partire dal 2008 in Italia, come in altri paesi europei, sono state introdotte misure finalizzate a rendere il mercato del lavoro maggiormente flessibile. Tuttavia, nel tempo, questa caratteristica è diventata strutturale e ad oggi gli elevati livelli di delocalizzazione, di internazionalizzazione e di deregolamentazione del mercato del lavoro sono causa di incertezza economica per molti cittadini. L'incertezza ha un effetto riduttivo sulla fecondità, poiché si trasmette dalla vita lavorativa a quella privata, determinando un rinvio nella formazione della famiglia ed un prolungamento della permanenza nel nucleo familiare originario, in attesa di trovare un'occupazione stabile. Questa correlazione si è rafforzata nel tempo, ed è particolarmente marcata nei paesi dell'Europa meridionale, dove la protezione sociale per i giovani, le famiglie e i disoccupati è meno generosa (Alderotti et al., 2019).

 

La via italiana al sostegno della fecondità

In Italia il divario tra il numero di figli desiderati – due in media - e il numero di figli realizzati è tra i più alti in Europa. Le nascite, inesorabilmente in calo dal 2008, sono scese sotto il mezzo milione già dal 2015, per toccare nel 2020 il minimo storico di 404.104 nati, quasi 16.000 in meno rispetto al 2019, corrispondenti ad un numero di figli per donna ai minimi storici. Il saldo naturale si è stabilizzato su valori negativi già dal 2008, e dal 2015 la popolazione nel suo complesso è entrata in una fase di declino demografico, frenato solo in parte dalla crescita dei cittadini stranieri. In questa situazione, già critica, la pandemia di Covid-19 sta contribuendo a rallentare ulteriormente le nascite (De Rose e Rosina, 2021).

Al di là della crisi pandemica in corso, le principali ragioni del persistere della bassa fecondità in Italia risiedono soprattutto nella coesistenza tra familismo e sfiducia sociale generalizzata (Livi-Bacci 2001; Dalla Zuanna e Micheli 2004). Questa situazione trova le sue origini in una serie di fattori, tra cui la debolezza del mercato del lavoro; il basso livello dei tassi di attività delle donne; la quasi totale assenza di politiche familiari e giovanili; lo scarso livello di equità di genere, tanto nella società quanto nella divisione dei ruoli familiari. Le recenti crisi, economica ed epidemiologica, si sono inserite questo quadro, contribuendo a consolidare tendenze che erano in atto da tempo. (Castagnaro e Prati, 2014; Vignoli, et al., 2020; Mencarini et al. 2020). 

La risposta italiana rispetto a questo contesto passa per il programma di investimenti che l'Italia ha presentato alla Commissione Europea nell'ambito della Next Generation EU (il cosiddetto National Recovery and Resilience Plan - PNRR). Una delle sei missioni del piano si concentra infatti sull’importanza dell’equità sociale, di genere e territoriale. In particolare, in relazione al raggiungimento dell’equità di genere, il programma sviluppa le priorità della Strategia nazionale per la parità di genere 2021- 2026, in coerenza con l’analoga Strategia europea 2020-2025. In sintesi, la Strategia nazionale presenta cinque priorità (lavoro, reddito, competenze, tempo, potere) e mira a migliorare la posizione relativa dell’Italia rispetto agli altri paesi europei in termini di equità di genere entro il 2026, attraverso un programma che punta a favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro, a correggere le asimmetrie che ostacolano le pari opportunità a partire dall’età scolastica, nonché a realizzare misure di potenziamento del welfare, per permettere una più equa distribuzione degli impegni, non solo economici, legati alla genitorialità.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e La Strategia per la parità di genere si inseriscono in un percorso di riforma e investimento nelle politiche di promozione della natalità avviato con il cosiddetto Family Act l'11 giugno 2020 e proseguito con l’introduzione della legge delega n. 46/2021, recentemente approvata dal Senato, volta a riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso il cosiddetto assegno unico e universale, con il quale il governo intende sostituire gradualmente tutte le precedenti misure di sostegno alla genitorialità, alla natalità ed ai carichi famigliari. Secondo l'Istat, la riforma dell'assegno unico porterebbe a un aumento del reddito per il 68% delle famiglie: non si tratterebbe di misure di contrasto alla povertà rivolte alle categorie più disagiate, ma di un aiuto indispensabile e duraturo per tutte le famiglie con figli, indipendentemente dall'occupazione dei genitori, basato su criteri di universalità e progressività. Le risorse stanziate per finanziare la nuova misura sarebbero tali da avvicinare la quota di spesa pubblica italiana per il sostegno delle famiglie a quella europea.

 

Considerazioni conclusive

Il futuro della fecondità in Italia dipenderà dalla capacità di rispondere adeguatamente alle criticità cui si è accennato, attraverso politiche di breve e medio termine che riconoscano l’interesse pubblico del sostegno alla riproduzione. Un interessante caso di studio dal quale l’Italia potrebbe trarre preziosa ispirazione è costituito dall’esperienza francese: l’eccezionale posizione della Francia nel panorama della fecondità europea è il risultato di politiche di sostegno alla famiglia praticate in modo continuativo a partire dal secondo dopoguerra, e riflette un interesse verso i temi della riproduzione che coinvolge l'intera comunità. È infatti a partire dagli anni della ricostruzione, grazie al contributo di studiosi popolazionisti e all'orientamento dei governi verso un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata, che la Francia ha introdotto misure decisive per mitigare il declino demografico. La fecondità è stata riconosciuta come una materia di interesse pubblico, e questo approccio è stato la base politica e legale per sussidi e servizi di supporto, in particolare per l'assegnazione del Salaire Minimum Interprofessionnel de Croissance (SMIC) alle madri che hanno un terzo figlio.

Il Family Act segna un cambio di passo nella risposta italiana alla bassa fecondità, nella direzione di una maggiore consapevolezza rispetto all’opportunità di considerare il sostegno alla riproduzione come una questione di interesse pubblico. Il sostegno economico previsto attraverso l’assegno unico e universale è certamente premessa indispensabile per la ripresa della fecondità, purché supportato da adeguate coperture finanziarie e accompagnato da interventi efficaci anche sul piano della flessibilità lavorativa e dei servizi necessari per alleggerire i genitori dall'onere della cura dei figli e permettere ad entrambi i partner di realizzarsi professionalmente.

 

Cristina Giudici, Professore associato di Demografia, Dipartimento di metodi e modelli per l’economia, il territorio e la finanza, Sapienza Università di Roma.

Eleonora Miaci, Dottoranda in Demografia, Dipartimento di Scienze statistiche, Sapienza Università di Roma.

 

Bibliografia

https://ec.europa.eu/eurostat

https://eige.europa.eu/

https://www.istat.it/

https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf

https://www.oecd.org

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Castagnaro, C., Prati, S., (2014) Avere figli negli anni 2000-Approfondimenti dalle indagini campionarie sulle nascite e sulle madri, ISTAT, LETTURE STATISTICHE ‘TEMI’.

Dalla Zuanna, G., Micheli, G.A. (2004) Strong Family and Low Fertility: A Paradox?: New Perspectives in Interpreting Contemporary Family and Reproductive Behaviour. Dordrecht; London: Kluwer Academic.

De Rose, A., Rosina, A., (2021) Il futuro della fecondità dopo COVID-19. Cosa si aspettano i demografi? Neodemos

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Mencarini, L. (2018), “Does Gender Equality Affect Fertility Decisions in Europe?”, in D. Vino de Vilhena et al., Gender Equality in Europe: Evidence from the Gender and Generations programme, Discussion Paper, 10, Berlin, Population Europe.

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Presidenza del Consiglio dei Ministri, “L’impatto della pandemia di Covid-19 su natalità e condizione delle nuove generazioni”, Primo Rapporto del Gruppo di esperti su “Demografia e Covid-19”, Dipartimento per le politiche della famiglia, dicembre 2020.

Schleutker, E. (2013) Fertility, Family Policy and Welfare Regimes. Comparative Population Studies. 39, 1 (Nov. 2013). DOI:https://doi.org/10.12765/CPoS-2013-18.

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[1]Si noti che l’oggetto di interesse non è solo il lavoro retribuito ma anche la divisione delle responsabilità all’interno mura domestiche.