A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA: RICONOSCIUTO IL “DIRITTO AL SILENZIO” NEI PROCEDIMENTI INNANZI ALLA CONSOB PER GLI ILLECITI AMMINISTRATIVI DI ABUSO DI MERCATO (CGUE 2 FEBBRAIO 2021, C-481/19).

Autore: Avv. Teresa Aloi

 

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, riunita in Grande Sezione, con la sentenza del 2 febbraio 2021 ha riconosciuto nei confronti delle persone fisiche, nell’ambito dei procedimenti davanti alla Consob per gli illeciti amministrativi di abuso di mercato, il “diritto al silenzio”, tutelato dagli artt. 47, secondo comma, e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

La sentenza della Corte ha le sue origini in una ordinanza della Corte di Cassazione Italia (Cass. civ., sez. II, ordinanza n. 3831/2018) relativa ad un procedimento amministrativo per l’illecito di abuso di informazioni privilegiate, all’esito del quale una persona fisica era stata condannata al pagamento di una sanzione pecuniaria per non aver risposto alle domande della Consob su operazioni finanziarie sospette da essa compiute, ai sensi dell’art. 187 bis e quinquesdecies T.F.U. (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58).

La sanzione pecuniaria ammontava, precisamente, a 300 mila euro, per un illecito amministrativo di abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate commessi nel 2009 e a 50 mila euro per omessa collaborazione, in quanto l’interessato, dopo aver chiesto più volte il rinvio della data fissata per la sua audizione in qualità di persona informata dei fatti, una volta presentatosi si era rifiutato di rispondere alle domande che gli erano state rivolte.

Il soggetto aveva proposto opposizione contro tale provvedimento adottato dalla Consob, davanti alla Corte d’Appello di Roma, che l’aveva respinta. Egli, di conseguenza, aveva agito davanti alla Corte di Cassazione, la quale con ordinanza del 16 febbraio 2018, aveva deciso di sottoporre alla Corte Costituzionale una questione di legittimità costituzionale sull’art. 187 quinquesdecies del T.F.U., nella parte in cui tale norma sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della Consob o il fatto di ritardare l’esercizio delle sue funzioni di vigilanza anche nei confronti di colui al quale la Consob contesti un abuso di informazioni privilegiate.

Con l’ordinanza n. 117/2019 la Corte Costituzionale ha, a sua volta, rimesso alla Corte di Giustizia UE alcune questioni pregiudiziali. Essa osserva che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 quinquesdecies viene sollevata in riferimento a vari diritti e principi, alcuni dei quali sanciti dal diritto nazionale italiano, ossia il diritto alla difesa e il principio della parità tra le parti nel processo previsti, rispettivamente, all’art. 24 e 111 della Costituzione ed altri riconosciuti dal diritto internazionale e dal diritto dell’Unione.

La Corte ha specificato che, il diritto al silenzio dell’imputato, pur non godendo di espresso riconoscimento costituzionale rappresenta un corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost. Tale diritto garantisce all’imputato la possibilità di rifiutare di sottoporsi all’esame testimoniale e, più in generale, di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande del giudice o dell’autorità competente per le indagini. Essa ha ricordato di non essere mai stata chiamata a valutare se e in che misura tale diritto, appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana che caratterizzano l’identità costituzionale italiana, sia applicabile anche nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura “punitiva”. Tuttavia, in molte occasioni, essa ha ritenuto che singole garanzie riconosciute nella materia penale dalla CEDU e dalla stessa Costituzione italiana si estendano anche a tale tipologia di sanzioni e ha più volte affermato che le sanzioni amministrative previste nell’ordinamento italiano in materia di abuso di informazioni privilegiate costituiscono, in ragione della loro particolare afflittività, misure di natura “punitiva”.

Secondo la Corte Costituzionale occorre considerare il rischio che, per effetto dell’obbligo di cooperazione con l’autorità competente, il sospetto autore di un illecito amministrativo suscettibile di una sanzione a carattere penale possa contribuire, di fatto, alla formulazione di un’accusa in sede penale nei propri confronti.

Essa sottolinea, al riguardo, che nell’ordinamento italiano le operazioni che configurano un abuso di informazioni privilegiate costituiscono, nello stesso tempo, un illecito amministrativo ed un illecito penale e che, i relativi procedimenti possono essere attivati e proseguiti parallelamente nei limiti in cui ciò sia compatibile con il principio del ne bis in idem sancito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La Corte ricorda che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il diritto al silenzio ex art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, risulta violato quando dei soggetti vengono sanzionati dal diritto nazionale per non aver risposto alle domande delle autorità amministrative nell’ambito di procedimenti di accertamento di violazioni amministrative punibili con sanzioni a carattere penale.

Essa, inoltre, ha rilevato che l’art. 187 quinquesdecies, in questa sede censurato, è stato adottato in esecuzione di un obbligo specifico imposto dalla direttiva 2003/6/CE (relativa all’abuso di informazioni privilegiate ed alla manipolazione del mercato) e che tale normativa costituisce al momento l’attuazione di un’analoga disposizione contenuta nel regolamento (UE) n. 596/14 che ha abrogato la stessa direttiva.. In particolare, l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE prevedeva che: “gli Stati membri fissano le sanzioni da applicare per l’omessa collaborazione alle indagini e l’art. 30, paragrafo 1, lett. b), del regolamento (UE) n. 596/14 stabilisce, analogamente, che, fatti salvi le sanzioni penali ed i poteri di controllo delle autorità competenti, gli Stati membri provvedono affinchè le autorità competenti abbiano il potere di adottare le sanzioni amministrative ed altre misure amministrative adeguate per l’omessa collaborazione o il mancato seguito dato nell’ambito di un’indagine, un’ispezione o una richiesta.

La Corte Costituzionale ha ritenuto, pertanto, che un’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 187 quinquiesdecies rischierebbe di porsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, in particolare, con l’obbligo che discende dall’art. 30, paragrafo 1, lett. b), del regolamento (UE) n. 596/14; obbligo di cui l’art. 187 quinquiesdecies costituisce attuazione. Peraltro, tale obbligo potrebbe risultare di dubbia compatibilità con gli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, i quali sembrano riconoscere un diritto fondamentale dell’individuo a non contribuire alla propria accusa ed a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria negli stessi limiti desumibili dall’art. 6 Cedu e dall’art. 24 della Costituzione italiana.

Alla luce di quanto esposto, la Consulta, ex art. 267 TFUE, ha interrogato la Corte di Giustizia dell’Unione europea in merito alla compatibilità di tali testi normativi con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Più specificamente, se l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE e l’art. 30, paragrafo 1, lett. b) del regolamento (UE) n. 596/2014 debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere alle domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva” e se, in caso di risposta negativa, tali norme siano compatibili con gli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e con la stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

La Corte di Giustizia UE, investita di tali questioni pregiudiziali, ha, innanzitutto, riconosciuto l’esistenza di un “diritto al silenzio”, tutelato dagli artt. 47, secondo comma, e 48 della Carta dei diritti, nell’ambito dei procedimenti pendenti davanti alla Consob, a carico di persone fisiche per illeciti amministrativi di abuso di mercato. Inoltre, essa sottolinea che il diritto al silenzio, che è al centro della nozione di “equo processo”, osta, in particolare, a che una persona fisica “imputata” venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente risposte dalle quali potrebbe emergere una sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative a carattere penale oppure la sua diretta responsabilità penale.

La Corte precisa, a tal proposito che, la giurisprudenza relativa all’obbligo per le imprese di fornire, nell’ambito di procedimenti suscettibili di portare all’inflizione di sanzioni per comportamenti anticoncorrenziali, informazioni che potrebbero successivamente essere utilizzate allo scopo di dimostrare la loro responsabilità, non può trovare applicazione in via analogica al fine di stabilire la portata del diritto al silenzio di una persona fisica accusata di abuso di informazioni privilegiate.

Essa sottolinea però, che il diritto al silenzio non è esente da limiti. Esso, infatti, non può giustificare qualsiasi rifiuto di presentarsi ad un’audizione richiesta dalle autorità competenti o di porre in essere manovre dilatorie dirette a rinviare lo svolgimento di tale audizione.

Nel motivare le proprie conclusioni la Corte di giustizia UE, infine, ha ritenuto che, sia la direttiva 2003/6/CE che il regolamento (UE) n. 596/2014 si prestano ad un’interpretazione conforme al diritto al silenzio, nel senso che essi non impongono che una persona fisica venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente risposte da cui potrebbe emergere la propria responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la propria responsabilità penale. Date tali circostanze, il fatto che nei testi normativi indicati manchi un’esplicita esclusione dell’inflizione di una sanzione per un rifiuto siffatto non può pregiudicare la loro validità. Incombe sugli Stati membri l’obbligo di garantire che una persona fisica non possa essere sanzionata per il suo rifiuto di fornire tali tipi di risposte all’autorità competente o comunque si rifiuti di collaborare con esse.

 

Avv. Teresa Aloi,  Foro di Catanzaro.