La responsabilità dell’hosting provider: il recente arresto della Cassazione.
Autore: Prof. Avv. Aldo Fittante
Il controverso tema della responsabilità del provider è stato recentemente sottoposto all’attenzione della Suprema Corte di Cassazione, intervenuta per dirimere una controversia in occasione della quale si è espressa con una decisione destinata a costituire uno spartiacque rispetto a questioni da tempo molto dibattute[1].
Attraverso la pronuncia in commento – avente ad oggetto in particolare il controverso tema della responsabilità dell’hosting provider – gli Ermellini hanno posto alcuni punti fermi in grado di garantire una uniforme interpretazione di fattispecie alquanto complesse e molto delicate.
Un approdo ermeneutico – quello recentemente fatto proprio dal Supremo Consesso – espressione sia dei principi medio tempore recepiti dalla giurisprudenza comunitaria (ripetutamente intervenuta in materia negli ultimi anni), sia del mutato quadro tecnologico (con conseguente profonda trasformazione del ruolo del provider), sia del contesto normativo in piena evoluzione (a quasi un ventennio dall’entrata in vigore della Direttiva E-Commerce 2000/31/CE e nell’imminenza del varo della nuova Direttiva Copyright).
I fatti di causa e lo svolgimento del processo.
Oggetto della sentenza[2] – volendo inquadrarne preliminarmente il contenuto – è il tema della corretta interpretazione del regime di responsabilità dei prestatori di servizi web di memorizzazione permanente (gli hosting provider).
La Cassazione, in particolare, è stata chiamata a pronunciarsi sulla validità o meno della costruzione interpretativa relativa al cosiddetto hosting provider “attivo”, figura emersa in alcune precedenti decisioni di merito dedicate al delicato tema[3], e sulla disciplina della relativa responsabilità nonché – si noti subito – sulle condizioni alle quali può configurarsi comunque una responsabilità anche del provider meramente “passivo” o “neutro”.
La sentenza della Cassazione è stata pronunciata a conclusione di una vertenza protrattasi sin dal lontano 2001 allorquando il Tribunale di Milano[4] ha qualificato Yahoo! Italia S.r.l. quale provider attivo, come tale ritenendolo responsabile per la diffusione non autorizzata (in particolare tramite il servizio Yahoo Italia Video) di contenuti protetti da copyright – nel caso di specie rappresentati da sequenze di programmi televisivi della istante RTI S.p.A. – e riconoscendo la sussistenza della violazione lamentata da quest’ultima dei propri diritti di utilizzazione economica esclusiva.
Il Giudice di primo grado milanese, in particolare, ha sancito l’inoperatività dell’esenzione da responsabilità prevista dall’art. 14 della Direttiva E-Commerce, con conseguente sottoposizione di Yahoo! Italia al regime ordinario di responsabilità per colpa, concludendo nel senso che debba ritenersi che “Tutti gli elementi innanzi menzionati contribuiscano in effetti nel loro complesso ad individuare il prestatore di servizi Yahoo! Italia S.r.l. quale soggetto che fornisce (quanto meno) un hosting attivo, in quanto organizza e seleziona il materiale trasmesso dagli utenti riservandosi anche — così certamente esorbitando da qualsiasi posizione di pretesa neutralità — il diritto di “riprodurre, modificare, remixare, adattare, estrarre, preparare opere derivate” da contenuti video immessi dagli utenti”.
La Corte di Appello di Milano[5], rovesciando la sentenza di primo grado appena riferita, ha invece escluso che Yahoo! Italia potesse configurarsi come un hosting provider attivo, posto che il servizio Yahoo Italia Video da essa offerto ai propri clienti consiste unicamente – ha ritenuto il giudice del gravame – nell’accesso a una rete, senza l’aggiuntivo servizio di elaborazione dei dati.
Conseguentemente il giudice d’Appello milanese ha ritenuto che fosse da escludersi la configurabilità in capo a tale provider di un obbligo generale preventivo sia di controllo dell’effettività titolarità dei diritti d’autore da parte dei singoli soggetti che caricavano i video sullo spazio di memoria messo a loro disposizione, sia di “filtraggio” dei contenuti.
La sentenza della Suprema Corte n. 7708 del 19 marzo 2019.
Dopo il dietrofront del giudice del gravame milanese, la vertenza è pervenuta avanti alla Corte di Cassazione che – nella sua funzione nomofilattica – attraverso la sentenza 7708/2019 ha enunciato principi di diritto che, posti a garanzia di una uniforme interpretazione di questioni assai dibattute, sono destinati ad informare le future decisioni di merito sui complessi ed assai delicati temi organicamente approfonditi nella pronuncia di legittimità che di seguito esamineremo in dettaglio.
La sentenza ha anzitutto “stabilizzato” il lungo e tormentato percorso giudiziario che ha condotto alla distinzione – di creazione esclusivamente giurisprudenziale – tra provider “attivi”, soggetti alle regole ordinarie sulla responsabilità civile, e provider “passivi” o “neutri”, i quali ultimi soltanto possono beneficiare dell’esenzione di responsabilità di cui agli artt. 14 della direttiva sul commercio elettronico (2000/31/CE) e 16 del D.lgs. n. 70/2003 (“decreto e-commerce”).
La distinzione, osserva la Suprema Corte, affonda le proprie radici nella stessa Direttiva E-commerce che – anche alla luce dell’interpretazione ripetutamente fatta propria dalla Corte di Giustizia, nel frattempo più volte intervenuta sulla questione – intende circoscrivere l’operatività delle esenzioni di responsabilità al solo intermediario la cui attività sia di ordine meramente tecnico.
Ha osservato in particolare la Cassazione come la Corte di Giustizia nel caso Google France[6] ha ritenuto Google un hoster attivo, sulla base della considerazione che “dal quarantaduesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/31 risulta, a tal proposito, che le deroghe alla responsabilità previste da tale direttiva riguardano esclusivamente i casi in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione sia di ordine «meramente tecnico, automatico e passivo», con la conseguenza che detto prestatore «non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate»”.
La Suprema Corte, a questo proposito, ha citato anche il caso L’Oreal contro eBay[7], nel quale la Corte di Giustizia ha qualificato eBay quale provider attivo, nel presupposto “che la eBay procede ad un trattamento dei dati forniti dai suoi clienti venditori. Le vendite alle quali possono condurre tali offerte avvengono secondo modalità fissate dalla eBay. Se necessario, la eBay fornisce anche un’assistenza diretta ad ottimizzare o a promuovere talune offerte in vendita”.
In conseguenza di ciò – ha concluso il giudice comunitario – eBay non può avvalersi della deroga in materia di responsabilità di cui all’art. 14 della direttiva 2000/31/CE, risultando che “detto gestore abbia prestato un’assistenza consistente segnatamente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte, si deve considerare che egli non ha occupato una posizione neutra tra il cliente venditore considerato e i potenziali acquirenti, ma che ha svolto un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte”.
È sulla base di tale consolidato indirizzo giurisprudenziale comunitario[8] che, in primis, gli Ermellini – rivedendo le posizioni della Corte d’Appello milanese che aveva ritenuto tale figura addirittura “fuorviante e sicuramente da evitare concettualmente” – riconoscono espressamente la figura del provider attivo, precisando sul punto che la relativa nozione costituisce ormai letteralmente un “approdo acquisito”.
La Suprema Corte ha definito espressamente tale figura come quel “prestatore dei servizi della società dell'informazione il quale svolge un'attività che esula da un servizio di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, e pone, invece, in essere una condotta attiva, concorrendo con altri nella commissione dell'illecito, onde resta sottratto al regime generale di esenzione di cui al D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 16, dovendo la sua responsabilità civile atteggiarsi secondo le regole comuni”.
D’altra parte la Cassazione non ha mancato di enucleare una serie di cd. "indici di interferenza" – il cui accertamento in concreto ha demandato al giudice del merito (precisando peraltro sul punto sia che la relativa elencazione deve ritenersi esemplificativa sia che non ne è necessaria la relativa compresenza) – che corrispondono a servizi web al cospetto dei quali deve presumersi l’esistenza di un hosting provider attivo, sottratto come tale al regime generale di esenzione da responsabilità di cui al D.Lgs. n. 70 del 2003.
Si tratta di quelle che gli Ermellini hanno testualmente individuato come le “attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l'effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati”.
In presenza di detti indici di interferenza, ha concluso la Corte, l’hosting provider deve essere qualificato come “attivo” e – come tale – non può beneficiare dell’esenzione di responsabilità riconosciutagli dalla normativa generale, dovendo invece la sua responsabilità atteggiarsi secondo le regole comuni.
In secondo luogo la Suprema Corte – sia pure inquadrando nel caso di specie la figura di Yahoo! Italia quale hosting provider passivo – ha proceduto ad offrire una interpretazione del regime di responsabilità degli hosting “passivi” o “neutri”, concludendo nel senso che gli stessi non si possono comunque giovare incondizionatamente delle norme di favore di cui al D.Lgs. 70/2003.
Fermo restando, ha precisato la Cassazione, il principio generale dell’irresponsabilità del provider – il quale non è soggetto né ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite – il prestatore di servizi di hosting (anche se passivo o neutrale) è in ogni caso responsabile con riguardo al contenuto delle informazioni quando:
“a) egli “sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita” e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, “sia al corrente del fatto o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione”(omissis);
oppure
b) egli “non agisca immediatamente per rimuovere l’informazione o per disabilitarne l’accesso” appena “a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti” (omissis)”.
La Suprema Corte ha chiarito anzitutto che si tratta di due ipotesi distinte, come confermato dal fatto che l’art. 14 della Direttiva 2000/31/CE, del quale la norma interna costituisce attuazione, comprende la disgiuntiva “o” tra le due ipotesi.
Riguardo alla prima ipotesi[9], la Corte si è poi soffermata sugli elementi costitutivi della fattispecie: l’illiceità manifesta dei contenuti stessi e la conoscenza di questa.
Circa l’illiceità dei contenuti, la Corte ha precisato che essa discende dalla violazione dell’altrui sfera giuridica, mediante un illecito civile o penale, comportante la lesione di diritti personalissimi o, come nella specie, del diritto d’autore.
L’aggettivo “manifesta”, ha precisato la Cassazione, circoscrive la responsabilità del prestatore alle sole fattispecie di colpa grave o dolo, laddove se l’illiceità è “non manifesta”, il prestatore del servizio ha il solo obbligo di informarne le competenti autorità ex art. 17 comma 2 D.Lgs. 70/2003 (la cd. notice).
La conoscenza di tale illiceità implica che non si tratta di una responsabilità oggettiva o per fatto altrui, ma di responsabilità del prestatore del servizio per fatto proprio colpevole mediante omissione, ovvero per non aver impedito la protrazione dell’illecito (mediante la rimozione delle informazioni o la disabilitazione dell’accesso).
La Cassazione ha poi proseguito nell’individuare la nozione giuridica di “conoscenza effettiva” (del riferito altrui illecito “manifesto”), ritenendo che la stessa consegua ad una comunicazione o notizia in tal senso operata dal terzo, il cui diritto si assuma leso.
Alla luce della giurisprudenza dedicata al delicato problema della presunzione di conoscenza dei prestatori di servizi online – anch’esso in sé alquanto discusso – si erano determinati due orientamenti contrapposti: secondo una prima tesi, più restrittiva, affinchè il provider possa esser considerato al corrente dell’illecito è necessario un ordine dell’autorità giudiziaria[10]. Altra tesi, estensiva, ritiene sufficiente che al provider sia pervenuta l’informazione dell’illiceità del contenuto caricato sul proprio portale, a prescindere dal soggetto dal quale gli sia pervenuta, sia esso l’autorità giudiziaria, l’autore dell’opera illegittimamente caricata o qualsiasi interessato[11].
La Suprema Corte sul punto ha concluso lapidariamente nel senso che “il sorgere dell'obbligo in capo al prestatore del servizio non richiede una "diffida" in senso tecnico - quale richiesta di adempimento dell'obbligo di rimozione dei documenti illeciti - essendo a ciò sufficiente la mera "comunicazione" o notizia della lesione del diritto”.
A tal proposito ha precisato altresì che il terzo il cui diritto si assuma violato è tenuto soltanto a provare con qualunque mezzo l’avvenuto recapito della comunicazione all’indirizzo del destinatario, con una presunzione iuris tantum di conoscenza che è superabile dal prestatore del servizio fornendo la prova contraria concernente l’impossibilità di acquisirne, in concreto, conoscenza per un evento estraneo alla sua volontà.
L’hosting provider è chiamato quindi a delibare, secondo criteri di comune esperienza, alla stregua della diligenza professionale tipicamente dovuta, la comunicazione pervenuta e la sua ragionevole fondatezza, nonché, in ipotesi di esito positivo della verifica, ad attivarsi rapidamente per eliminare il contenuto segnalato.
La Corte ha inoltre affermato che la responsabilità omissiva del prestatore del servizio presuppone la verifica che fosse lui possibile attivarsi utilmente ed in modo efficiente, in quanto munito di adeguati strumenti conoscitivi e anche dotato dei poteri per impedire l’altrui illecito.
Infine, la comunicazione diretta all’host provider – ha precisato ulteriormente la Cassazione – deve essere idonea a consentire a quest’ultimo la comprensione e l’identificazione dei contenuti illeciti: la Suprema Corte ha demandato la relativa verifica ai giudici di merito affinchè gli stessi accertino, avuto riguardo ai profili tecnico-informatici se, nell’ipotesi di trasmissione di prodotti video in violazione dell’altrui diritto di autore, questi siano identificabili mediante la mera indicazione del nome della trasmissione da cui sono tratti e simili elementi descrittivi, oppure occorra anche la precisa indicazione del cd. indirizzo URL, quale sequenza di caratteri identificativa dell’indirizzo cercato[12].
Gli Ermellini non si sono pronunciati espressamente sul punto, demandando il relativo accertamento al giudice di merito, ma hanno lasciato intendere la propria adesione all’indirizzo che ammette la segnalazione dei contenuti lesivi anche tramite la mera indicazione dei titoli dei materiali illeciti, senza dunque specifica indicazione dell’URL di allocazione.
Conclusioni
Il dictum della Cassazione ha evidentemente tenuto nel debito conto l’evoluzione intervenuta nei sofisticati sistemi tecnologici esistenti, divenuti tali da permettere comunque alle piattaforme web una facile individuazione dei contenuti lesivi, ferma restando l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza quale sancita dalla normativa vigente.
Una evoluzione sul piano tecnologico della quale la recente Direttiva Digital Copyright[13] ha preso definitivamente atto, riconoscendone le implicazioni anche sul delicato problema della responsabilità del provider e della nuova e diversa prospettiva dalla quale prendere le mosse per affrontarlo e risolverlo.
Alla stregua della pronuncia della Suprema Corte la figura dell’hosting provider c.d. passivo – soggetto comunque ad un suo proprio “statuto” anch’esso chiaramente delineato dalla stessa Cassazione – diviene l’eccezione più che la regola, attraverso un’operazione ermeneutica che in qualche modo va a forzare un dettato normativo divenuto inadeguato ai tempi e alle attuali tecnologie.
In effetti, specie negli ultimi anni e proprio sul tema della responsabilità dei fornitori dei servizi on-line, la Direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico ha ripetutamente dimostrato – nei suoi quasi venti anni di vigenza – la propria inadeguatezza a regolare fattispecie del tutto nuove sul piano tecnologico ed inevitabilmente impensabili all’epoca della relativa emanazione[14].
Del resto la ratio ispiratrice del regime di quasi integrale esonero da responsabilità del fornitore dei servizi online della Direttiva E-Commerce è stata – ben comprensibilmente per l’epoca – quella di favorire l’espansione della società dell’informazione.
La Direttiva stessa ha del resto avuto cura di precisare – nel considerando n. 42 – che le deroghe alla responsabilità ivi stabilite avrebbero dovuto operare solamente rispetto ad un’attività del prestatore di servizi della società dell’informazione che fosse “di ordine meramente tecnico, automatico e passivo”.
Ebbene è accaduto che – con il passare del tempo – il contesto tecnologico di riferimento ed il conseguente ruolo del provider hanno subito una profonda e radicale trasformazione.
Come già efficacemente osservato fin dalla sentenza di primo grado del Tribunale di Roma n. 10893 del 2011 (nella vertenza conclusasi con la pronuncia della Cassazione qui in commento), “L’evoluzione della rete informatica mondiale sembra però aver superato nei fatti tale figura di prestatore del servizio, che all’epoca in cui detta direttiva veniva elaborata delineava tale soggetto come del tutto estraneo rispetto alle informazioni memorizzate sia a livello di gestione dei contenuti che di regolamentazione contrattuale con i destinatari del servizio. In effetti la situazione attuale rende evidente che le modalità di presentazione di tale servizio – ormai del tutto comuni ai soggetti che svolgono attività analoghe – si sono distaccate dalla figura individuata dalla normativa comunitaria (…) finendo nell’individuare (…) una diversa figura di prestatore di servizi non completamente passiva e neutra rispetto all’organizzazione della gestione dei contenuti immessi dagli utenti (cd. hosting attivo), organizzazione da cui trae anche sostegno finanziario in ragione dello sfruttamento pubblicitario connesso alla presentazione (organizzata) di tali contenuti”.
La sentenza della Suprema Corte 7708/2019 ha mostrato piena consapevolezza delle grandi trasformazioni medio tempore intervenute a livello tecnologico ed ha ricostruito la responsabilità dell’hosting provider tenendo conto di tale evoluzione e della nuova normativa sul diritto d’autore che – contestualmente alla pronuncia – si stava varando a livello comunitario, una riforma ben presente agli Ermellini e non a caso espressamente richiamata dalla Cassazione nella propria pronuncia.
Il riferimento è evidentemente alla Direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019, sul diritto d'autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale, che modifica le direttive 96/9/CE e 2001/29/CE.
La Direttiva – che dovrà essere recepita dagli Stati Membri entro il 7 giugno 2021 – pone in effetti tra i propri principali obbiettivi anzitutto quello di riequilibrare e ricondurre ad equità il vantaggio economico che i giganti del web ad oggi hanno ottenuto dallo sfruttamento di contenuti creativi altrui.
Limitatamente al profilo che qui interessa, la Direttiva – ed in particolare il relativo art. 17 – si propone di incidere significativamente sul ruolo delle piattaforme online.
Il Legislatore comunitario ha preso atto del fatto che i fornitori di servizi del web – che grazie all’evoluzione tecnologica medio tempore realizzatasi possono e debbono munirsi di tecnologie efficaci per il riconoscimento dei contenuti illeciti e informare i titolari sulla relativa attivazione e funzionamento – sono divenuti ormai abbastanza forti da potersi responsabilizzare maggiormente rispetto alle garanzie di tutela dei diritti d’autore sulla rete, consentendo al contempo di ridurre il campo di operatività delle esenzioni da responsabilità.
La sintesi equilibrata degli interessi contrapposti, da un lato degli internet service provider, dall’altro dei titolari dei diritti d’autore sulle opere digitalizzate, viene ricercato e perseguito attraverso la promozione da parte della Direttiva di meccanismi collaborativi tra fornitori di servizi online – ai quali vengono peraltro richiesti “elevati standard di diligenza professionale di settore” – e creatori, per assicurare a questi ultimi un’equa remunerazione ed un’adeguata trasparenza.
Riguardo alla responsabilità dei provider – che si atteggia in modo gradato e più attenuato nel caso specifico dei provider start up, individuati attraverso precisi parametri dimensionali e di “anzianità” – gli stessi, se non vorranno incorrere in responsabilità, non solo dovranno dimostrare di essersi attivati prontamente per disabilitare l’accesso all’opera sulla base di una segnalazione sufficientemente motivata e di aver compiuto ogni sforzo per impedirne il caricamento in futuro – ma dovranno altresì provare di aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione dai titolari dei diritti.
L’ambizioso obiettivo della norma è di andare a bilanciare gli interessi di grandi piattaforme, editori e autori. Adesso spetterà ai legislatori nazionali — in sede di recepimento della normativa sovranazionale, il cui termine è fissato al 7 giugno 2021 — adottare strategie che, pur nel perimetro tracciato dalla Direttiva, tengano conto delle specificità dei Paesi membri.
Autore: Avv. Aldo Fittante, Professore a contratto in “Diritto della Proprietà Industriale” Università degli Studi di Firenze e in “Diritto della Proprietà Intellettuale” ed “Industrial and Intellectual Property nella Moda” Università LUM Jean Monnet di Bari (Casamassima).
[1] Si segnala anche la sentenza, “gemella” alla pronuncia in commento, nella quale la Suprema Corte si è invece occupata sempre di responsabilità del provider, ma nel caso specifico della responsabilità del caching: si tratta della sentenza n. 7709 del 19 marzo 2019. Quest’ultima pronuncia è intervenuta a conclusione della controversia tra Reti Televisive Italiane S.p.A. contro Yahoo Italia per l’indicizzazione, attraverso il servizio Yahoo!Search, di contenuti video tratti da programmi televisivi di R.T.I. ed illecitamente caricati sul web. La Cassazione, nella pronuncia “parallela” alla sentenza che verrà di seguito ampiamente analizzata, ha in particolare confermato la conclusione del Tribunale, accertando che il servizio Yahoo! Search si limita a svolgere la funzione di semplice motore di ricerca, consistente nel “cercare e organizzare in un elenco i siti pertinenti ai criteri di ricerca indicati dall’utente interrogante fornendo i link che consentono la connessione con ciascuno di essi”, memorizzando temporaneamente a tale scopo una copia di ogni sito in una «cache» e facilitando le attività di ricerca degli utenti anche attraverso un’ottimizzazione dei tempi. La Corte ha dunque concluso nel senso che l’attività svolta da Yahoo! Italia è configurabile come mero caching e che non comportano la perdita di neutralità del provider neppure gli ulteriori meccanismi impiegati da Yahoo!Search, in particolare di embedding (che permette di visionare un brano audiovisivo restando fisicamente connesso al portale del motore di ricerca), di preview (che consente di vedere in anteprima piccole porzioni dei contenuti ricercati) e di suggest search (suggerimenti di ricerca). La Suprema Corte ha dunque ritenuto che, nonostante dette tecnologie che caratterizzano il servizio Yahoo! Search di Yahoo Italia, quest’ultima continua a non avere il controllo delle informazioni memorizzate, dovendo dunque beneficiare, come correttamente ritenuto dal Tribunale, dell’esenzione da responsabilità prevista dall’art 15 d. lgs 70/2003.
[2] Per una lucida analisi del tema si vedano anche “Caso Mediaset contro Yahoo!: la Cassazione sulla responsabilità dell’hosting provider alla luce della nuova direttiva sul copyright”di Camilla Cristalli, pubblicato in data 6 maggio 2019 in Ius in Itinere; “La rinnovata responsabilità dell’internet service provider tra tenaci esigenze imprenditoriali e copiose istanze di tutela dei diritti d’autore nel mercato unico digitale” di Vincenzo Iaia, pubblicato nel n. 1/2019 della rivista in Ius in Itinere; “La Cassazione e il simulacro del provider attivo: mala tempora currunt”, di Marco Bassini, pubblicato in MediaLaws – rivista di diritto dei media, n. 2/2019.
[3] Circa il formante giurisprudenziale attraverso il quale si era delineata la figura che cd. provider “attivo” si segnalano: Tribunale di Roma, 10 gennaio 2019, in causa RTI contro Vimeo; Appello Roma, 29 aprile 2017, in causa RTI contro Break Media; Tribunale di Roma, 15 luglio 2016, in causa RTI contro Megavideo; Tribunale di Roma, 5 maggio 2016, in causa RTI contro Kewego; Tribunale di Roma, 15 marzo 2016, in causa RTI contro Break Media; in precedenza v. Tribunale di Milano, 20 gennaio 2011, in causa RTI contro ItaliaOnLine.
[4] Sentenza del Tribunale di Milano n. 10893 del 9 settembre 2011.
[5] Corte di Appello di Milano, 7 gennaio 2015, n. 29.
[6] Sentenza della Corte di Giustizia UE del 23 marzo 2010 nella causa Google France e Google.
[7] Sentenza della Corte di Giustizia UE del 12 luglio 2011, nella causa C-324/09 L’Oreal/eBay.
[8] La Suprema Corte cita anche altre decisioni della Corte di Giustizia, unanimi nell’accogliere la nozione di “hosting provider attivo”: Corte di Giustizia UE 7 agosto 2018, Coöperatieve Vereniging SNB-REACT U.A. c. Deepak Metha, C-521/17; Corte di Giustizia UE, sent. 14 giugno 2017, C-610/15, Stichting Brein; Corte di Giustizia UE 11 settembre 2014, C-291/13, Sotiris Papasavvas;
[9] Al riguardo il Supremo Collegio enuncia il principio di diritto secondo cui l'hosting provider - anche quando non è "attivo" ma "passivo" - risponde dei danni verso il titolare dei diritti d'autore violati quando “non abbia provveduto alla immediata rimozione dei contenuti illeciti, nonché se abbia continuato a pubblicarli, pur quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) sia a conoscenza legale dell'illecito perpetrato dal destinatario del servizio, per averne avuto notizia dal titolare del diritto leso oppure aliunde; b) l'illiceità dell'altrui condotta sia ragionevolmente constatabile, onde egli sia in colpa grave per non averla positivamente riscontrata, alla stregua del grado di diligenza che è ragionevole attendersi da un operatore professionale della rete in un determinato momento storico; c) abbia la possibilità di attivarsi utilmente, in quanto reso edotto in modo sufficientemente specifico dei contenuti illecitamente immessi da rimuovere”.
[10] Tale opinione trova fondamento nell’art. 16 del D.lgs. 70/2003 nella parte in cui alla lettera b) prescrive che l’obbligo di rimozione scaturisce da una “comunicazione delle autorità competenti” e pertanto esclude che soggetti diversi da questi ultimi possano far sorgere l’obbligo di rimozione.
[11] A fondamento della quale si evidenzia che l’art. 14 della direttiva 31/2000/CE non fa alcun riferimento alle autorità competenti a differenza del decreto di recepimento.
[12] Cfr. a tal proposito l’attenta analisi contenuta nell’articolo “La rinnovata responsabilità dell’internet service provider tra tenaci esigenze imprenditoriali e copiose istanze di tutela dei diritti d’autore nel mercato unico digitale” di Vincenzo Iaia, pubblicato nel n. 1/2019 della rivista in Ius In Itinere.
[13] Si veda, anche a questo proposito, “Caso Mediaset contro Yahoo!: la Cassazione sulla responsabilità dell’hosting provider alla luce della nuova direttiva sul copyright”, pubblicato in data 6 maggio 2019 da Camilla Cristalli in Ius in Itinere.
[14] Cfr. l’articolo “Attivo, anche se inconsapevole. Il Tribunale di Roma sanziona Vimeo e conferma i caratteri della responsabilità dell’hosting provider attivo per violazione del diritto d’autore altrui” di Filippo Frigerio, pubblicato in MediaLaws – rivista di diritto dei media, n. 2/2019.