IL SETTORE FINANZIARIO E LA BREXIT
Autore: Dott. Edoardo Franza
Il 23 giugno del 2016 in Inghilterra si svolgeva il referendum consultivo preannunciato da David Cameron durante la campagna elettorale del 2015. Da quel momento l’Unione Europea non sarebbe più stata la stessa. L’esito del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell'Unione europea, anche noto come referendum sulla "Brexit", non fu scontato: circa un cittadino votante su due- il 51,95 per essere precisi- votò per il “be leave in Britain”. Quasi un anno dopo il referendum (il 29 marzo 2017) il primo ministro britannico Theresa May comunicò al Consiglio europeo l’intenzione del Regno Unito di recedere dall’Unione europea. Fu un giorno epocale. Mentre la stampa inglese titolava gioiosamente “Freedom”, o “Independence Day” la sterlina cadeva e il governo inglese apriva il lungo dibattito con le autorità Europee. La prima fase dei negoziati, iniziati il 19 giugno dello stesso anno, porterà ad un lungo iter che è ancora in corso d’opera e che presumibilmente terminerà nel 2020.
L’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona ha costretto l’U.E a valicare un terreno inesplorato. Dopo aver approvato l’avvio dei negoziati con il Regno Unito il 29 aprile del 2017 il Consiglio Europeo concorda alcuni orientamenti fondamentali. In questi prevede che i negoziati dovranno essere considerati “come un unico pacchetto” (as a single package) dove “nulla è concordato fino a quando tutto è stato concordato” (nothing is agreed until everything is agreed).
Il primo traguardo si è avuto l’8 dicembre 2017. Nell’accordo tra Bruxelles e il primo ministro del paese, Theresa Mayn, definito dal presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker come un compromesso, vengono definite le condizioni di uscita del Regno Unito dall’Unione su tre materie fondamentali: la protezione dei cittadini europei nel Regno Unito e i cittadini di quest’ultimo nell’Unione; il quadro per affrontare le circostanze uniche nell’Irlanda del Nord; l’accordo finanziario.
Il 15 dicembre dello stesso anno si è dato il via alla seconda fase della negoziazione. Questa, invece, si è concentrata sulle relazioni future e il periodo transitorio. Il periodo transitorio inizierà il 30 di marzo del 2019 avrà durata sino al 31 dicembre 2020 (arco temporale in cui nel Regno Unito continuerebbe ad applicarsi la normativa UE nella sua forma evolutiva).
L’accordo di recesso dovrà essere concluso dal Consiglio, a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento europeo e non necessita di essere ratificato dagli Stati membri, ma solo nel Regno Unito.
Se alla scadenza non sarà raggiunto l’accordo, i trattati e la normativa UE cesseranno di applicarsi al Regno Unito, che diventerà a tutti gli effetti un paese terzo. Se non si raggiungesse alcun accordo, i rapporti commerciali sarebbero regolati dalle norme del WTO (World Trade Organization), in particolare per il settore finanziario dal GATS. Si applicherebbe in tal caso la clausola della “nazione più favorita” (Most Favoured Nation, MFN), che impone un divieto di discriminazione. Secondo tale disciplina, ogni Stato si impegna ad accordare a ogni altro lo stesso trattamento concesso a tutti i paesi con cui non esistono specifici accordi commerciali bilaterali. Inoltre, in caso di mancata conclusione di un accordo di recesso, a partire dalla data della Brexit (ossia, come si è detto, in UK dalle ore 23 del 29 marzo 2019), sia attuerebbe un regime particolare, detto temporary permissions regime con cui si stabilisce, in via unilaterale, la temporanea validità dei passaporti in favore delle imprese e dei fondi dello spazio economico europeo (SEE) che intendano continuare ad operare in UK successivamente alla Brexit.
Ma quali sono le conseguenze di un mancato accordo per il mercato unico ed in particolare per quello dei mercati finanziari? Bene.
Sicuramente le imprese UK saranno considerate alla stregua di un operatore proveniente da un paese terzo e non potranno più prestare servizi sulla base della previgente autorizzazione (perdita del passaporto UE). I rischi di una simile situazione sono molti. Primo fra tutti la disruption dovuta all’impossibilità per gli operatori UK di continuare a prestare servizi nell’UE. Tra di questi le imprese di investimento e remote member del mercato, e i gestori di piattaforme di negoziazione e di infrastrutture di post-trading autorizzati nel Regno Unito; ma anche per il clearing dei derivati denominati in euro che viene eseguito in larga parte presso infrastrutture insediate nel Regno Unito. Inoltre, non sarebbe più possibile impedire politiche aggressive volte ad attrarre business sul territorio nazionale.
Una simile eventualità andrebbe poi a discapito della trasparenza dei mercati. Difatti, le trading venue UK non saranno più sottoposte alle regole MiFID 2/MiFIR e l’operatività su quelle sedi non sarà più considerata nel calcolo per l’applicazione delle soglie di esenzione, con conseguente maggiore opacità dei mercati e conseguente potenziale effetto negativo sul processo di corretta formazione dei prezzi, ovvero del principale elemento di segnalazione del valore dei prodotti scambiati.
Per far fronte efficacemente alle descritte problematiche serve dunque un intervento coordinato a livello UE, soprattutto per un paese come l’Italia (non interessato da relocation) che rischia di subire le esternalità negative derivanti da pratiche di vigilanza troppo lasche (arbitraggio/forum shopping).
Intanto continuano le trattative. Difatti, è di pochi giorni fa la notizia che l’unione europea vorrebbe offrire Gran Bretagna una sorta di unione doganale ridotta all’osso che resterebbe in vigore fino al raggiungimento di un accordo di libero commercio onnicomprensivo da negoziare negli anni successivi. Ciò avrebbe una ulteriore importante conseguenza. La frontiera fra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda rimarrebbe aperta evitando di riattizzare le tensioni della guerra civile fra indipendentisti cattolici ed unionisti protestanti.
Dott. Edoardo Franza, Giornalista