A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

IL REGIME GIURIDICO DELLE INVENZIONI DEI RICERCATORI DELLE UNIVERSITA’ E DEGLI ENTI PUBBLICI DI RICERCA.

 Autore: Avv. Prof. Aldo Fittante 

 

La Cassazione penale interviene in tema di diritti dei ricercatori delle Università e degli Enti Pubblici di ricerca nello sfruttamento dei brevetti: la pronuncia – dedicata ad un tema in cui la disciplina civile e la normativa penalistica sono inscindibilmente compenetrate – costituisce occasione privilegiata per un approfondimento dell’intero quadro normativo civilistico di riferimento, alla luce della sistemazione conferita alla complessa e delicata materia a seguito degli interventi riformatori attuati negli ultimi anni dal legislatore italiano.

 

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Cassazione penale sez. VI, 26/01/2017, n. 7484

 

La massima:

 “le somme che il ricercatore è tenuto a corrispondere all'Ente pubblico di cui è dipendente, a mente del più volte citato D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 65, sono oggetto di un mero rapporto obbligatorio a carico del ricercatore medesimo, non ricorrendo quindi il requisito costitutivo dell'altruità della res. Il che trova positivo riscontro nel tenore dell'ultimo comma dello stesso art. 65, a mente del quale, "Trascorsi cinque anni dalla data di rilascio del brevetto, qualora l'inventore o i suoi aventi causa non ne abbiano iniziato lo sfruttamento industriale, a meno che ciò non derivi da cause indipendenti dalla loro volontà, la pubblica amministrazione di cui l'inventore era dipendente al momento dell'invenzione acquisisce automaticamente un diritto gratuito, non esclusivo, di sfruttare l'invenzione e i diritti patrimoniali ad essa connessi o di farli sfruttare da terzi, salvo il diritto spettante all'inventore di esserne riconosciuto autore": a significare, cioè, che la trasmissione ex lege del diritto di sfruttamento economico dell'invenzione, ancorchè non in via esclusiva, solo ove ricorra la specifica situazione tratteggiata dal riprodotto comma, comporta che, in assenza di quest'ultima, non può revocarsi in dubbio che il diritto medesimo spetti unicamente al ricercatore, il cui debito nei confronti dell'Ente pubblico, benchè percentualmente stabilito direttamente dalla legge (nell'ipotesi di cui al comma 3 dell'art. 65, qui invocata dal magistrato procedente), non esula dai confini di un semplice rapporto obbligatorio.”.

 

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L’approfondimento di Aldo Fittante

Il caso: introduzione.

La fattispecie sulla quale si è recentemente pronunciato il Giudice di legittimità penale è quella di un dirigente e responsabile della ricerca di un’Azienda pubblica di servizi alla persona, indagato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze per il delitto di peculato. L’accusa ha avuto origine da un contratto tra il ricercatore presso l’Ente pubblico di ricerca e una ditta privata, relativo alla progettazione di una determinata opera, poi brevettata dal ricercatore stesso. In particolare, l’accusa del Pubblico Ministero del Tribunale penale fiorentino scaturiva dal fatto che il funzionario-ricercatore non aveva versato all’Ente pubblico di appartenenza il 30% delle somme ricevute, così come previsto dall’articolo 65 del D.Lgs. n. 30/2005 (Codice della Proprietà Industriale) per le invenzioni dei ricercatori degli enti pubblici di ricerca. La questione approdava poi dinnanzi ai Giudici su ricorso proposto dal ricercatore avverso il sequestro delle somme che era stato disposto dal Pubblico Ministero. Il Tribunale di Firenze annullava il decreto di sequestro probatorio, escludendo l’astratta configurabilità del reato di peculato per mancanza dell’elemento costitutivo dell’altruità della res oggetto dell’appropriazione.

La vicenda approdava dunque dinnanzi alla Corte di Cassazione su ricorso del Pubblico Ministero fondato sull’assunto che la quota parte spettante all’Ente di ricerca non è in origine di proprietà del ricercatore e fondandosi sulla circostanza che l’art. 65 del Codice della Proprietà Industriale non rimette alla libertà negoziale delle parti la determinazione della spettanza dell’Ente, ma la regola in senso autoritativo, conferendo a Università ed Enti pubblici di ricerca il potere di stabilire l’importo massimo del canone legale di loro spettanza.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del Pubblico Ministero, condividendo le argomentazioni espresse sul punto dal Tribunale e confermando che, in caso di opera d'ingegno progettata da un ricercatore alle dipendenze di un istituto pubblico di ricerca, il corrispettivo pagato dal privato destinatario dell'attività di ricerca e di utilizzazione del brevetto spetta unicamente all'inventore, il quale, a sua volta, è tenuto a riversare nei confronti del suo ente di appartenenza una quota percentualmente prestabilita. Nell’ipotesi in cui tale quota non venga da questi versata all’Ente stesso, non è su questa scorta configurabile a suo carico il delitto di peculato, mancando il requisito costitutivo della altruità del denaro appropriato e configurandosi invece un semplice inadempimento civilistico[1].

Per avvalorare l’iter logico-giuridico da essa seguito nella propria recente pronuncia, la Suprema Corte richiama in motivazione il quarto comma dell’art. 65 del Codice della Proprietà Industriale[2].

In definitiva secondo i Giudici di legittimità, la circostanza che la trasmissione ex lege del diritto di sfruttamento economico dell’invenzione, ancorchè non in via esclusiva, avvenga solo nel caso in cui ricorra la situazione specifica contemplata dal comma appena richiamato, comporta che – ove non ricorra detta specifica ipotesi – si debba necessariamente concludere nel senso che il diritto medesimo spetti unicamente al ricercatore, il cui debito nei confronti dell’ente pubblico, pur stabilito in misura percentuale direttamente dal legislatore, “non esula dai confini di un semplice rapporto obbligatorio”.

 

Il regime giuridico delle invenzioni dei dipendenti e la disciplina delle invenzioni dei ricercatori universitari e degli Enti pubblici di ricerca.

La recente pronuncia del Giudice di Legittimità penale – dedicata ad un tema in cui la compenetrazione tra disciplina civile e normativa penalistica è particolarmente evidente – costituisce occasione privilegiata per un approfondimento dell’intero quadro normativo civilistico di riferimento e per interrogarsi sull’efficacia della sistemazione conferita alla complessa e delicata materia delle invenzioni dei ricercatori universitari e degli Enti Pubblici di ricerca rispetto agli intenti del legislatore che hanno animato gli interventi riformatori attuati negli ultimi anni.

Il regime giuridico delle invenzioni dei ricercatori delle Università e degli Enti Pubblici di ricerca, quale contenuta attualmente nell’art. 65 del D.Lgs. n. 30/2005 (Codice della Proprietà Industriale, d’ora innanzi CPI) differisce notevolmente – ed anzi è per molti versi sostanzialmente antitetico – rispetto alla disciplina generale delle invenzioni dei dipendenti, privati e pubblici, quale rispettivamente dettata dall’art. 64 CPI e dall’art. 34 del DPR n. 3/1957 (Testo Unico sul pubblico impiego e di seguito per brevità tupi)[3].

In estrema sintesi, potremmo dire che le norme appena riferite distinguono le invenzioni dei dipendenti privati e pubblici in tre categorie: nelle prime due, le invenzioni cd. di servizio e le invenzioni cd. d’azienda, tutti i diritti patrimoniali spettano al datore di lavoro, salvo il diritto del lavoratore ad esserne riconosciuto autore e nel solo caso dell’invenzione d’azienda – compete al lavoratore anche il diritto all’equo premio; quanto alla terza categoria, quella delle invenzioni cd. occasionali, in esse tutti i diritti patrimoniali appartengono al dipendente, spettando invece al datore di lavoro un diritto di prelazione, o meglio di opzione, sulla cessione o licenza dell’invenzione e/o dei relativi brevetti.

Differente – ed anzi come anticipato per molti versi opposta rispetto al regime dettato in generale dal legislatore per i dipendenti pubblici e privati ed appena descritto – è la disciplina che il Codice della Proprietà Industriale ha riservato alle invenzioni dei ricercatori delle Università e degli Enti Pubblici di ricerca. 

L’art. 65 del D.Lgs. n. 30/2005 – in espressa deroga all’art. 64 alla stregua del quale, come anticipato, i diritti derivanti dall’invenzione industriale realizzata dai dipendenti privati e pubblici appartengono in linea di principio al datore di lavoro – prevede che il ricercatore universitario o comunque appartenente ad una amministrazione pubblica con finalità di ricerca è titolare esclusivo dei diritti derivanti dall’invenzione brevettabile di cui è autore.

Il medesimo art. 65 CPI prevede tuttavia, in particolare all’ultimo comma, che l’appena riferito regime giuridico delle invenzioni dei ricercatori universitari e degli Enti Pubblici di ricerca non trovi applicazione nell’ipotesi di attività di ricerca finanziate, in tutto o in parte, da soggetti terzi pubblici o privati.

Su questa base, per semplificare l’esposizione, potremmo distinguere il regime giuridico delle invenzioni dei ricercatori universitari e degli Enti Pubblici di ricerca in due categorie, a seconda se l’invenzione brevettabile sia frutto di ricerca “libera” – realizzata cioè dal ricercatore pubblico nell’ambito della propria attività di ricerca istituzionalmente svolta all’interno dell’Università o Ente Pubblico cui appartiene – o se, diversamente, l’invenzione da brevettare scaturisca da attività di ricerca che, per quanto realizzata dal ricercatore pubblico, sia finanziata da soggetti esterni, siano essi pubblici o privati, sulla base di contratti di ricerca, affidamenti di consulenze e convenzioni di ricerca per conto terzi[4].

Nella prima ipotesi, quella della cd. ricerca “libera” – nella quale peraltro tutto ciò che non viene espressamente previsto dalla legge può ed, anzi, deve trovare la propria disciplina nell’ambito del Regolamento interno adottato dalle singole strutture di afferenza – l’esclusiva titolarità da parte del ricercatore dei diritti derivanti dall’invenzione brevettabile di cui al riferito art. 65 co. 1 CPI, si estrinseca nel diritto attribuito al ricercatore di depositare la domanda di brevetto sulla invenzione di cui è autore e, una volta ottenuto il titolo brevettuale, di vendere il medesimo o licenziarlo, disponendo sostanzialmente della prerogativa di decidere la strategia di sfruttamento commerciale del brevetto stesso.

Più in particolare il ricercatore universitario o dipendente di un Ente Pubblico di ricerca autore di un’invenzione brevettabile scaturita da ricerca “libera”, ha davanti a sé due strade: potrà cioè depositare la domanda di brevetto per proprio conto e a proprio nome, oppure potrà chiedere alla propria struttura di afferenza di depositare essa stessa la domanda di brevetto.

Nel primo caso, conformemente alla disposizione di cui all’ultima parte dell’art. 65 CPI, ne dovrà anzitutto dare comunicazione all’Amministrazione di appartenenza. Salvo che non sia previsto diversamente nel relativo Regolamento, spese ed oneri da sostenere per il deposito della domanda di brevetto e per le relative consulenze saranno inoltre a carico del ricercatore. Del resto, quanto ai profitti derivanti dalla vendita o dalla licenza del brevetto, gli stessi spetteranno al ricercatore in misura non inferiore al 50% e la struttura di appartenenza – sempreché il relativo Regolamento interno, nei limiti della quota minima appena riferita riservata al ricercatore, non preveda una quota superiore – avrà diritto al 30% dei diritti derivanti dallo sfruttamento patrimoniale del brevetto.

In sostanza, volendo esemplificare – in assenza di Regolamento interno adottato dalla struttura di afferenza del ricercatore – i proventi della vendita o del licensing dell’invenzione brevettata spetteranno al ricercatore nella misura del 70% e alla struttura di afferenza nella misura del 30%, mentre il Regolamento interno eventualmente adottato potrà riservare alla struttura di appartenenza una percentuale dei proventi derivanti dallo sfruttamento del brevetto compresa tra un minimo del 30% ed un massimo del 50% (spettando correlativamente al ricercatore una percentuale rispettivamente compresa tra i restanti 70% e 50%).

D’altra parte – per concludere sul regime giuridico dell’ipotesi del ricercatore universitario o dipendente di un Ente Pubblico di ricerca autore di un’invenzione brevettabile scaturita da ricerca “libera” e che opti per il deposito della domanda di brevetto per proprio conto e a proprio nome – contrariamente a quanto previsto in tema di invenzioni dei dipendenti, il Codice della proprietà industriale non riserva espressamente all’Università o all’Ente di appartenenza del ricercatore un diritto di prelazione nell’ipotesi in cui il ricercatore stesso assuma la decisione di cedere a terzi il brevetto, fermo restando che tale prelazione ben potrà essere prevista in caso di emanazione da parte dell’Università o Ente di appartenenza del ricercatore stesso di uno specifico Regolamento.

Circa la seconda delle strade che si pongono al ricercatore universitario o dipendente di un Ente Pubblico di ricerca autore di un’invenzione brevettabile scaturita da ricerca “libera”, l’ipotesi è sostanzialmente quella del ricercatore che decide di non presentare la domanda di brevetto in nome e per proprio conto, ma sceglie di depositarlo tramite la propria struttura di appartenenza, caso nel quale assumono un ruolo decisivo le regole e le procedure specificamente dedicate a tale eventualità nell’ambito dei Regolamenti interni della struttura di afferenza.

Ferma restando la ripartizione dei proventi derivanti dalla vendita o dal licensing del brevetto che è identica al caso del ricercatore che brevetta in nome e per proprio conto quale poco sopra analizzato, in proposito i Regolamenti dell’Università o dell’Ente di appartenenza prevedono – nella generalità dei casi – che in tale ipotesi il ricercatore presenti presso l’Ufficio competente della struttura una istanza attraverso la quale comunica alla propria struttura di afferenza di aver conseguito una invenzione, dichiarando di essere disponibile a cedere alla struttura stessa i propri diritti patrimoniali e chiedendole di attivarsi per il deposito del brevetto. A tale istanza, secondo una disciplina altrettanto ricorrente nei Regolamenti emanati dalle varie strutture, fanno generalmente seguito una serie di servizi a supporto messi in campo da parte dell’Università o Ente di appartenenza: si pensi alla necessaria valutazione della sussistenza dei requisiti di brevettabilità dell’invenzione, allo svolgimento delle ricerche tese ad individuare eventuali anteriorità ostative all’ottenimento del brevetto, all’esigenza di individuazione del potenziale mercato, alla valutazione in ordine all’alternativa se procedere o meno al deposito della domanda di brevetto, all’interfaccia rispetto al consulente brevettuale eventualmente incaricato, all’esigenza di far fronte agli esborsi delle spese di redazione e deposito della domanda di privativa, alla fase della trattativa con potenziali acquirenti o licenziatari, ecc…

In sostanza, nel caso del ricercatore universitario o dipendente di un Ente Pubblico di ricerca autore di un’invenzione brevettabile scaturita da ricerca “libera” che decida di non presentare la domanda di brevetto in nome e per proprio conto, ma sceglie di depositarlo tramite la propria struttura di appartenenza, “oneri ed onori” – cioè la sopportazione delle spese necessarie ma anche, in contropartita, le scelte strategiche in ordine alla brevettazione e commercializzazione del brevetto – passano dal ricercatore alla struttura di appartenenza.

La seconda delle categorie in funzione delle quali si distingue il regime giuridico delle invenzioni dei ricercatori universitari e degli Enti Pubblici di ricerca, è quella della ricerca cd. “vincolata”: in tale categoria l’invenzione da brevettare scaturisce da attività di ricerca che, per quanto realizzata dal ricercatore pubblico, è finanziata da soggetti esterni, siano essi pubblici o privati, sulla base di contratti di ricerca, affidamenti di consulenze e convenzioni di ricerca per conto terzi[5].

In questa ipotesi la titolarità compete in linea di principio al “datore di  lavoro” del ricercatore, cioè all’Università o all’Ente pubblico di ricerca. È demandata alla disciplina adottata nell’ambito del contratto tra Università/Ente di ricerca, da una parte, e committente pubblico o privato finanziatore, dall’altra parte, la spettanza della titolarità dei diritti derivanti dall’invenzione brevettabile frutto della ricerca.

Tale disciplina – liberamente negoziata tra le parti e pertanto inevitabilmente influenzata dalla forza contrattuale delle stesse, differente caso per caso – potrà condurre a contrattualizzare una titolarità esclusiva del committente ovvero una contitolarità delle parti stesse o ancora – quantomeno in linea teorica – una titolarità esclusiva dell’Università o Ente cui la ricerca è commissionata.

Ciò che è certo è che in riferimento alla categoria delle invenzioni dei ricercatori universitari e degli Enti Pubblici che siano frutto della ricerca “vincolata” – a differenza di ciò che avviene nella categoria della ricerca cd. “libera” – il ricercatore autore dell’invenzione non ha la prerogativa esclusiva di brevettare l’invenzione e neppure è garantito sul piano del diritto a non meno del 50% dei proventi derivanti dallo sfruttamento del brevetto.

 

Riflessioni critiche sulla disciplina delle invenzioni dei ricercatori universitari e degli Enti pubblici di ricerca.

L’introduzione dell’attuale regime giuridico delle invenzioni dei ricercatori universitari e degli Enti pubblici di ricerca di cui all’art. 65 del Codice della Proprietà Industriale – costituente la sostanziale trasposizione del precedente ed abrogato art. 24 bis della legge invenzioni (a sua volta introdotto dalla L. n. 383 del 2001) – è stata sin da subito salutata da molti Autori con notevole disfavore.

Attenta dottrina ha efficacemente definito la riforma come “istituzione del cd. privilegio accademico[6], osservando in particolare come “in controtendenza rispetto alla maggior parte degli ordinamenti brevettuali europei e al modello nord-americano, nel 2001 l’Italia ha provveduto a modificare il sistema di titolarità delle invenzioni realizzate in ambiente universitario, attribuendo i diritti derivanti dall’invenzione brevettabile direttamente in capo ai ricercatori universitari e non agli Atenei[7].

In effetti sono state sollevate molte critiche sulla disciplina introdotta nel 2001.

Ciò sia in ordine a numerosi aspetti tecnico-giuridici della riforma – tanto che alcuni Autori hanno addirittura rilevato anche alcuni possibili profili di illegittimità costituzionale – sia rispetto alle scelte di merito compiute dal legislatore italiano e alla relativa efficacia rispetto agli obbiettivi che ci si era proposti di perseguire.

La criticità più evidente sul piano del possibile contrasto rispetto alla nostra Carta fondamentale è stata in particolare rilevata da attenta dottrina[8] sulla base della disparità di trattamento che l’art. 65 del Codice della Proprietà Industriale comporta “non soltanto tra dipendenti del settore pubblico e rispettivamente privato (trattando diversamente i ricercatori delle università e degli enti di ricerca pubblici da quelli delle imprese e degli enti di ricerca privati); ma altresì fra gli stessi dipendenti del settore pubblico (trattando diversamente i dipendenti degli enti pubblici aventi fra i loro fini istituzionali la ricerca, e rispettivamente quelli degli enti pubblici che svolgono ricerca in maniera soltanto occasionale)”.

Problemi non meno rilevanti sono stati evidenziati dalla dottrina – sempre sul piano tecnico-giuridico – anche in ordine all’esatta delimitazione dell’ambito di applicazione dell’art. 65 del Codice della Proprietà Industriale. A ragion veduta ci si è chiesti infatti se detto regime giuridico debba applicarsi “soltanto alle università “pubbliche”, o anche a quelle “private” o “libere”; soltanto agli enti pubblici che abbiano come scopo istituzionale “esclusivo” la ricerca, ovvero anche a quelli che (sempre istituzionalmente) prevedono tale scopo come “principale ma non esclusivo”, ovvero addirittura come “secondario e permanente ma non principale”; soltanto ai soggetti che svolgono ricerca per e nell’università e che siano al tempo stesso dipendenti della medesima; ovvero anche a quei soggetti che svolgono ricerca per e nell’università ma che sono legati a questa da un rapporto diverso da quello di lavoro subordinato[9].

A ciò si aggiunga, per concludere i rilievi critici sollevati rispetto alla riforma sul piano della tecnica legislativa, un ulteriore problema di non poco conto concernente la spettanza dei diritti sulle invenzioni eventualmente create in comunione da più ricercatori. Ci si è chiesti in particolare se la presunzione di parità delle quote di partecipazione alla comunione dei diritti sull’invenzione in capo ai ricercatori co-inventori possa essere superata soltanto attraverso un patto preventivo contrario tra di essi stipulato – in conformità a quanto previsto dall’art. 24-bis co. 1 l.i., riprodotto nell’art. 65 co. 1 del Codice della Proprietà Industriale – o se sia comunque possibile la prova del diverso contributo apportato da ciascun inventore comunista alla creazione dell’invenzione – secondo la disciplina generale delle invenzioni in comunione contenuta nell’art. 20 l.i. e ora dall’6 del Codice della Proprietà Industriale.

Al di là delle criticità evidenziate da autorevole dottrina sul piano tecnico-giuridico dell’intervento riformatore, ciò che è ancor più grave è che la riforma non ha funzionato neppure sul piano sostanziale, cioè del merito e degli intenti che il legislatore si proponeva di perseguire attraverso la relativa introduzione.

I “buoni propositi” della riforma del 2001 sono efficacemente sintetizzati dalle osservazioni di attenta dottrina già citata[10] che, all’indomani dell’intervento riformatore, aveva lucidamente rilevato come “L'istituzione del c.d. privilegio accademico, in un momento storico in cui un Paese come la Germania, da sempre leader nell'innovazione, provvedeva ad espungerlo dal proprio ordinamento brevettuale, pare trovasse fondamento — nel c.d. «pacchetto Tremonti» — nel convincimento che l'attribuzione della titolarità dei frutti della ricerca ai diretti inventori (anziché agli Atenei) avrebbe comportato una serie di effetti benefici. In primo luogo, un più intenso ricorso al brevetto, nel presupposto vuoi che l'«interesse egoistico del ricercatore» lo avrebbe incentivato maggiormente verso la privativa brevettuale, vuoi che il singolo ricercatore, liberato dalle maglie della burocrazia accademica, avrebbe avuto accesso più facile e veloce alla privativa. In secondo luogo, una migliore valorizzazione della ricerca universitaria: sempre nell'assunto che il singolo ricercatore, potendo disporre autonomamente dei frutti della propria ricerca, avrebbe avuto un maggiore interesse ad attivarsi per trovare le modalità di sfruttamento più adeguate”.

La riforma tuttavia – dati alla mano ed ormai a distanza di oltre 15 anni dalla relativa introduzione – non ha sortito gli effetti propulsivi sperati.

Si sono rivelate ingiustificate – a mio modo di vedere – sia la malcelata sfiducia nei confronti dell’Università insita nella riforma del 2001, sia il convincimento del legislatore a parere del quale puntando sull’interesse egoistico del ricercatore universitario si sarebbero conseguiti benefici per l’intero sistema, in particolare in termini di stimolo all’attività di ricerca delle Università.

L’intervento riformatore non ha in primo luogo tenuto in debita considerazione le peculiarità della figura del ricercatore universitario: ci si trova infatti generalmente di fronte ad uno studioso con un profilo di carriera accademica il quale – realisticamente e ragionevolmente – non può che tendere ad una gratificazione personale legata indissolubilmente alla propria reputazione e ad un auspicabile miglioramento e avanzamento di carriera. Ben difficilmente si possono invece riscontrare nella figura del ricercatore universitario il pragmatismo e le risorse di un vero imprenditore, doti che invece il legislatore della riforma aveva ritenuto (a torto) di poter stimolare e valorizzare.

D’altra parte non si può dubitare seriamente sul fatto che – quand’anche il ricercatore universitario pervenga effettivamente alla negoziazione della propria invenzione – lo stesso disporrà presumibilmente di un potere negoziale di gran lunga inferiore a quello sul quale potrebbero invece contare gli Atenei.

Rispetto alla posizione di questi ultimi, del resto, l’attribuzione dei diritti derivanti dall’invenzione brevettabile direttamente in capo ai ricercatori universitari – effetto della riforma – non può che mortificare il ruolo che le Università sono in grado di svolgere, ed anzi dovrebbero assumere, nel processo di valorizzazione dei risultati della ricerca accademica e nel relativo trasferimento all’industria[11].

Il tutto anche a non voler considerare che l’effetto della riforma è – in ultima analisi – anche quello di disconoscere il ruolo dell’Ateneo presso cui il ricercatore universitario lavora, non tenendo in debita considerazione la circostanza che il ricercatore stesso è arrivato alla scoperta servendosi degli strumenti che l’Università ha messo a sua disposizione.

Ed infatti, come ha osservato attenta dottrina, “E’ vero, l’invenzione è un atto del ricercatore, ma questi cresce scientificamente in ciò che si può definire come un “ecosistema intellettuale”, del quale si giova continuamente – non soltanto per il godimento delle infrastrutture – e senza il quale sarebbe difficile attivare quel processo cumulativo di contributi, che connota i moderni cicli di produzione della conoscenza[12].

In definitiva la scelta – tutta italiana e tenuta ostinatamente ferma dal nostro legislatore che pur ha avuto una recente opportunità di revisione della stessa[13] – di attribuire la titolarità delle invenzioni del ricercatore universitario direttamente in capo al ricercatore stesso, diminuisce la probabilità che dette invenzioni vengano effettivamente attuate.

Viceversa il modello che attribuisce i diritti sulle invenzioni realizzate nelle Università alle Università stesse – avversato dal legislatore italiano ed invece adottato (non a caso) dalla maggior parte degli ordinamenti brevettuali europei e nel sistema nord-americano – offre ben maggiori prospettive di attuazione di scoperte cui, del resto, gli Atenei hanno contribuito con uomini e mezzi.

 

Autore: Avv. Prof. Aldo Fittante* 

 

* Professore a contratto in “Diritto della Proprietà Industriale” Università degli Studi di Firenze e in “Diritto della Proprietà Intellettuale” ed “Industrial and Intellectual Property nella Moda” Università LUM Jean Monnet di Bari (Casamassima); Consulente, su nomina del relativo Presidente On.le Giovanni Fava, della “Commissione Parlamentare di Inchiesta sui Fenomeni della Contraffazione e della Pirateria in Campo Commerciale”, recentemente istituita in seno alla Camera dei Deputati; dal 1° marzo 2011 contratto di collaborazione ad attività di ricerca ai sensi dell’art. 51, co. 6, della Legge 27 dicembre 1997, n. 449 con l’Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Tecnologie dell’architettura e Design “Pierluigi Spadolini” – attività di ricerca: “Le tematiche della tutela delle opere del disegno industriale e del Made in Italy nel contesto del quadro normativo nazionale ed europeo”.                         

[1] In www.diritto24.ilsole24ore.com.

[2] Come precisato dalla Suprema Corte di Cassazione nella pronuncia qui in commento - pur richiamando la stessa erroneamente l’ultimo co. dell’art. 65 ed invece trattandosi del quarto comma del medesimo articolo codicistico - detta disposizione prevede che: “Trascorsi cinque anni dalla data di rilascio del brevetto, qualora l'inventore o i suoi aventi causa non ne abbiano iniziato lo sfruttamento industriale, a meno che ciò non derivi da cause indipendenti dalla loro volontà, la pubblica amministrazione di cui l'inventore era dipendente al momento dell'invenzione acquisisce automaticamente un diritto gratuito, non esclusivo, di sfruttare l'invenzione e i diritti patrimoniali ad essa connessi o di farli sfruttare da terzi, salvo il diritto spettante all'inventore di esserne riconosciuto autore”.

[3] Per una attenta analisi sul punto si veda G. De Fazio-L. Rinaldi “La titolarità delle invenzioni rimane dei ricercatori”, in Guida al Pubblico impiego, Edizione maggio 2005, n. 5 pag. 31.

[4] Una efficace sintesi della disciplina normativa relativa alle differenti ipotesi che possono porsi nel caso delle invenzioni dei ricercatori universitari e degli Enti Pubblici di ricerca è contenuta in http://first.aster.it, “le invenzioni dei ricercatori delle università e degli enti pubblici di ricerca”.

[5] Il riferimento è ancora una volta alla efficace analisi contenuta in http://first.aster.it, “le invenzioni dei ricercatori delle università e degli enti pubblici di ricerca”.

[6] Così, in particolare Emanuela Arezzo, “La tutela e la valorizzazione della ricerca universitaria in tempi di crisi, in Riv. Dir. Ind., fasc. 3, 2013, p. 148.

[7] Ibidem.

[8] L. Rinaldi “Le invenzioni industriali e gli altri prodotti dell’ingegno dei dipendenti e dei ricercatori universitari alla luce del nuovo codice della proprietà industriale”, in Riv. Dir. Ind., fasc. 6, 2005, pag. 432.

[9] Ibidem.

[10] Così, in particolare Emanuela Arezzo, op. cit.

[11] Così, in particolare, Claudia Del Re in “il modello di titolarità dei risultati della ricerca universitaria come parametro di efficienza del trasferimento tecnologico accademico: la preferibilità del modello di titolarità istituzionale”, in Riv. Dir. Ind., fasc. 6, 2016, pag. 272.

[12] M. Granieri, La disciplina delle invenzioni accademiche nel Codice della proprietà industriale, in Il Diritto Industriale, 2005, p. 29 e ss.

[13] Si allude alla proposta di radicale modica della disposizione codicistica in commento della quale si è discusso in occasione del varo da parte del Legislatore nel 2005 del Decreto Correttivo del Codice della Proprietà Industriale. Detta proposta di modifica, in particolare, è stata poi stralciata in sede di approvazione definitiva del D. Lgs. n. 131 del 13 agosto 2010, cioè il Decreto Correttivo a seguito del quale la disposizione dell’art. 65 del Codice della Proprietà Industriale è rimasta immutata.