A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

LE INDAGINI FINANZIARIE ALLA LUCE DELLA SENTENZA N. 228 DEL 2014 DELLA CORTE COSTITUZIONALE

Autore: Dott.ssa Elisabetta Castilletti - Dott. Carmelo Mirko Di Pietro

 

Sommario:

1. Introduzione;

2. Presunzioni relative insite nella norma;

3. Problematica sui prelevamenti ed importi riscossi;

4. Compensi dei professionisti e contraddittorio preventivo;

5. Sentenze della Corte Costituzionale: spunti riflessivi.

 

  1. Introduzione

Gli studi di diritto tributario, sin dalle loro origini, si caratterizzano per la centralità attribuita al tema dell’accertamento ed ai poteri istruttori ad esso correlati a favore dell’Amministrazione finanziaria.              

Le tendenze e le usuali prassi mostrano tuttavia come l'attività di accertamento esprima prima di tutto le esigenze di tempestività e certezza del gettito, di contrasto immediato all’evasione e all’elusione fiscale, a volte però a discapito delle maggiori garanzie poste a favore dei contribuenti sia dalla Carta costituzionale, prime tra tutti i principi di legalità e di capacità contributiva, sia dalle disposizioni comunitarie, soprattutto in tema di diritto di difesa.

Tra i poteri utilizzabili e maggiormente incisivi a favore del Fisco, posizione preminente riveste quello che è, oggi più che mai, lo strumento più discusso ai fini della verifica sostanziale della posizione fiscale di un soggetto: vale a dire l'accertamento finanziario.

Esso non è, in senso tecnico, un accertamento vero e proprio, bensì una particolare procedura che consente all'organo verificatore di reperire dati utili per la stesura dell'avviso di rettifica.

L'art. 32, comma 1, n. 2) del DPR n. 600/73 ai fini dell'accertamento delle imposte sui redditi, ed il corrispondente, almeno in parte, art. 51, comma 2, n. 2), del DPR n. 633/72 ai fini IVA, disciplinano così la possibilità, sia per l'Agenzia delle Entrate, sia per la Guardia di Finanza, di procedere ad indagini di tipo bancario e finanziario nei confronti dei contribuenti, con la possibilità, da un lato, di poter formulare apposite richieste agli intermediari finanziari (banche, poste, SIM, Sicav, SGR e società fiduciarie) ed il corrispondente onere, da parte di questi ultimi, di comunicare tempestivamente all'Anagrafe tributaria, con cadenza periodica, gli estremi identificativi di ciascun cliente, nonché la tipologia di rapporto con esso intrattenuto e il contenuto analitico dei singoli rapporti.

 

  1. Presunzioni relative insite nelle norme

La tematica maggiormente discussa riguarda senz'altro l'utilizzo dello strumento presuntivo a favore dell'Amministrazione finanziaria, mutuato dalle disposizioni civilistiche.

In particolare, i dati e gli elementi rinvenuti in sede di accertamento finanziario possono essere utilizzati ai fini della rettifica della base imponibile dichiarata dal contribuente se questi non dimostra, in sede di contraddittorio preventivo, che ne ha già tenuto conto per la determinazione della base imponibile stessa o, comunque, che non hanno rilevanza allo stesso fine.

Così, posta la clausola di salvezza della prova contraria a favore del contribuente, la norma istituisce una presunzione legale relativa. Una presunzione iuris tantum, secondo cui le movimentazioni bancarie e finanziarie, annotate nei rapporti, od afferenti qualsiasi altra operazione, sono da considerare espressive di componenti di reddito, o di operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto sottratte ad imposizione, salva la dimostrazione, da parte del contribuente, della loro irrilevanza o che ne ha già tenuto conto nella dichiarazione presentata.

 

  1. Problematica sui prelevamenti ed importi riscossi

L'art. 32, comma 1, n. 2), seconda parte, così recita: “sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei predetti rapporti od operazioni”.

La disposizione si riferisce, anzitutto, ai soli fini dell'accertamento delle imposte dirette, non essendo, la medesima, rinvenibile anche ai fini dell'imposta sul valore aggiunto. Ad ogni modo, ad essa soggiacciono i soli contribuenti obbligati alla tenuta delle scritture contabili, il cui elenco esaustivo è rinvenibile all'art. 13 DPR n. 600/1973.

Quello dei prelevamenti ed importi riscossi, parificati a ricavi o compensi percepiti, rappresenta l’unico caso in cui una presunzione, connessa alle risultanze finanziarie, viene espressamente riferita a due specifiche categorie reddituali, ovvero al reddito di impresa e al reddito professionale. In tutti gli altri casi invece, relativi ai versamenti ed ad altre operazioni comunque attive, la presunzione di imponibilità potrà dare luogo, genericamente, all’accertamento di un maggior reddito complessivo, in virtù dell’espresso richiamo, operato dall’art. 32, comma 1, n. 2) del DPR n. 600/1973, alle norme che disciplinano le rettifiche e gli accertamenti (artt. 38, 39, 40 e 41 del DPR n. 600/1973), le quali fanno un riferimento generico al reddito, o maggior reddito complessivo, quale oggetto di determinazione da parte degli Uffici impositori; così, stante l’espresso richiamo della norma alle ordinarie tipologie di accertamento, si ritiene che l’operatività delle presunzioni, in ordine sempre alle sole movimentazioni attive, si estenda, a differenza di quanto previsto per i prelevamenti ed importi riscossi, alla generalità dei soggetti passivi ed alla generalità delle diverse categorie reddituali.

Anche i prelevamenti o gli importi riscossi, quindi movimentazioni di per sé passive, sono assunti quali fatti dai quali inferire l’esistenza di ricavi, di corrispettivi o di compensi (riferibile, quest'ultima accezione, ai soli percettori di reddito da lavoro autonomo).

Ma, a rigor di logica e per sua natura, un prelevamento o un importo riscosso, fatti genericamente rinvenibili nell’emissione di un assegno, un bonifico bancario, un prelevamento in contanti, segnalano un costo, non appunto un ricavo: considerarlo come tale, è sembrato alquanto eccessivo.

In realtà, in questi casi, quella posta dalla legge può essere qualificabile come una presunzione di secondo grado: cioè, dal fatto noto del prelevamento o dell'importo riscosso, si presume il fatto ignoto rappresentato dal sostenimento di un costo non registrato in contabilità; da quest’ultimo, a sua volta, si presumerebbe la produzione di un ricavo, o di un corrispettivo a sua volta non registrato. Occorre però sottolineare l’irrazionalità di una norma che sminuisce, oltre misura, il libero convincimento empirico in materia probatoria: la norma in esame, se letta analiticamente ed in maniera critica, condurrebbe difatti al paradosso di elevare a ricavo occultato, e dunque successivamente ripreso a tassazione, la somma dei prelevamenti e dei successivi versamenti relativi al ciclo costi sostenuti-ricavi acquisiti, con l’ ulteriore aggravante di non poter considerare alcun costo in deduzione, in violazione, su tutti, dei principi stabiliti in tema di determinazione del reddito d'impresa, in cui proprio i componenti negativi dovranno essere portati in deduzione al ricorrere di determinate condizioni.

Si è così tentato di giustificare tali incoerenze ora in chiave sanzionatoria, secondo cui la norma in esame introdurrebbe una vera e propria sanzione indiretta, che si prefigge lo scopo di scoraggiare l’eventuale reticenza sull'indicazione dei nominativi dei beneficiari effettivi delle operazioni finanziarie, ora in chiave anacronistica, trattandosi di una norma oggi “fuori uso”, che avrebbe trovato giustificazione in un quadro e contesto storico-normativo differente, in cui l’accesso al dato bancario risultava legittimato sulla base di conoscenze patologiche già in possesso dell’organo procedente, ancor prima di intraprendere l’attività di indagine.

 

    4. Compensi dei professionisti e contraddittorio preventivo

In riferimento all’ambito soggettivo, la regola relativa all’assimilazione dei prelevamenti finanziari ed importi riscossi non giustificati ai ricavi, inizialmente applicabile ai soli esercenti attività di impresa, è stata estesa anche agli esercenti arti o professioni, come si evince dall'indicazione normativa dei “compensi”.

Prima della modifica apportata dalla legge n. 311/2004 con l'aggiunta dei compensi, si riteneva infatti che i professionisti, benché obbligati alla tenuta delle scritture contabili, non producessero ricavi, la cui nozione è riferibile soltanto ai redditi di impresa, come si desume dal fatto che il Legislatore, nel TUIR, abbia riservato tale qualificazione unicamente ai componenti positivi tipici del reddito di impresa.

In tema di indagini finanziarie, l'emissione di un avviso di accertamento violando “il legittimo affidamento che tutti i contribuenti ripongono nell’attività accertativa dell’Amministrazione finanziaria”, la quale deve tendere ad una verifica oggettiva delle posizioni contributive e non, al contrario, a vessare il contribuente con l’emissione di un avviso di accertamento approssimativamente errato, con tutte le conseguenze patrimoniali che ne derivano, rende l’atto invalido e per l’effetto annullabile.

In questo contesto si è tentato, a più riprese, di percorrere un percorso giuridico del tutto diverso che consentisse di poter definire la controversia a partire da una radicale riforma ed annullamento parziale dei contenuti del processo verbale di constatazione, il quale ha sollevato non poche perplessità anche quanto a ragionevolezza e fondamento nelle conclusioni quantitative dei rilievi ivi formulati.

Gli agenti accertatori, nella ricostruzione del reddito imponibile riferibile al professionista, consideravano, infatti, diversi prelevamenti ed importi riscossi operati sul proprio conto quali “compensi” conseguiti nell’ambito dell’esercizio della propria attività professionale in via “induttiva”.

Ancora una volta si riporta il contenuto dell’articolo 32, comma I, n. 2 del Dpr n.600/1973, in base al quale sono posti come (ricavi o) compensi “a base delle rettifiche e degli accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”.

In proposito, si richiama l’attenzione sul fatto che:

- la norma afferma che i prelevamenti possono, in extrema ratio, essere “posti a base” di un accertamento diretto ad individuare compensi non dichiarati, ma non essere “tout court” considerati compensi omessi; è mancato, in altre parole, quel necessario supporto alle presunzioni che gli agenti dovevano appurare attraverso ulteriori elementi, attraverso una indagine più approfondita;

- non è possibile, nell’ambito del reddito di lavoro autonomo “professionale”, fare derivare un compenso da una spesa, dato che si tratta di componenti di reddito del tutto autonomi e fra i quali non esiste un rapporto di dipendenza o un collegamento; negli studi professionali, le spese sono “generiche e generali”, a differenza dei compensi, che sono tutti specifici e derivanti da prestazioni professionali facilmente individuate. E’ di tutta evidenza che le uscite non rappresentano costi e non formano, ai fini dell’imposizione, reddito, poiché il libero professionista non è un imprenditore e, dunque, non può tenere una contabilità relativa alle entrate-uscite.

Inoltre, ciò richiede un’inversione dell’onere della prova, per cui spetta all’amministrazione finanziaria provare la circostanza opposta.

Con riguardo all’applicazione della presunzione normativa ai professionisti, da ultima, è intervenuta la circolare n. 25/E/2014 dell’Agenzia delle Entrate che ha per così dire attribuito margini più ampi di difesa ponendo l’attenzione sull’importanza del contraddittorio preventivo nelle indagini finanziarie, già oggetto di numerosi dibattiti sia in dottrina, sia in giurisprudenza.

Il proposito del contraddittorio è, da un lato, quello di permettere al contribuente di giustificare preventivamente le operazioni finanziarie discusse e, dall’altro, quello di consentire che l’ufficio stesso ricostruisca correttamente la concreta disponibilità del soggetto evitando di giungere a conclusioni che si discostano dalla realtà reddituale del medesimo.

Nell'ambito del procedimento di accertamento fiscale, il diritto del contribuente all’instaurazione del contraddittorio preventivo con il Fisco è ormai riconosciuto pacificamente come necessaria estrinsecazione dei principi costituzionali e comunitari del diritto di difesa e del canone di ragionevolezza. Principio del preventivo contraddittorio reso ancor più imperativo a seguito della sentenza della Corte di Giustizia del 18 dicembre 2008, C-349/07, «Sopropé» .

Dunque, l’importanza che assume il contraddittorio preventivo è volta a permettere che le presunzioni fissate dall’art. 32 DPR n. 600/73 a tutela della pretesa erariale vengano applicate dagli uffici con criterio di proporzionalità e ragionevolezza.

Ciò detto, un collegamento tra componenti positivi e negativi di reddito, nella determinazione del reddito di lavoro autonomo professionale, non è possibile anche avuto riguardo al “criterio di cassa” che vige nel settore. E’, infatti, di comune esperienza la constatazione che i compensi seguono “di molto” le spese; a spese sostenute in un anno fanno seguito compensi riscossi in uno o due esercizi; insomma, non c’è una diretta correlazione fra “spesa” e “compenso”.

 

     5.   Sentenze della Corte Costituzionale: spunti riflessivi

In un panorama così tanto controverso è intervenuta, a più riprese, la Corte Costituzionale.

La prima pronuncia, la sentenza 8 giugno 2005, n. 225, ha statuito che la norma sui prelevamenti non avrebbe in realtà violato l’art. 53 Cost. sul principio di capacità contributiva, in quanto si “risolve in una presunzione di ricavi iuris tantum, suscettibile, cioè, di prova contraria attraverso l’indicazione del beneficiario dei prelievi”. Una presunzione siffatta non sarebbe apparsa, così, lesiva del canone di ragionevolezza di cui all’ art. 3 Cost., non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari, effettuati da un imprenditore, siano stati destinati all’esercizio dell’attività di impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile.

Pur tentando così di arginare le numerose lacune interpretative ancora sussistenti, rimaneva comunque persistente la problematica relativa alle movimentazioni passive, in particolare sui compensi per i professionisti.

Di diversa impostazione è invece la recente pronuncia della Corte Costituzionale, sentenza n. 228 del 2014, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma di cui all’art. 32, comma I, numero 2), secondo periodo, del DPR n. 600/73, nella parte in cui prevede una presunzione legale a favore del Fisco di maggiori compensi a carico del professionista, qualora quest’ultimo non sia stato in grado di fornire spiegazioni. Secondo i Giudici della Corte, non si comprendevano le ragioni logiche per le quali anche i prelevamenti effettuati sul conto corrente dovessero aggiungersi ai versamenti, così creando, di fatto, una duplicazione di voci. Il thema decidendum si è tutto incentrato dunque sulla illogica equiparazione di situazioni differenti attinenti, cioè, le figure dell’imprenditore e del lavoratore autonomo, con conseguente lesione del principio d’uguaglianza di matrice costituzionale.

Difatti, l’attività dei lavoratori autonomi è caratterizza dal compimento di un servizio con prestazioni prevalentemente proprie, nonchè dalla residualità dell'apparato organizzativo.

Da ciò deriva il principio di diritto espresso dai giudici della Corte Costituzionale della irragionevolezza della presunzione e della sua inapplicabilità d’ora in poi ai professionisti, sul presupposto che tali categorie si avvalgono di “una fisiologica promiscuità di entrate e spese professionali e personali”. Tale rilievo è indubbiamente fondato sul piano, per così dire, “quantitativo”, nel senso che esiste probabilmente una maggiore correlazione costi-proventi per l’impresa che non per il professionista, anche se non v’è dubbio che quest’ultimo sostiene costi inerenti e produttivi di compensi.

La scenografia è senza dubbio mutata nel senso di ritenere che tali indagini non possono che essere costituzionalmente orientate, eliminando la possibilità che nei confronti di questi soggetti i prelevamenti possano essere considerati, in via presuntiva, maggiori compensi. E’ chiaro inoltre che codesta sentenza ha confermato quelle che sono state le tesi difensive sostenute negli anni precedenti e dibattute nelle aule delle Commissioni Tributarie di tutta Italia.

A parere di chi scrive, l’attesa sentenza ha, dunque, risolto l’annoso e dibattuto problema del prelevamento e degli importi riscossi dai conti correnti bancari e postali da parte del professionista, escludendo che lo stesso possa essere posto a base dei compensi presuntivamente percepiti ed evasi. La presenza, poi, di conti ad uso “misto”, ossia anche per esigenze personali e/o familiari, e l’assenza degli obblighi contabili sono i tratti distintivi del mondo professionale che, pertanto, devono essere considerati dal Fisco nel momento in cui viene emesso un avviso di accertamento.

In conclusione, rispetto ai prelevamenti nessuna contestazione può essere mossa dall'Ente accertatore.

Ciò risulta rispondente al vero non solo per il presente e per gli accertamenti futuri, ma anche per il passato, con la necessità dunque di attivarsi, in virtù dei riscontri del Giudice costituzionale, per poter richiedere l’autotutela per gli accertamenti già sollevati o già pendenti nelle Commissioni Tributarie.

 

Dott.ssa Elisabetta Castilletti - Dott. Carmelo Mirko Di Pietro, Componenti CAT (Camera Avvocati Tributaristi) di Siracusa