A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

LA TUTELA GIURIDICA DELLE OPERE MUSICALI NEL DIRITTO D’AUTORE COMUNITARIO ALLA LUCE DELLE RECENTI IPOTESI DI RIFORMA DEL REGIME DI RESPONSABILITÀ DELL’INTERNET SERVICE PROVIDER

Autore: Avv. Prof. Marco Mastracci

 

Sommario: 1. Introduzione - 2. Il quadro normativo internazionale - 3. La normativa comunitaria - 4. La responsabilità degli internet service provider per le violazioni del diritto d’autore. 4.1 L’esperienza statunitense. 4.2. La disciplina comunitaria – 5. Il ripensamento del regime di responsabilità del provider all’interno dell’ordinamento comunitario – 5.1. La strategia per il copyright nel Digital Single Market – 6. Considerazioni conclusive.

 

  1. Introduzione

Il diritto d’autore è nato con il compito di conciliare le esigenze degli autori di opere creative di essere remunerati per il loro lavoro con quelle della collettività di fruire, quanto più liberamente, di tali opere[1].

La concessione agli autori di un diritto di sfruttamento economico dell’opera crea un circolo virtuoso che consente agli stessi di poter vivere grazie al frutto della loro creatività, incentivando al contempo la creazione di ulteriori opere[2].

Se non venisse concesso all’autore la possibilità di sfruttare economicamente il contenuto della sua opera, egli sarebbe costretto ad abbandonare la sua attività creativa per dedicarsi a lavori più remunerativi, con l’ovvia conseguenza che le attività creative resterebbero appannaggio esclusivo dei soggetti più abbienti.

Al contempo, l’interesse della collettività ad avere accesso ai frutti della creatività umana viene sacrificato in modo tollerabile, dal momento che il contenuto dell’opera protetta diviene di libero dominio allo scadere della tutela approntata dal diritto d’autore.

L’avvento di Internet ha compromesso l’equilibrio tra le contrapposte esigenze degli autori e della collettività in quanto, nel volgere di poco tempo, sono mutate radicalmente le modalità di fruizione dei contenuti creativi, con il conseguente sgretolamento del modello di business sul quale si era fondato, almeno fino alla metà degli anni ’90, il successo dell’industria dell’intrattenimento.

Ruolo egemone in tal senso è stato svolto dalla c.d. pirateria online:la rapida diffusione di siti attraverso i quali ottenere gratuitamente ciò che, fino a poco tempo prima, era necessario acquistare in un negozio tradizionale ha determinato il crollo vertiginoso dei profitti legati allo sfruttamento della creatività autoriale.

Ne ha risentito in particolar modo il settore musicale[3], il cui modello distributivo, basato sulla vendita dei supporti materiali (dapprima i vinili, poi le musicassette e i cd) nei tradizionali negozi fisici, è divenuto rapidamente obsoleto, lasciando il campo almodello di fruizione inaugurato nel 1998 dal sito Napster.

La pirateria online ha avuto come duplice effetto sia quello di ridurre i ricavi del proprietario del diritto di esclusiva – in ragione del minor numero di copie vendute – che quello di ridurre gli incentivi a innovare, poiché il proprietario del diritto di esclusiva non era più in grado di appropriarsi dei frutti generati dall’opera dell’ingegno.

Solo in tempi più recenti, la nascita di store virtuali – nei quali gli utenti possono acquistare i contenuti creativi con un semplice click, a prezzi inferiori rispetto a quelli praticati in precedenza per l’acquisto dei supporti fisici – ha parzialmente ridato linfa all’industria discografica (e più in generale all’industria dell’intrattenimento).

Al contempo, i tradizionali attori dell’industria discografica hanno dovuto fare i conti con le nuove aziende digitali nate a seguito del boom di Internet, che hanno saputo sfruttare i contenuti creativi prodotti dall’industria musicale per sviluppare i loro modelli di business, basati prevalentemente sulla raccolta pubblicitaria.

Youtube, attualmente il secondo sito più visitato al mondo (il primo è Google, proprietario di Youtube), deve il proprio successo alla gigantesca mole di contenuti musicali e video (prodotti da altri) presenti sulla sua piattaforma.

Il tema coinvolge praticamente ogni ambito dell’industria creativa: si è creata (almeno a detta dell’industria dell’intrattenimento)una crescente disparità (c.d.Value Gap) tra il valore che alcune applicazioni online ricavano dai contenuti che ospitano sulle loro piattaforme, grazie agli enormi ricavi pubblicitari generati dal traffico di utenti, e il valore distribuito ai titolari dei diritti d’autore.

L’industria discografica, ad esempio, nonostante abbia recuperato parte dei ricavi persi a causa della pirateria online grazie alla nascita di store virtuali[4] che hanno creato un modello distributivo basato sull’acquisto delle singole canzoni, piuttosto che di album interi[5], lamenta il fatto che ancora una grossa fetta del consumo di musica non remuneri adeguatamente gli artisti e coloro che investono nella musica.

A supporto di tale doglianza, il comparto musicale evidenzia come nonostante le piattaforme di hosting – come YouTube – costituiscano la principale fonte di consumo di musica[6], con più di un miliardo di utenti a livello globale rispetto ai 68 milioni di servizi di streaming, come Spotify o Deezer, i ricavi non siano proporzionali al numero degli utenti, in quanto Spotify – da solo – remunera gli artisti molto più di quanto faccia Youtube[7].

Colpevole di tale anomala ripartizione dei ricavi a favore delle piattaforme digitali sarebbe un vulnus regolamentare, contenuto all’interno dalla disciplina relativa al regime di responsabilità prevista per i provider di internet, nel cui ambito definitorio sono ricomprese le piattaforme citate.

Al fine di risolvere tali problematiche, l’industria creativa sollecita da tempo la revisione dell’attuale disciplina d’autore. Analizziamo quanto questa istanza sia legittima, alla luce dei principi giuridici ed economici che ispirano la tutela dei contenuti creativi.

 

  1. Il quadro normativo internazionale

Le opere dell’ingegno hanno una naturale tendenza ad una diffusione estesa e potenzialmente senza limiti, ragion per cui richiedono una protezione che vada al di là di quella che può essere apprestata a livello nazionale e che soprattutto presenti un livello minimo di uniformità in tutti i paesi.

Tale esigenza era già avvertita agli albori della disciplina sul diritto d’autore, tanto che già nel lontano 9 settembre 1866, dieci stati, tra cui l’Italia, sottoscrissero la “Convenzione per la creazione di una Unione internazionale per le opere letterarie e artistiche” (c.d. Convenzione di Berna), introducendo all’interno dei paesi firmatari (il cui numero è andato aumentando nel corso del tempo, fino ad arrivare agli attuali 172[8])  un nucleo comune di disposizioni a tutela delle opere creative, rimasto, per buona parte, ancora in vigore.

Nel corso del tempo, come è ovvio, la Convenzione è stata oggetto di numerose modifiche[9], che hanno ulteriormente ampliato il livello minimo di tutela garantito a tutte le opere ricadenti nella sua sfera di applicazione, ricomprendendo altresì le nuove forme di espressione della creatività autoriale create dall’innovazione tecnologica.

Ai fini del nostro contributo, rilevano in particolare i due trattati WIPO[10] del 1996, ossia il “Wipo Copyright Treaty” (WCT)e il “Wipo Performers and Phonograms Treaty” (WPPT)[11], i quali hanno introdotto, nei rispettivi ambiti di applicazione (il WCT nella materia del diritto d’autore, il WPPT nel campo dei diritti connessi[12]) una serie di accorgimenti finalizzati ad adeguare la disciplina della proprietà intellettuale alle sfide introdotte dalla rivoluzione digitale.

Nel preambolo del primo (cui fa sostanzialmente eco anche il preambolo del WPPT), si legge infatti che le motivazioni del trattato sono riconducibili alla necessità di“risolvere in maniera adeguata le questioni attinenti ai recenti sviluppi economici, sociali, culturali e tecnologici”, assicurando al contempo “un equilibrio fra i diritti degli autori e un superiore pubblico interesse, in particolare in materia di istruzione, ricerca e accesso all’informazione”.

In primis, i trattati hanno confermato l’estensione delle facoltà tipiche del diritto d’autore anche all’ambiente digitale, affermando che caricare in rete un’opera rientra tra i poteri connessi all’esercizio delle privative riservate all’autore, specificatamente del diritto di rendere disponibile l’opera a un pubblico distante.

Il risultato ottenuto si evince dalla lettura dell’articolo 8:“Fermo il disposto degli articoli 11, paragrafo 1, punto 2), 11 bis, paragrafo 1, punti 1) e 2), 11 ter, paragrafo 1, punto 2), 14, paragrafo 1, punto 2) e 14 bis, paragrafo 1, della Convenzione di Berna, gli autori di opere letterarie ed artistiche hanno il diritto esclusivo di autorizzare ogni comunicazione al pubblico, su filo o via etere, delle loro opere, nonché la messa a disposizione del pubblico delle loro opere, in modo che chiunque possa liberamente accedervi da un luogo o in un momento di sua scelta”.

Con ciò si è fissato a livello internazionale il principio per cui la semplice “messa a disposizione” di opere per un accesso on demand rientra nel concetto di comunicazione al pubblico.

Come noto, tra le facoltà archetipe connesse allo sfruttamento economico delle prerogative autoriali, vi è quella di comunicazione al pubblico, ossia la facoltà esclusiva concessa all’autore di consentire l’esecuzione in pubblico della propria opera e di trarne da essa profitto.

Elemento decisivo per delimitare l’ambito di operatività di tale facoltà è la presenza di un pubblico, che fruisca dell’opera nel momento stesso in cui questa viene utilizzata economicamente.

Sebbene l’estensione di tale facoltà alle ipotesi in cui in cui la fruizione dell’opera avvenga a distanza individualmente e diacronicamente fosse già desumibile dal sistema, il trattato WCT ha ritenuto necessario esplicitare che il diritto d’autore si estende anche alle modalità tipiche di fruizione di un’opera in ambito digitale.

Oltre ad estendere la portata delle privative tipiche del diritto d’autore all’ambiente digitale, i trattati WIPO hanno introdotto la possibilità di tutelare gli autori rispetto agli indebiti utilizzi da parte di terzi delle opere protette attraverso l’adozione di misure tecnologiche di protezione, dovendo intendersi con tale termine tutte le tecnologie o i componenti che, nel loro funzionamento ordinario, sono destinati a impedire o a limitare atti non autorizzati dai titolari dei diritti d’autore e connessi, o a disciplinare i profili o le credenziali di accesso o di fruibilità dell’opera.

Inoltre, i trattati (WPPT, artt. 18 e 19, WCT artt. 11 e 12) hanno previsto che le Parti contraenti possano prevedere un’adeguata tutela giuridica, precostituendo mezzi di ricorso efficaci contro l’elusione delle misure tecnologiche impiegate dagli artisti, interpreti o esecutori e dai produttori di fonogrammi ai fini dell’esercizio dei diritti.

Nelle intenzioni delle parti contraenti, le misure tecnologiche di protezione avrebbero dovuto rappresentare la risposta giuridica alla crescente minaccia derivante dalla diffusione della pirateria online, in considerazione della necessità di rafforzare il quadro di tutele offerto dagli strumenti tradizionali di repressione delle violazioni del diritto d’autore.

I trattati WIPO, tenuto conto dell’elevato numero di paesi da cui sono stati sottoscritti e ratificati, hanno avuto una influenza fondamentale nell’orientare i successivi interventi normativi dei singoli stati, finalizzati ad aggiornare il diritto della proprietà intellettuale alle mutate condizioni tecnologiche. Ai fini del nostro contributo, è bene ricordare che gli stessi sono stati sottoscritti e ratificati sia dall’Unione Europea, che da tutti gli stati membri dell’Unione.

 

  1. La normativa comunitaria

L’approccio delle istituzioni comunitarie nei confronti del diritto d’autore si è focalizzato, inizialmente, su aspetti peculiari della materia, con il fine di recepire le nuove forme di espressione della creatività autoriale, lasciando ai singoli stati membri il compito di regolamentare il quadro generale della materia.

In ossequio a tale intendimento, nel corso degli anni novanta, sono state adottate nel 1991 la Direttiva sui programmi per elaboratore[13], nel 1992 la Direttiva sul diritto di noleggio e sul diritto di prestito[14], nel 1993 la Direttiva sulla radiodiffusione via satellite e la ritrasmissione via cavo[15] e la Direttiva sulla durata di protezione del diritto d’autore[16] e nel 1996 la Direttiva sulla protezione delle banche dati[17].

Nel contempo, la crescente digitalizzazione delle opere creative rendeva sempre più necessaria un’armonizzazione della materia in ambito comunitario al fine di evitare che le differenze a livello dei singoli stati membri potessero ostacolare la circolazione delle opere, la cui fruizione a distanza era resa sempre più agevole dallo sviluppo di Internet.

A metà degli anni novanta è stato, quindi, pubblicato il Libro Verde sul diritto d’autore e i diritti connessi nella società dell'informazione[18], i cui spunti sono stati fondamentali per avviare il processo che ha condotto all’emanazione, nel 2001, della Direttiva SocInfo[19], che rappresenta tuttora il nucleo principale di norme che disciplina il diritto d’autore in ambito comunitario.

In ossequio ai principi espressi nei trattati Wipo[20], la direttiva SocInfo ha esteso i diritti d’autore patrimoniali all’ambiente digitale, facendo proprie le novità in materia di misure tecnologiche e di informazioni, anche elettroniche, sui diritti e lasciando impregiudicati gli aspetti relativi alla disciplina del diritto morale d'autore, che continua ad essere regolato dal diritto nazionale di ciascuno degli Stati membri nel rispetto delle disposizioni della Convenzione di Berna sulla protezione delle opere letterarie e artistiche e dei Trattati Wipo.

Più nel dettaglio, sulla scia di quanto già previsto all’art. 11-bis della Convenzione di Berna e dell’art. 8 del Trattato WCT, la direttiva SocInfo ha armonizzato a livello europeo la nozione di comunicazione al pubblico, attribuendo agli autori il diritto esclusivo di autorizzare ogni comunicazione al pubblico[21], su filo o senza filo, delle loro opere, inclusa la messa a sua disposizione delle stesse in modo che chiunque possa accedervi da un luogo o in un momento a scelta.

Il successivo articolo 5 enuncia una serie di eccezioni alla detta regola che gli stati membri hanno facoltà di introdurre nella legislazione domestica al fine di conciliare l’interesse dell’autore ad ottenere un riconoscimento economico per la sua opera con quello di garantire alla collettività l’accesso a tali opere per finalità di interesse pubblico[22].

Le eccezioni e limitazioni di cui ai paragrafi 1, 2, 3 e 4 sono applicate esclusivamente in determinati casi speciali che non siano in contrasto con lo sfruttamento normale dell’opera o degli altri materiali e non arrechino ingiustificato pregiudizio agli interessi legittimi del titolare.

Si tratta, come è noto, del c.d. Three Step Test[23], che sottopone la legittimità delle eccezioni e limitazioni al diritto d’autore alla sussistenza di un triplice ordine di condizioni. Infatti, le eccezioni e limitazioni devono trovare applicazione solo in (i) determinati casi speciali che (ii) non contrastino con il normale sfruttamento dell’opera e che (iii) non arrechino ingiustificato pregiudizio ai titolari dei diritti[24].

A naturale completamento del quadro di tutele approntato dalla direttiva SocInfo (e dalle altre direttive che avevano provveduto a disciplinare aspetti più particolari della materia), nel 2004 la Comunità Europea ha emanato la Direttiva 2004/48/CE sul rispetto della proprietà intellettuale, cosiddetta direttiva enforcement, che ha armonizzato a livello europeo gli strumenti giuridici e i mezzi di ricorso a disposizione dei titolari dei diritti d’autore per reprimere le violazioni della proprietà intellettuale.

In precedenza, infatti, l’azione della Comunità europea nel settore della proprietà intellettuale aveva avuto per oggetto principalmente l'armonizzazione del diritto sostanziale nazionale e la creazione di un diritto uniforme nell’Unione. Era naturale che ad esito di tale processo di armonizzazione, le istituzioni comunitarie si dedicassero alla creazione degli strumenti processuali necessari a reprimere le violazioni della proprietà intellettuale.

La direttiva enforcement segna anche la fine della prima fase di armonizzazione del diritto d’autore, in quanto non solo era stato ormai colmato il vuoto normativo che contraddistingueva la disciplina della proprietà intellettuale fino a pochi anni prima, ma il quadro regolamentare approntato dalle citate direttive sembrava adeguato a fronteggiare le sfide portate dalla dirompente crescita di Internet.

Come vedremo a breve più diffusamente, tale convinzione si è rivelata errata, in quanto la sfida principale alla tutela della proprietà intellettuale in ambito digitale non è stata portata dal fenomeno della pirateria online da parte dei singoli utenti – nei cui confronti si erano concentrate le attenzioni principali dei legislatori, attraverso l’adozione delle misure tecnologiche di protezione[25]- ma dalla nascita delle piattaforme online che hanno totalmente rivoluzionato le modalità di fruizione dei contenuti creativi (e di conseguenza il relativo sfruttamento economico).

La loro prorompente ascesa è stata agevolata, oltre che dalla capacità di sfruttare appieno le potenzialità fornite dalla rete, anche dal regime di (ir)responsabilità di cui godono in relazione ai contenuti illeciti caricati dagli utenti sulle loro piattaforme.

Il quadro normativo sul diritto d’autore comunitario non può pertanto dirsi completo senza un necessario riferimento alla disciplina sul regime di responsabilità dei provider che, pur non essendo contenuta in una delle direttive comunitarie che regolano il diritto d’autore (bensì nella direttiva sul commercio elettronico[26]), ha un’incidenza enorme nel definire gli equilibri di forza tra i titolari delle privative intellettuali e i provider di Internet[27], tra cui rientrano le piattaforme in questione.

Tale argomento deve inoltre essere necessariamente approfondito,in quanto proprio su tale aspetto si concentrano le recenti ipotesi di modifica del diritto d’autore da parte delle istituzioni comunitarie.

 

  1. La responsabilità degli internet service provider per le violazioni del diritto d’autore                      4.1 L’esperienza statunitense

Tra i numerosi problemi giuridici sollevati dalla diffusione di Internet, si è posta la questione in merito all’opportunità di ritenere responsabile il provider tutte le volte in cui la immissione o la circolazione in Rete di dati della più varia specie integri gli estremi di un illecito.

La rete consente infatti a chiunque di caricare contenuti online, suscettibili di integrare violazioni di norme a tutela di una serie di diritti, quali ad esempio il diritto d’autore, ma anche il diritto alla riservatezza o altri diritti della persona, come l’onore o la reputazione.

Gli svariati illeciti che possono essere compiuti per mezzo della rete Internet pongono il problema relativo all’eventualità di configurare, oltre aduna responsabilità in capo all’autore materiale dell’illecito, anche una responsabilità in capo all’Internet Provider.

Il problema è stato affrontato, come ovvio, per la prima volta negli Stati Uniti, che ne hanno proposto una soluzione, prima a livello giurisprudenziale e poi sul piano legislativo.

In una prima fase, in cui ancora non era stata approntata una disciplina ad hoc, le corti statunitensi hanno affrontato questa problematica facendo riferimento alle tradizionali categorie previste per la responsabilità da fatto illecito, attribuendo di volta in volta ai provider una directliability, una contributoryliability o una vicariousliability.

Nel 1998, tale vuoto normativo è stato colmato, attraverso l’approvazione del Digital Millenium Copyright Act (DMCA), al cui interno sono contenute le c.d. safeharborprovisions, che consentono una sostanziale esenzione da responsabilità del provider per le eventuali violazioni della normativa in materia di diritto d’autore.

La disciplina statunitense – contenuta nella sezione 512 al titolo 17 dell’US Code, introdotta nel 1998 con la ricordata rubrica Digital Millennium Copyright Act[28] (DMCA) – non prevede infatti un generale obbligo di sorveglianza del provider circa i contenuti caricati sulla sua piattaforma, tale da configurare una sua responsabilità ogni volta che questi siano stati diffusi in violazione della normativa sul diritto d’autore.

Di contro, attribuisce tale onere di sorveglianza al titolare del diritto d’autore, che dovrà comunicare al provider la presenza sulla sua piattaforma di materiale diffuso contro la volontà del legittimo titolare del diritto.

Solo in tale momento, sorge in capo al provider l’obbligo di rimozione del contenuto proibito, in difetto del quale sarà ritenuto responsabile nei confronti del titolare del diritto a titolo di colpa omissiva.

Il sistema costruito dalla disciplina statunitense prevede, quindi, che l’obbligo di rimozione del contenuto illegale da parte del provider sorga solo nel momento in cui questo abbia effettiva conoscenza della presenza sulla sua piattaforma di materiale diffuso senza l’autorizzazione dell’autore.

Va altresì precisato che l’esenzione di responsabilità opera nel caso in cui il provider abbia mantenuto un atteggiamento di totale neutralità nei confronti dei materiali caricati; in altre parole, che esso si sia limitato a fungere da contenitore per i contenuti diffusi dagli utenti, senza aver partecipato in alcun modo all’illecito perpetrato per suo tramite.

Sulla base dei principi appena espressi, la giurisprudenza statunitense ha sovente ritenuto esenti da responsabilità i principali provider di servizi hosting nei procedimenti intentati contro di essi da parte delle grandi imprese dell’industria dell’intrattenimento.

A titolo di esempio, si abbia riguardo al procedimento giudiziario avviato nel 2007 da Viacom International Inc. - uno tra i maggiori creatori, produttori e distributori al mondo di programmi televisivi, film ed altre forme di intrattenimento (di cui fanno parte anche, tra gli altri, MTV, Paramount Pictures, DreamWorks, ecc.) nei confronti di Youtube e Google[29], in relazione ad oltre 79 mila video diffusi sulla piattaforma Youtube senza l’autorizzazione della società titolare dei relativi diritti di sfruttamento economico.

Nonostante vi fosse la prova che Youtube era al corrente della presenza di tale materiale vietato sulla sua piattaforma, la United States District Court of New York, ha ritenuto che tale conoscenza non fosse sufficiente al fine di configurare in capo alle società convenute una responsabilità indiretta per le violazioni del diritto d’autore commesse dagli utenti della piattaforma.

Youtube aveva infatti prontamente rimosso i contenuti vietati ogni qual volta Viacom ne aveva fatto richiesta, e ciò era valso a far ricadere la sua condotta sotto la protezione delle safe harbour provisions previste dal Digital Millenium Copyright Act, che, come visto, sollevano da responsabilità i provider che non siano a conoscenza dell’esistenza di specifici casi di violazione.

Sulla scorta di tale autorevole precedente sono stati definiti in modo analogo numerosi procedimenti giudiziari, contribuendo a dare forma ad un regime di responsabilità in cui al provider è sufficiente attivarsi per rimuovere i contenuti vietati a seguito di una richiesta ad hoc da parte del legittimo titolare per andare esente da ogni responsabilità.

 

     4.2. La disciplina comunitaria

I principi che informano la disciplina statunitense in materia di responsabilità del provider[30] sono stati recepiti nell’ordinamento comunitario mediante la direttiva n. 2000/31/CE sul commercio elettronico (c.d. direttiva e-commerce)[31].

In particolare, la direttiva prevede tre regimi di responsabilità differenti a seconda del tipo di servizi prestati dal provider, distinguendo tra attività di semplice trasporto delle informazioni (c.d. mere conduit, art. 12 della direttiva), attività di memorizzazione temporanea (c.d. caching, articolo 13) e attività di hosting(articolo 14).

Con riferimento a quest’ultima, il cui campo di applicazione ricomprende le piattaforme di hosting come Youtube, la direttiva prevede che il provider non sia responsabile per il contenuto delle informazioni memorizzate sulla sua piattaforma a condizione che egli non sia effettivamente al corrente del fatto che l'attività o l'informazione è illecita o, non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.

Inoltre l’articolo 15 prevede che, prescindendo dal tipo di attività svolta, il provider non abbia un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.

Nel sistema statunitense è peraltro contenuta una disposizione molto importante, in relazione al suddetto meccanismo di responsabilità del provider, la quale non è stata però replicata dal legislatore comunitario. Si prevede, infatti, che, qualora il provider, su segnalazione del soggetto che si presume danneggiato, provveda a rimuovere dalla rete il contenuto immesso on-line da un proprio cliente, e successivamente la notification risulti infondata, sarà il soggetto che l’ha effettuata (cioè chi ha inviato la diffida) a dover risarcire il cliente per il pregiudizio subito e non già il provider.

Non va di certo dimenticato che il provider ha degli obblighi nei confronti dei propri utenti e, qualora blocchi l’accesso o rimuova dei dati, può rendersi inadempiente ai propri doveri, e quindi suscettibile di esser chiamato in giudizio per danni.

Il complesso di norme appena descritto disegna un regime di responsabilità sostanzialmente conforme a quello statunitense. Anche sul piano giurisprudenziale sono analoghi i risultati cui è pervenuta la Corte di Giustizia Europea, affermando – nelle poche occasioni in cui è stata chiamata a pronunciarsi sulla responsabilità dei provider per violazione del diritto d’autore – l’operatività dell’articolo 15 della direttiva e-commerce e la conseguente assenza di responsabilità del fornitore di servizi. 

Nelle note sentenze pronunciate il 24.11.2011 e il 16.2.2012 nei procedimenti C-70/10 (Scarlet e altri c. Sabam) e C-360/10 (Netlog c. Sabam ), la Corte di Giustizia dell’Unione europea – chiamata a  decidere in merito alla responsabilità del provider in relazione alle violazioni dei diritti di proprietà intellettuale – ha precisato che la tutela del diritto d’autore non può spingersi fino al punto di comprimere altri diritti fondamentali (come la tutela dei dati personali, la libertà di impresa e la libertà di ricevere e comunicare informazioni) ed ha sottolineato come l’adozione di misure che obblighino il provider alla predisposizione di un sistema generale di filtraggio delle informazioni determinerebbe proprio tali conseguenze.

Ragion per cui, l’esenzione di responsabilità prevista dall’articolo 14, nel cui ambito di operatività ricadono le due fattispecie anzidette, è in grado di assicurare un equo contemperamento dei diversi interessi contrapposti.

La Corte ha avuto inoltre modo di precisare “che le deroghe alla responsabilità previste dalla Dir. 2000/31/CE riguardano esclusivamente i casi in cui l'attività di prestatore di servizi della società dell'informazione sia di ordine “meramente tecnico, automatico e passivo”, con la conseguenza che detto prestatore “non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate [...]. Al fine di verificare se la responsabilità del prestatore del servizio di posizionamento possa essere limitata ai sensi dell'art. 14 della Dir. 2000/31, occorre esaminare se il ruolo svolto da detto prestatore sia neutro, in quanto il suo comportamento è meramente tecnico, automatico e passivo, comportante una mancanza di conoscenza o di controllo dei dati che esso memorizza”.

Di contro, il provider dovrà esser ritenuto responsabile ogniqualvolta “anziché limitarsi ad una fornitura neutra [...], mediante un trattamento puramente tecnico e automatico dei dati forniti dai suoi clienti, svolge un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo di tali dati”.

A tal riguardo, la giurisprudenza di merito ha, a più riprese, sottolineato come “il provider che gestisce e seleziona i contenuti di terzi, anche a scopi pubblicitari, fornisce servizi di c.d. hosting “attivo” e non può beneficiare del regime di limitazioni di responsabilità previsto dalla Dir. 2000/31/CE e risponde delle violazioni dei diritti autorali di terzi secondo le comuni regole della responsabilità civile.

 

  1. Il ripensamento del regime di responsabilità del provider all’interno dell’ordinamento comunitario

La disciplina appena delineata nei suoi contorni essenziali è stata disegnata agli albori di Internet con il fine di mediare tra l’esigenza degli autori di vedere tutelati i propri contenuti creativi e quella dei provider di evitare una eccessiva responsabilità derivante dall’attività dei propri utenti.

Il rischio di una illimitata responsabilità in capo al provider avrebbe, infatti, comportato eccessivi costi di vigilanza ex ante e rallentato nettamente lo sviluppo di tali piattaforme; la previsione di una responsabilità ex post, limitata ai soli casi in cui il fornitore di servizi sia effettivamente a conoscenza della presenza di materiale vietato sulla sua piattaforma, rappresentava un giusto compromesso tra le aspettative dei diversi stakeholders coinvolti nello schema regolatorio.

Non vi è dubbio tuttavia che la disciplina disegnata inizialmente dal legislatore statunitense, seguito a ruota dal regolatore comunitario, sebbene abbia avuto il merito di comporre in maniera soddisfacente il conflitto di interessi tra fornitori di contenuti e gestori delle piattaforme di hosting, attribuisca a questi ultimi un notevole potere contrattuale nei confronti dei primi.

Ciò è emerso in modo limpido nel momento in cui, dopo una prima fase in cui i fornitori di contenuto si sono scagliati in maniera veemente contro Youtube e le analoghe piattaforme di hosting, promuovendo numerose iniziative giudiziarie volte ad accertare la violazione da parte di tali aziende della normativa sul diritto d’autore, le parti coinvolte hanno preferito risolvere i conflitti attraverso la sottoscrizione di accordi di licenza, attraverso i quali i fornitori di contenuto hanno ceduto alle piattaforme di hosting il diritto di riproduzione delle opere protette.

Tali accordi hanno risolto solo parzialmente la questione relativa al recupero della redditività connessa allo sfruttamento dei contenuti creativi, in quanto l’assetto determinato da tali accordi risulta (almeno secondo il punto di vista dell’industria dell’intrattenimento) comunque nettamente squilibrato a favore delle piattaforme di hosting.

A favore di queste ultime gioca infatti la possibilità di non sottoscrivere accordi di licenza ritenuti non favorevoli, in considerazione della possibilità di godere comunque dei contenuti vietati senza essere ritenute responsabili per la loro diffusione.

Alcuni dati sembrerebbero militare a favore della tesi prospettata dagli autori: i ricavi che i distributori di contenuto – nel caso specifico dell’industria discografica – percepiscono dai servizi audio streaming in abbonamento, come Spotify, sarebbero nettamente inferiori, in proporzione, ai ricavi ottenuti dalle piattaforme di hosting[32].

A titolo esemplificativo, nel 2016, le piattaforme come Youtube, nonostante i 900 milioni di utenti a livello globale, hanno generato ricavi per l’industria musicale pari a 553 milioni di dollari, mentre i servizi streaming in abbonamento con soli 212 milioni di utenti, hanno generato ricavi per 3,9 miliardi di dollari[33].

Facendo un confronto specifico tra servizi, un servizio in abbonamento, quale Spotify, genera una media di ricavi annuale per utente di 20 dollari, mentre YouTube contribuisce ai ricavi per l’industria discografica nella misura di un dollaro per utente[34].

Per tale ragione, l’industria musicale (e più in generale tutto il comparto creativo) sta invocando a voce sempre più forte una modifica del regime di responsabilità dei provider, sollecitando le istituzioni ad anticipare il momentoin cui tale responsabilità si profili. In altri termini, al provider non sarebbe più sufficiente attivarsi per rimuovere i contenuti vietati a seguito di istanza da parte del titolare dei diritti per essere esente da responsabilità, ma avrebbe l’obbligo di impedire che tali violazioni siano commesse.

In tale direzione sembrano muoversi i più recenti tentativi di modifica del quadro normativo sul diritto d’autore da parte delle istituzioni comunitarie all’interno della più ampia strategia per il copyright nel Digital Single Market.

     

      5.1. La strategia per il copyright nel Digital Single Market

Lo sviluppo, alla fine degli anni novanta, del modello di distribuzione dei contenuti digitali basato sulla raccolta pubblicitaria ha colto del tutto impreparato il legislatore comunitario, che, nella regolamentazione del diritto d’autore approntata nel successivo decennio, si è preoccupato prevalentemente di adattare il contenuto delle tradizionali prerogative autoriali all’ambiente digitale, omettendo qualsiasi riferimento alle problematiche giuridiche derivanti dalla diffusione di soggetti che intermediano le attività on line.

Nel 2010, vi è stato un primo tentativo della Commissione europea[35] di disegnare una serie di interventi per la modernizzazione della disciplina del diritto d’autore nel contesto digitale, arenatisi in ragione della difficoltà di conciliare le istanze dei diversi stakeholders.

Il tema della modernizzazione del diritto d’autore è comunque rimasto tra le priorità delle istituzioni comunitarie, come confermato nel 2012 da NeelieKroes[36], Vicepresidente della Commissione Europea e Commissaria responsabile dell’Agenda digitale europea, che ha sottolineato la necessità di rivedere le disposizioni relative al diritto d’autore al fine di creare un sistema favorevole per tutti gli attori in gioco.

In tale ottica, nel 2014, la Commissione europea ha adottato una comunicazione in materia di diritto d’autore, relativa ad un piano d’azione inteso a far fronte alle violazioni dei diritti di proprietà intellettuale nell’Unione[37].

Al tal riguardo Michel Barnier, Commissario per il Mercato interno e i servizi, ha dichiarato che “anziché penalizzare i singoli per violazioni – spesso inconsapevoli – dei diritti di proprietà intellettuale, le azioni indicate nel piano d’azione preparano il terreno verso un approccio ‘follow the money’, allo scopo di privare i trasgressori su scala commerciale dei loro flussi di entrate” (22).

Tra il 2013 e il 2016, inoltre, la Commissione ha, inoltre, effettuato una serie di consultazioni pubbliche, interrogando gli stakeholders in merito all’opportunità di rivedere, tra l’altro, il regime di responsabilità degli intermediari[38].

Nonostante, ad esito di tale consultazione, sia emerso il fatto che la disciplina disegnata dalla direttiva e-commerce circa la responsabilità dei provider fosse “fit for purpose[39], la Commissione, nella Comunicazione sul Copyright del dicembre 2015[40] e nella Comunicazione del maggio 2016 sul Digital Single Market[41], pur confermando in via generale l’adeguatezza dell’attuale regime di responsabilità degli intermediari, precisava la necessità di modificarne i contorni in determinati ambiti, tra i quali il diritto d’autore.

La Commissione ha precisato che, in considerazione del ruolo sempre maggiore che gli intermediari online vanno assumendo nella distribuzione dei contenuti, occorre chiarire le norme applicabili all’attività che svolgono in relazione alle opere protette da diritto d’autore e “per incoraggiare la generazione di contenuti in futuro vanno inoltre ipotizzate misure a salvaguardia dell’equa remunerazione dei creatori”.

Anche il Parlamento Europeo ha preso posizione sulla questione[42], affermando “che la quasi totalità del valore generato dalle opere creative viene trasferita a questi intermediari digitali, che rifiutano di retribuire gli autori o negoziano con essi remunerazioni estremamente basse”,invitando la Commissione a “valutare alternative basate su riscontri oggettivi per affrontare modalità di trasferimento di valore dai contenuti ai servizi che consentano agli autori, agli esecutori e ai titolari di diritti di essere equamente remunerati per l’utilizzo delle loro opere su internet, senza ostacolare lʹinnovazione”.

Sulla scia di tali considerazioni, in data 14 settembre 2016 la Commissione Europea ha presentato una proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sul diritto d’autore nel mercato unico digitale[43].

La proposta non rivede il regime di responsabilità dei provider, ma ribadisce che i servizi che svolgono un ruolo attivo in relazione al caricamento di contenuti, tramite l’ottimizzazione dell’offerta o la promozione della stessa, non possano godere dell’esenzione di responsabilità prevista dall’art. 14 della direttiva e‐commerce. Ciò è essenziale in quanto l’esenzione di responsabilità da violazioni di copyright fu sviluppata per tutelare solo gli intermediari “tecnici, automatici e passivi”.

Inoltre prevede l’obbligo, per i provider che forniscono accesso a grandi quantità di contenuto, di adottare misure tecnologiche per il riconoscimento dei contenuti, al fine di assicurare che ilcontenuto non autorizzato non appaia sulla propria piattaforma.

Sembra un primo (timido) tentativo di modificare il principio cardine che ha informato il regime di responsabilità del provider dalla nascita di Internet ad oggi. La previsione di un obbligo per le piattaforme di adottare misure tecnologiche per il riconoscimento dei contenuti caricati dagli utenti potrebbe lasciare intendere – quale prossimo passo – l’introduzione di un regime di responsabilità che subordini l’esenzione di responsabilità alla circostanza che il provider dimostri di aver compiuto ogni ragionevole misura per evitare la diffusione di contenuti vietati sulla propria piattaforma.

A conferma di tale approccio, teso verso un sempre maggiore onere di controllo dei provider rispetto ai contenuti veicolati attraverso le loro piattaforme, va segnalata la recente comunicazione della Commissione[44]Lotta ai contenuti illeciti, Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online, in cui si sottolinea il ruolo sempre più importante dei provider nella diffusione di contenuti potenzialmente offensivi (non solo del diritto d’autore), da cui deriva, secondo il ragionamento della Commissione, la necessità che questi adottino “misure proattive efficaci volte a individuare e rimuovere i contenuti illegali online e non solo limitarsi a reagire alle segnalazioni ricevute”.

Nel paragrafo successivo, la Commissione precisa che l’adozione di tali misure non comporta“automaticamente la perdita da parte della piattaforma online del beneficio della deroga in materia di responsabilità di cui all'articolo 14 della direttiva sul commercio elettronico”.

A tal fine, ricorda la Commissione, “è necessario verificare se il prestatore di servizi svolge un ruolo attivo, anche ottimizzando la presentazione delle opere o altro materiale caricati o promuovendoli, indipendentemente dalla natura del mezzo utilizzato a tal fine”.

Solo in tale caso, si verifica la perdita del beneficio della deroga alla responsabilità sancito dall’articolo 14 della direttiva sul commercio elettronico, mentre la mera circostanza che una piattaforma online adotti determinate misure relative alla prestazione dei suoi servizi (tra cui le citate misure proattive volte ad individuare e rimuovere i contenuti illegali)  non significa necessariamente che rivesta un ruolo attivo in relazione ai singoli contenuti che memorizza e che non possa beneficiare della deroga alla responsabilità per tale motivo.

A tal proposito, la Commissione incoraggia i provider a ricorrere alle misure tecnologiche che consentono il filtraggio automatico dei contenuti vietati, ricordando anche in questo caso (al fine di scongiurare i timori dei provider circa le conseguenze derivanti dall’adozione di tali misure) che “la direttiva sul commercio elettronico chiarisce che le disposizioni relative alla responsabilità non impediscono di sviluppare e utilizzare effettivamente sistemi tecnici di protezione e di identificazione nonché strumenti tecnici di sorveglianza resi possibili dalla tecnologia digitale”.

A titolo di esempio virtuoso, la Commissione cita proprio il settore del diritto d’autore, “nel quale il riconoscimento automatico dei contenuti si dimostra uno strumento efficace da diversi anni”.

Evidente il cambio di rotta rispetto ai principi espressi nelle citate sentenze della Corte di Giustizia Europea[45], che ravvisavano, nell’imposizione di misure che obblighino il provider alla predisposizione di un sistema generale di filtraggio delle informazioni, un’ingiustificata compressione di diritti fondamentali (come la tutela dei dati personali e la libertà di impresa) rispetto ai quali il contrapposto interesse degli autori doveva soccombere.

Nella sentenza Scarlet c. Sabam, la Corte precisava inoltre che“alla luce di quanto precede, occorre dichiarare che l’ingiunzione rivolta al FAI in questione di predisporre il sistema di filtraggio controverso lo obbligherebbe a procedere ad una sorveglianza attiva su tutti i dati di ciascuno dei suoi clienti per prevenire qualsiasi futura violazione di diritti di proprietà intellettuale. Da ciò si evince che tale ingiunzione imporrebbe a detto FAI una sorveglianza generalizzata, che è vietata dall’art. 15, n. 1, della direttiva 2000/31”.

Nonostante la Commissione, in chiusura di documento, precisi che la comunicazione “fornisce orientamenti e non modifica pertanto il quadro giuridico applicabile né contiene norme legalmente vincolanti”, il mutamento di prospettiva riguardo agli obblighi di controllo imposti ai provider appare così netto da lasciare prefigurare in un prossimo futuro la modifica del regime di responsabilità dei provider nei termini sopra descritti.

 

      6. Considerazioni conclusive

L’industria creativa, nel tentativo di recuperare i profitti persi a seguito dell’avvento di Internet, sollecita da tempo i regolatori nazionali e sovranazionali affinchè introducano misure legislative che compensino tale perdita.

Ambito di elezione di tali istanze è il diritto della proprietà intellettuale, con il tentativo di estendere la portata della tutela offerta dal diritto d’autore al fine di ricomprendere al suo interno le nuove modalità di sfruttamento economico dei contenuti da parte dei nuovi attori dell’economia digitale.

Si giustificano in tal senso le richieste di rivedere il regime di responsabilità dei provider per i contenuti diffusi dagli utenti in violazione delle norme sul diritto d’autore.

Il regime di responsabilità delineato agli albori di Internet, che prevede una sostanziale immunità dei provider rispetto alle violazioni perpetrate dagli utenti dei loro servizi e l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza rispetto a questi, ha avuto il merito di favorire la diffusione di tali servizi, in un momento in cui la previsione di una responsabilità per culpa in vigilando – in ragione della difficoltà tecnica di poter controllare ogni singolo contenuto diffuso dagli utenti – ne avrebbe seriamente compromesso lo sviluppo.

I progressi tecnologici degli ultimi anni hanno reso possibile filtrare i contenuti caricati dagli utenti in modo da evitare la diffusione di materiale che violi il diritto d’autore[46]. Del resto, è la stessa Youtube ad affermare che il suo programma di identificazione dei contenuti vietati –  Content Id –  è affidabile al 99,5%[47], ragion per cui la modifica della regola di responsabilità non sortirebbe (qualora tale dato fosse effettivamente corretto) sostanzialmente nessun effetto, almeno per le piattaforme più grandi, per le quali adottare tali misure tecnologiche non dovrebbe rappresentare un grande sforzo economico.

Non sono trascurabili tuttavia gli effetti collaterali derivanti dall’introduzione di tale norma: in primis,  va evidenziato come la modifica del regime di responsabilità del provider da parte delle istituzioni comunitarie comprometterebbe l’uniformità di disciplina che ha contraddistinto fino ad ora tale ambito normativo (almeno nei principali paesi industrializzati), con inevitabili costi per i provider, connessi alla difficoltà di adeguare la propria operatività alle differenti discipline vigenti nei diversi ordinamenti.

Inoltre, l’introduzione di un regime di responsabilità del provider limitato alle violazioni del diritto d’autore – sebbene non sia ancora chiaro se tale stretta sul regime di responsabilità dei provider sarà limitata a settori particolari, oppure avrà ad oggetto ogni tipo di illecito commesso sulle piattaforme – contrasterebbe con la disciplina generale prevista dalla direttiva e-commerce che, come già ampiamente evidenziato, prevede al contrario l’esenzione di responsabilità per il provider che non abbia avuto un ruolo attivo nella diffusione dei contenuti vietati.

Da ultimo, va evidenziato come non vi siano studi economici che supportino empiricamente la circostanza che una modifica del regime di responsabilità dei provider possa incrementare i redditi dell’industria discografica.

In ambito musicale, alcune analisi hanno così mostrato la mancanza di prove di un effetto di riduzione delle vendite di musica digitale a causa di downloading illegale, segnalando invece una(seppur piccola) elasticità positiva tra i suddetti canali di consumo, nonché una relazione positiva tra l’uso di servizi legali di streaming e l’acquisto legale di musica digitale[48].

Di contro, non può sottovalutarsi il forte potere incentivante che hanno avuto piattaforme come Youtube nel dare spazio ad autori che, in passato, non avrebbero avuto l’opportunità di farsi conoscere al grande pubblico: contributo di visibilità di cui ha goduto proprio l’industria discografica, che ha potuto monetizzare con minori rischi il successo di tali autori, già testato su Internet.

Tra le conseguenze negative di cui tenere conto, vi è anche l’ipotesi che l’imposizione di tale regola possa creare una barriera all’ingresso nei confronti delle nuove piattaforme che, non potendo permettersi di sopportare una regola di responsabilità così onerosa, non sarebbero in grado di competere con i provider già sul mercato.

In ultima analisi, a fronte di evidenze quantomeno controverse circa i prospettati benefici economici per l’industria discografica, appare preferibile mantenere un regime di responsabilità che ha saputo coniugare con equilibrio gli interessi contrapposti di tutti gli stakeholders coinvolti nella diffusione in rete dei materiali protetti dal diritto d’autore.

 

 Avv. Prof. Marco Mastracci, Professore supplente di Diritto Internazionale presso UNICLAM. 

 

[1]La necessità di conciliare tali interessi è ben presente già nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che, all'art. 27, comma II, da una parte, riconosce il valore supremo dello sforzo dell'ingegno umano, affermando che: “Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore”, dall’altra, afferma che “Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici”.

[2]Tale impostazione fu chiara fin dall'inizio, tant'è che già lo statuto della regina Anna del 1710 era intitolato “An act for encouragement of learning”, cioè “Un editto per l'incoraggiamento dell'apprendimento”. L’elaborazione della teoria economica che giustifica il diritto d’autore per la sua funzione di incentivo alla creazione si deve a Jeremy Bentham che nel Manuale di Economia (1839, p. 71) scrive: «which one man hasinvented, all the world can imitate. Without the assistance of the laws, the inventor would almost always be driven out of the market by his rival, who finding himself, without any expense, in possession of a discovery which has cost the inventor much time and expense, would be able to deprive him of all his deserved advantages, by selling at a lower price».

[3]Sull’impatto economico della pirateria sui profitti dell’industria creativa,cfr., ad esempio: S.J. Liebowitz, Internet piracy: the estimated impact on sales, in R. Towse, C. Handke (a cura di), Handbook on the Digital Creative Economy, cit., p. 262 ss., L. Aguiar, B. Martens, Digital Music Consumption on the Internet: Evidence from Clickstream Data, IPTS Digital Economy Working Paper 2013/04; Kantar Media (per OFCOM), Online copyright infringement tracker benchmark study Q3 2012; FAPAV/Ipsos, Seconda indagine conoscitiva sulla pirateria audiovisiva in Italia, gennaio 2011; IFPI, Digital Music Report, 2011; DCN-Studie, Studiezurdigitalen Content-Nutzung, 2011; Univideo, Rapporto sullo stato dell’home entertainment in Italia, 2011; P. Belleflamme, M. Peitz, Digital Piracy: Theory, CESifo Working Paper Series No. 3222, 2010, consultabile all'indirizzo web http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1698618.

[4]La nascita degli store virtuali ha consentito agli utenti la possibilità di acquistare con un semplice click i contenuti musicali su Internet, riducendo almeno in parte il fenomeno della pirateria; al riguardo cfr. B. Danaher, S. Dhanasobhon, M.D. Smith, R. Telang, Converting Pirates without Cannibalizing Purchasers: The Impact of Digital distribution on Physical and Internet Piracy, in 29 Marketing Science, 2010, p. 1138 ss.

[5] Grazie a tale modello distributivo, attualmente sono disponibili ad oltre 43 milioni di brani su oltre 200 piattaforme e i ricavi digitali rappresentano il 47 % del mercato nell’Unione Europea.

[6]I dati mostrano che l’82% degli utenti europei (89% in Italia) di YouTube utilizza il servizio per accedere a musica, si veda al riguardo Mario Franzosi, Oreste Pollicino, Gianluca Campus, Marco Bassini (a cura di), Tavoli dell’Intergruppo Innovazione per il Mercato Unico Digitale. Le sfide del Digital Single Market Copyright, inLaw and Media Working Paper Series no. 9/2017, disponibile al sito: http://www.medialaws.eu/wp-content/uploads/2017/03/9.2017-Vari.pdf

[7] I dati sono ricavati dal Report “State of the Industry 2017”, predisposto dall’International Federation of the Phonographic Industry, organizzazione che rappresenta gli interessi dell’industria discografica a livello mondiale. Il report è disponibile al presente indirizzo: http://www.ifpi.org/downloads/GMR2017.pdf

[8]Cfr. http://www.wipo.int/treaties/en/ShowResults.jsp?lang=en&search_what=B&bo_id=7

[9]La Convenzione fu firmata a Berna il 9 settembre 1886, riveduta a Berlino il 13 novembre 1908, completata a Berna il 20 marzo 1914, riveduta a Roma il 2 giugno 1928, a Bruxelles il 26 giugno 1948, a Stoccolma il 14 luglio 1947 e a Parigi il 24 luglio 1971.

[10]La WIPO è un organizzazione intergovernativa con sede a Ginevra, in Svizzera, che dal 1974 ha lo statuto di istituzione specializzata del sistema delle Nazioni Unite. È stata fondata dalla Convenzione istitutiva dell'Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale, firmata il 14 luglio 1967 a Stoccolma ed entrata in vigore nel 1970. Non costituendo una revisione della Convenzione di Berna, i Trattati WIPO si qualificano come “accordi particolari” ai sensi dell’art. 20 della stessa, v. art. 1, par. 1 WCT.

[11] Negli Stati Uniti, i citati trattati sono stati recepiti dal Digital Millennium Copyright Act, Pub. L. No. 105-304, 112 Stat. 2860 (OCt. 28, 1998).

[12]Per quanto riguarda la tutela dei diritti connessi, ruolo analogo a quello svolto dalla Convenzione di Berna è rappresentato dalla Convenzione internazionale relativa alla protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione, firmata a Roma nel 1961, seguita dalla Convenzione per la protezione dei produttori di fonogrammi contro la riproduzione non autorizzata dei loro fonogrammi, stipulata a Ginevra nel 1971.

[13]Direttiva 91/250/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1991, relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore.

[14] Direttiva 92/100/CEE del Consiglio, del 19 novembre 1992, concernente il diritto di noleggio, il diritto di prestito e taluni diritti connessi al diritto d’autore in materia di proprietà intellettuale.

[15] Direttiva 93/83/CEE del Consiglio, del 27 settembre 1993, per il coordinamento di alcune norme in materia di diritto d'autore e diritti connessi applicabili alla radiodiffusione via satellite e alla ritrasmissione via cavo.

[16]Direttiva 93/98/CEE del Consiglio, del 29 ottobre 1993, concernente l'armonizzazione della durata di protezione del diritto d'autore e di alcuni diritti connessi.

[17]Direttiva 96/9/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 marzo 1996, relativa alla tutela giuridica delle banche di dati.

[18]Libro verde sui diritti d’autore e i diritti connessi nella Società dell’informazione [COM(95) 382 def., Commissione delle Comunità Europee, Bruxelles, 19 luglio 1995.

[19]Direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione.

[20]La direttiva SocInfo è lo strumento giuridico attraverso il quale sono stati recepiti, all’interno dell’ordinamento comunitario, gli obblighi imposti dai Trattati Wipo.

[21]Secondo il costante orientamento della Corte di Giustizia Europea (sentenze del 13 febbraio 2014, Svensson e a., C-466/12; del 19 novembre 2015, SBS Belgium, C-325/14; nonché C-117/15 Reha Training, del 31 maggio 2016), affinché si verifichi una “comunicazione al pubblico” è necessaria la contemporanea presenza di due elementi, ossia un atto qualificabile come “comunicazione” e un “pubblico” al quale tale comunicazione sia diretta. Per atto di comunicazione s’intende qualsiasi trasmissione delle opere protette, a prescindere dal mezzo o dal procedimento tecnico utilizzato, ma non la mera fornitura di un “semplice mezzo tecnico” atto a garantire o migliorare la ricezione della trasmissione compiuta da un terzo nella relativa zona di copertura (sentenza 7 marzo 2013, ITV, C-607/11). Affinché si possa invece parlare di “pubblico” è necessario un numero indeterminato di destinatari potenziali e comunque un numero di persone piuttosto considerevole.Per un approfondimento critico sull'interpretazione della nozione di “comunicazione al pubblico” nella giurisprudenza europea si veda Cogo, L’armonizzazione comunitaria del diritto patrimoniale d’autore, in AIDA, 2016, 412 e segg. e Id., La comunicazione al pubblico negli alberghi, in AIDA 2007, 503 e segg.).

[22]Il bilanciamento di interessi è un obiettivo generale delle norme sul diritto d'autore così come testimoniano l’art. 7 TRIPS ed il WIPO Copyright Treaty, nel cui preambolo si può leggere “[...] la necessità di salvaguardare un equilibrio tra i diritti degli autori ed il più ampio interesse pubblico, in particolare istruzione, ricerca ed accesso all'informazione”.

[23] La prima formulazione del test risale alla revisione nel 1967 della Convenzione di Berna. L'articolo 9 della Convenzione di Berna stabilisce che: “Gli autori di opere letterarie ed artistiche protette dalla Convenzione hanno il diritto esclusivo di autorizzare la riproduzione delle opere stesse, in qualsiasi modo o forma. Deve essere di competenza della legislazione dei paesi dell'Unione consentire la riproduzione di tali opere in casi particolari, a condizione che tale riproduzione non sia in contrasto con lo sfruttamento normale dell'opera e non comporti un ingiustificato pregiudizio ai legittimi interessi del titolare”.

[24]In senso critico su tale strumento, di cui lamenta la natura più diplomatica che ermeneutica, siveda V. K.J. Koelman, Fixing the Three-Step Test, in E.I.P.R., 2006, 28(8), 407-412; si vedano inoltre C. Geiger, From Berne to national Law, via the copyright directive: the dangerous mutations of the Three-Step Test, in E.I.P.R. 2007, 29(12), 486-491; D.J. Gervais, Towards a new core international copyright norm: the reverse Three-Step Test, in I., 2005, 35; F. Senftleben, Copyright limitations and the Three-Step Test. An analysis of the ThreeStep Test in International and EC Copyright Law, 2004.

[25]Il fallimento delle strategie finalizzate all’enforcement del diritto d’autore nei confronti deisingoli utenti delle reti di file-sharing è documentato nello studio della Electronic Frontier Foundation, RIAA v. The People — FiveYearsLater, 2008, disponibile all'indirizzo http://www.eff.org/files/eff-riaa-whitepaper.pdf.

[26] Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno.

[27]Con il termine internet service provider ci si riferisce ad una vasta ed eterogenea categoria di intermediari di servizi in rete che rientrano nella nozione prevista dalla Direttiva 2000/31/CE “prestatori di servizi della società dell’informazione”.

[28]Il Digital Millennium Copyright Act è stato emanato nel 1998 al fine di implementare i trattati WIPO del 1996 (WIPO Copyright Treaty e WIPO Performances and Phonograms Treaty), con l’obiettivo di perseguire un giusto bilanciamento fra gli interessi dei copyright holders e quelli legati all’emersione di nuove tecnologie di comunicazione e libertà di pensiero; si veda a tal proposito il Congressional Record del 14 ottobre 1998, pag. 2166, ed in particolare il passaggio nel quale si sottolinea quanto segue: “[t]hrough this legislation, weextend new protections to copyright owners to help them guard against the theft of their works in the digital era. At the same time, we preserve the critical balance in the copyright law between the rights of  copyright owners and users by also including strong fair use and other provisions for the benefits of libraries, universities, and information consumers generally”; reperibile interamente in: http://frwebgate.access.gpo.gov/cgibin/getpage.cgi?position=all&page=E2166&dbname=1998_record.

[29]Viacom International, Inc. v. YouTube, Inc., No. 07 Civ. 2103, U.S. District Court for the Southern District of New York.

[30]Sulla ratio comune delle norme statunitensi ed europee in materia di limitazione della responsabilità degli intermediari Internet, cfr. Mantelero, La responsabilità degli intermediari di Rete nella giurisprudenza italiana alla luce del modello statunitense e di quello comunitario, in Contr. e Impr. Europa, 2010, 529 ss., in particolare 531 ss.

[31]Cfr. G. De Nova – F. Delfini, La direttiva sul commercio elettronico: prime considerazioni,  inRiv. dir. priv.,  2000, p. 693 ss; G. Santosuosso, Il codice di Internet e del commercio elettronico, Padova, Cedam, 2001, pp. 106-115.

[32]Why musicians are so angry at the world’s most popular music streaming service,  The Washington Post, 14 luglio 2017, :https://www.washingtonpost.com/business/economy/why-musicians-are-so-angry-at-the-worlds-most-popular-music-streaming-service/2017/07/14/bf1a6db0-67ee-11e7-8eb5-cbccc2e7bfbf_story.html?utm_term=.b4c53b9125e6

[33] Cfr. Report IFPI.I dati segnalano inoltre che, grazie allo sviluppo dei servizi streaming in abbonamento, i ricavi complessivi dell’industria discografica nel 2016 hanno registrato un incremento del 5,9% rispetto all’anno precedente, consolidando la crescita già avviata nel 2015, dopo 15 anni di costante contrazione del mercato, a seguito dei quali i ricavi erano crollati del 40%. Come riportato da G.Mosca, Spotify va alla grande ma resta in perdita, Wired, 26 Maggio 2016, consultabile all’indirizzo: http://www.wired.it/economia/business/2016/05/26/introiti-spotify/ «Alla chiusura dell’ultimo trimestre del 2015 Spotify ha registrato una perdita di 184,5 milioni di dollari, nonostante una crescita del 6,7% rispetto al 2014

[34]Cfr. Report IFPI.

[35]Commissione Europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Un’agenda digitale europea, 19-5-2010, COM(2010)245 definitivo/2, http://eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:0245:FIN:IT:PDF

[36]Kroes, Creativity for the Creative Sector: Entertaining Europe in the Electronic Age, Press Release, 24 gennaio 2012, http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=SPEECH/12/30. 

[37]Commissione Europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo, Verso un rinnovato consenso sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale: piano d’azione dell’Unione europea, Strasburgo, 1. 7. 2014, COM(2014) 392 final, http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52014DC0392&from=EN.

[38]I risultati sono disponibili all'indirizzo:https://ec.europa.eu/digital-single-market/news/first-briefresults-public-consultation-regulatory-environment-platforms-online-intermediaries

[39]Si veda il report completo sui risultati della consultazione, Full Report on the Results of the Public Consultation onthe Regulatory Environment for Platforms, Online Intermediaries and the Collaborative Economy, EUROPEAN COMM’N (May 25,2016), https:/ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/full-report-results-public-consultationregulatory-environment-platforms-online-intermediaries [https://perma.cc/5UJ2-RANY].

[40]Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle Regioni, Verso un quadro normativo moderno e più europeo sul diritto d'autore,9.12.2015  COM(2015) 626 final.

[41]Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle Regioni, Le piattaforme online e il mercato unico digitale. Opportunità e sfide per l'Europa, SWD(2016) 172 final

[42]Risoluzione del Parlamento europeo del 19 gennaio 2016 sul tema “Verso un atto sul mercato unico digitale” (2015/2147(INI))

[43]Proposta di direttiva sul diritto d’autore nel Mercato unico digitale, COM (2016) 593 def. del 14 settembre  2016. 

[44] Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle Regioni,Lotta ai contenuti illeciti online, Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online (COM(2017) 555 final del 28.9.2017.

[45]Corte di Giustizia UE, Sentenze C-70/10 del 24.11.2011, Scarlet Extended SA c. Société belge de sauteurs, compositeurs et éditeurs SCRL (SABAM) e C-360/10 del 12.03.2012 Belgische Vereniging van auteurs, componistenenuitgevers CVBA (SABAM) c. Netlog NV.

[46] In tali termini il Tribunale di Torino, con ordinanza del 23 giugno 2014 in sede di reclamo cautelare: “il progresso tecnologico che ha consentito a YouTube di sfruttare in modo così intensivo e mirato i contenuti grezzi immessi in rete dagli utenti non può non aver fatto sorgere, in capo allo stesso intermediario, maggiori responsabilità per la tutela dei diritti dei terzi”.

[47]Di diverso avviso sono le principali etichette discografiche americane, secondo le quali Content Id avrebbe un’efficacia nel rimuovere i contenuti vietati solo del 40%. Al riguardo v. Musica digitale, major contro Youtube:”Content ID ci fa perdere milioni”, Key4biz, 26 aprile 2016, reperibile al sito: https://www.key4biz.it/musica-digitale-major-contro-youtube-content-id-ci-fa-perdere-milioni/157664/.

[48]L. Aguiar, B. Martens, Digital music consumption on the Internet: Evidence from clickstream data, in Information Economics and Policy, 34, 27, 2016. Si vedano anche L. Aguiar, Let the music play? Free streaming and its effects on digital music consumption, in Information Economics and Policy, 41, 1, 2017; L. Aguiar, J. Waldfogel,Streaming Reaches Flood Stage: Does Spotify Stimulate or Depress Music Sales?, JRC Digital Economy Working Paper no. 5 (2015), https://ec.europa.eu/jrc/en/publication/eur-scientific-and-technical-research-reports/streaming-reaches-flood-stage-does-spotifystimulate-or-depress-music-sales.