A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

RIFLESSIONI SULLA LIBERTA' DI ESPRESSIONE

Autore: Dott. Edoardo Franza

 

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Lo dice la Costituzione Italiana, all'articolo 21 e, similmente, lo affermano la maggior parte degli ordinamenti democratici occidentali:
il Primo Emendamento degli Stati Uniti, ad esempio, che impedisce al governo di emanare leggi che possano ridurre la libertà di parola, stampa o riunione; o la Carta di Nizza che sancisce la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

La libera manifestazione del pensiero non è però illimitata. Nell'ordinamento italiano la necessità di demarcare i confini della libertà d'espressione è  resa fondamentale dalla necessità di contemperare esigenze altrettanto basilari a tutela dei singoli individui e della collettività: Ingiuria, calunnia, diffamazione, vilipendio, istigazione a delinquere.
Ciò è evidente nella libertà di stampa, i cui limiti sono definiti nel codice deontologico del giornalista, raccolta di regole per il buon svolgimento della professione.
Il discorso, invece, si complica quando si parla di social. Le piattaforme online pongono importanti quesiti in termini di bilanciamento di interessi: libertà di manifestazione del pensiero e ordine pubblico. Umberto Eco disse: Il Web gratifica gli imbecilli, che "prima parlavano solo al bar dopo due o tre bicchieri di rosso e quindi non danneggiavano la società". Questo è vero se si pensa alle fake news e allo hate speech, condotte comuni nei networks sociali che creano scompiglio e disinformazione. Sebbene evidente la contrarietà di queste attività dal punto di vista etico, non è ugualmente immediata la risposta dal punto di vista normativo. Il diritto  all'informazione per la Corte Costituzionale (sentenza n. 420 del 7 dicembre 1994) deve "garantire il massimo di pluralismo esterno, al fine di soddisfare, attraverso una pluralità di voci concorrenti, il diritto del cittadino all'informazione. Ciò inevitabilmente influenza il dibattito sulle fake news, rendendo difficile, se non impossibile una risposta immediata al problema. Simile è il discorso per quanto riguarda lo hate speech. Iniziamo dicendo  che non esiste una norma giuridica che definisca con precisione e completezza in cosa consista lo hate speech. Nel contesto europeo può essere ricondotto a una di quelle forme di discriminazione vietate dall’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), in quanto consistente proprio in una violenza, realizzata attraverso modalità espressive verbali o audiovisive, atta a discriminare particolare categorie di individui. L’art. 14 della Cedu vieta infatti le discriminazioni "fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione". Una definizione di hate speech si rinviene nella decisione-quadro 2008/913/Gai del Consiglio del 28 novembre 2008 sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale. Tale decisione impegna gli Stati membri dell’Unione europea a rendere punibili i comportamenti di stampo razzista e xenofobo, in particolare «l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica», nonché «l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra». Al fine di ricomprendere in tale definizione categorie altrettanto rilevanti, il Parlamento europeo, con una risoluzione approvata il 14 marzo 2013, ha evidenziato l’esigenza di una revisione della decisione-quadro 2008/913/Gai, in modo da includervi anche le manifestazioni di antisemitismo, intolleranza religiosa, antiziganismo, omofobia e transfobia.
Come anticipato, anche se la questione sull'hate speech pone la necessità di una disciplina volta alla sua precisa definizione e immediata repressione, la concretizzazione di una simile risposta è  di difficile attualizzazione. Difatti, è pacifico ritenere che la libertà di espressione vada garantita anche nei casi in cui possa risultare scomoda, sgradita, sopra le righe, offensiva, scioccante o disturbante, rendendo così non sempre agevole individuare il confine esatto fra espressioni critiche, anche esageratamente veementi, e quelle di odio vero e proprio.

Un ulteriore difficoltà  si riscontra nell'impossibilità di garantire un controllo generalizzato sul web. Difficoltà questa che è generata anche dalla scelta del legislatore comunitario di escludere gli ISP (Internet Service Provider) da un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni trasmesse o memorizzate, o ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. Tale scelta trova le sue ragioni nel fatto che, se cosi fosse previsto, i provider sarebbero gravati da oneri eccessivi che recherebbero grave intralcio alle loro attività, ostacolando lo sviluppo del commercio elettronico e, più in generale, di tutti i servizi della società dell’informazione. In Italia la Corte d’Appello di Milano, (sentenza n. 29/2015) ha stabilito che l’obbligo per l’ISP di rendere inaccessibili i contenuti illeciti, oltre che derivare da un ordine delle competenti autorità giudiziarie o amministrative, può insorgere solo nel momento in cui il gestore della piattaforma acquisisce la conoscenza dell’illecito in seguito alla richiesta di rimozione dei contenuti inoltrata dal titolare dei diritti che si presumono violati.

Il Provider perciò non è obbligato ad effettuare un controllo preventivo, ma dovrà provvedere alla rimozione nel caso in cui il titolare del diritto, l'autorità pubblica o giudiziaria si pronunci in tal senso. Una soluzione questa che si pone come opportuna ponderazione degli interessi commerciali del provider, della libera manifestazione del pensiero e della tutela dei cittadini.
Recentemente però assistiamo ad cambio di rotta. I social, spinti dalle pressioni sociali, sempre più  spesso rivestono un ruolo attivo nella selezione dei contenuti da mostrare.
In una società come quella di oggi, in cui il 70% degli italiani usa il web per informarsi, ed in cui la maggior parte delle interazioni sociali hanno luogo, o vengono organizzate attraverso i social networks, un simile atteggiamento non può che spaventare.

Questo atteggiamento attivo dei social si è  recentemente manifestato nel ban di una pagina Facebook di un partito politico Italiano. La pagina di Forza Nuova era stata oscurata il 9 settembre 2019 assieme ad altri account legati a movimenti ed esponenti di destra perché, spiegava allora Facebook, "le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia". 
Il ban è  stato confermato dal Tribunale di Roma, sezione per i diritti della persona e immigrazione, che ha respinto il ricorso nel quale l'organizzazione di estrema destra  aveva denunciato la scelta del social come atto di censura citando l'articolo 21 della Costituzione.
Sebbene sia giusto tutelare il cittadino ed evitare il diffondersi de lo hate speech e di condotte contrarie all'ordine pubblico, ci chiediamo se la censura attraverso i social sia il cammino giusto. Laddove il provider ponga in essere condotte attive sarà inevitabile il suo interferire nella diffusione delle informazioni e dei contenuti, generando una sorta di filtro irrimediabilmente personale. Essendo il web governato algoritmi, il filtro tipico diventa in poco tempo impersonale e generico, rischiando così di sfociare in una censura generalizzata. Ci chiediamo se dunque  non sia più  opportuno adottare una soluzione più  "liberista" in cui lo Stato si limiti a punire le condotte lesive e a proteggere le categorie più deboli, senza che questo sfoci in alcuna censura preventiva. Un approccio, insomma, più  americano, dove Costituzione non tollera alcuna interferenza dei poteri pubblici nell’esercizio della freedom of speech e non prevede limitazioni con riguardo ai contenuti espressi o alle modalità con cui l’espressione avviene. 
La tutela del primo emendamento è  tale che i giudici americani (Corte del Northern District of California, 18 novembre 2016, Fields v. Twitter) hanno respinto i ricorsi presentati dai parenti di alcune delle vittime di attentati terroristici di matrice islamica contro Twitter e altri social network, accusati di aver permesso l’apertura di account attraverso cui i fiancheggiatori dell’Isis potevano fare propaganda e reclutare nuovi adepti.
Ci rendiamo conto che la soluzione proposta sia una scelta impopolare. Lasciare libertà  assoluta d'espressione sembra pericoloso e immorale, ma l'estremizzazione della soluzione contraria è assai peggiore. Porre dei filtri alla liberta d'espressione limita il dibattito e impone l'omologazione del pensiero. Si scaturisce così nel dogmatismo del politicamente corretto e si distrugge il pensiero liberale.
Con ciò non vogliamo asserire che le opinioni razziali o l'incitamento all'odio siano lodevoli d'essere diffuse. La riprovevolezza di tali condotte è indiscutibile, ma impedirne la diffusione attraverso la filtrazione delle stesse è  davvero la soluzione?
Certo, è  vero, come diceva Umberto Eco, che il web si pone come un pericoloso megafono per le opinioni degli imbecilli. Ma come prima si ignorava lo stolto che parlava al bar, cosi oggi si dovrebbe imparare a ignorare la fake news o l'hater ed essere noi stessi il filtro del web e non i social.

 

Edoardo Maria Franza: Giornalista Pubblicista (ODG Roma) e docente a contratto dell'Università degli Studi Niccolò Cusano (Master II livello in Criminologia Finanziaria).