A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

COVID19 ED IMPATTO SU UE ED ITALIA. USCIREMO DALLA CRISI?

Autore: Dott. Enea Franza

 

Premessa

La risposta alla domanda di se l’Italia (e, a maggior ragione, l’Europa), uscirà dalla crisi del Covid 19 dipenderà, a nostro modo di vedere, da una scelta fondamentale da fare, ovvero, di se faremo business-as-usual, o useremo questa crisi, e le lezioni apprese, come un’opportunità per riformare radicalmente la nostra Unione. Infatti, se faremo business-as-usual, usciremo da questa crisi con un carico di questioni irrisolte e senza gli strumenti per affrontare il futuro che impone la risoluzione di due fondamentali questioni: L’ambiente e le innovazioni digitali.

A ben vedere, peraltro, la crisi dell’Unione Europea segna, in qualche modo, il fallimento dell’ultimo grande progetto razionalistico del Novecento, che ha posto alla base della costruzione europea una identità europea razionalista ed astratta, invece che ricercarla nella tradizione, cioè nel patrimonio culturale e civile ereditato dal cristianesimo e dal liberalismo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, un moloch inestricabile di leggi, norme, regolamenti, amministrati da una burocrazia pervasiva ed autoreferenziale, prona alle ideologie correnti (il multiculturalismo e il mercatismo[1] in primo luogo) o ai diktat dei paesi più forti. Una vera e propria “gabbia d’acciaio” da cui, peraltro, non è facile nemmeno uscire, come mostra plasticamente la “questione” Brexit[2].

 

1. L’Italia e l’Europa

A giudicare dai risultati delle varie analisi della percezione degli italiani sull’Europa, solo il 30% degli intervistati dà un giudizio «positivo o molto positivo» dell’Unione Europea, mentre danno un giudizio «negativo o molto negativo» il 62% degli intervistati. Eppure per decenni l’Italia è stato il Paese più euro-entusiasta di tutto il continente europeo[3].

A cosa imputare tale cambio d’opinione? Atteso che i giudizi si fondano sulla memoria, è razionale ritenere che essa trovi motivazione nella delusione per la mancata realizzazione delle promesse connesse alla costruzione europea. L’accettazione di ogni sorta di sacrificio richiesto per decenni è stata giustificata con “l’Europa lo vuole”, non ha portato i benefici promessi. In realtà, ci si confronta con povertà crescente, pubblica amministrazione allo sfacelo, welfare state poverissimo, infrastrutture cadenti, scuola ed università abbandonate alla buona volontà dei singoli. E, molto di ciò viene imputato, a torto o ragione, non entro nel merito, all’Europa che, evidentemente, è ritenuta responsabile di questa situazione.

Quali gli errori di fondo e come profittare delle emergenze per costruire un Europa utile ai cittadini? L’Unione europea è il capro espiatorio perfetto perché, come cennato, appare come un organismo lontano ed impersonale. Ma ciò che si decide a livello europeo è quasi sempre frutto della mediazione degli Stati che scelgono quali poteri dare alle istituzioni sovranazionali attraverso i trattati. La scelta di chiudere (o non chiudere) le frontiere interne, rispettare o meno le linee guida dell’Ecdc[4], stabilire strategie di campionamento, sorveglianza e comunicazione in modo indipendente è prerogativa degli Stati nazionali. Ed in effetti Francia, Italia, Germania, Spagna ed altri non si sono comportati tutti allo stesso modo. Dunque la questione sta, evidentemente, a monte.

Peraltro, prima dell’attuale crisi scaturita dal blocco forzato di molte attività produttive a causa dell’emergenza Covid19, l’Italia aveva già sentito il peso di una dinamica economica asfittica, determinata, in particolare, da una difficoltà ad iniettare liquidità nel sistema. Se i tassi di interesse sono oramai, da molto tempo, prossimi allo zero, il quantitativeeasing ha, di fatto, consentito soltanto alle banche di finanziarsi senza problemi, mentre nell’economia reale mancano le risorse finanziare per svilupparsi. La deflagrazione dell’attuale crisi ha rotto gli argini della situazione rendendo indispensabile la liquidità per la sopravvivenza delle persone che hanno perso o si sono trovate paralizzate nel proprio lavoro.

Per far fronte a questa emergenza, è evidente, che in un paese che ha rinunciato a batter moneta e che si è affidato ad una banca centrale sostanzialmente “estera” e privata, l’unica soluzione sembrerebbe essere il debito. L’extra-debito però oscillerebbe tra 100 e 300 miliardi di euro. Una cifra difficilmente sostenibile per un Paese che ha già un rapporto debito/PIL oltre il 130%.

L’unica soluzione ragionevole per affrontare la situazione attuale è, pertanto, quella di agire con schemi innovativi e che presentino almeno due caratteristiche: non gravino sulle già sofferenti casse pubbliche e diventino uno strumento per sostenere la produzione nazionale. Peraltro, la tecnologia, oggi, ci aiuta rispetto al passato in quanto consente di operare con strumenti virtuali e, addirittura, con un sistema innovativo come la Blockchain. Nelle pagine che seguono affronteremo anche questo problema, cercando di proporre soluzioni che hanno l’ambizione di essere immediatamente praticabili.

 

2. L’Europa, l’Africa e l’Italia

Le emergenze attuali, in primo luogo la questione ambientale ed energetica e l’emergenza immigrazione, sono tutti fatti di portata così ampia che impongono un ripensamento degli attuali equilibri consolidati in seno all’Europa; in particolare, i rapporti di forza attuali non sono in grado di sostenere uno sviluppo equilibrato, essendo il potere troppo concentrato nei paesi di influenza tedesca[5].

Prendiamo ad esempio la BCE il cui statuto è modellato su quello della Bundesbank con un target principale indirizzato al controllo del processo inflazionistico. Altro, espetto è quello connesso alla politica dei cambi. L’euro è troppo forte rispetto alle altre monete e questo favorisce la sola Germania. Mentre, infatti, l’industria tedesca riesce a contenere i costi, anche per via di una attenta politica di delocalizzazione verso i paesi ex URSS, e di una deflazione interna, l’industria europea perde terreno rispetto ai concorrenti esteri. L’Europa non riesce allora ad agganciare la ripresa, come oltra atlantico fanno gli USA, la cui ripresasi deve prevalentemente alla crescita delle sue esportazioni, che alimentano un tasso di sviluppo maggiore, riportando debito e deficit lungo un sentiero sostenibile, grazie all’aumento del PIL[6]. Abbiamo accennato ad un ulteriore aspetto, quello connesso all’utilizzo del surplus della bilancia dei pagamenti per rilanciare la domanda interna e quindi favorire una ripresa sostenibile dell’intero continente, grazie ad un miglioramento del clima generale a cui la Germania si sottrae da anni, proseguendo una politica interna fortemente deflazionistica e rinunciando al suo naturale ruolo di locomotiva della economia Europea.

Ciò premesso, appare evidente che continuare anche post Covid19 in tale direzione non ha senso. E’ necessario, dunque, sviluppare linee alternative che spezzino tale predominio, che a ben vedere assume spesso un carattere di mero egoismo nazionale incapace di risolvere le proprie contradizioni se non scaricandole sugli altri Paesi partner in modo da vera potenza egemone. L’alternativa è, a nostro modo di vedere, sotto gli occhi di tutti ed offerta su “un piatto d’argento” dall’evoluzione tecnica e ambientale. La soluzione, per quanto possa sembrare assurda è nell’allargamento dell’Unione ai Paesi del Sud Europa ed, in particolare, a quelli che insistono sul bacino del mediterraneo. La sola apertura di un processo di adesione all’Unione di Paesi come la Turchia e gli altri paesi balcanici,[7] ma anche del Marocco, dell’Algeria, della Tunisia, di una rinnovata Libia e Egitto, per poi passare agli altri paesi costieri fino al Medio-Oriente, possono contribuire a districare importanti nodi, che apporterebbero indubbi vantaggi all’Europa ed al nostro Paese[8].

Per completezza di analisi, abbiamo ben presente il fatto che, allo stato attuale i criteri di Copenaghen impedirebbero ad uno Stato non europeo di aderire all'Unione europea. Tuttavia tale regola ha, evidentemente, un’interpretazione meramente storico-culturale e non puramente geografica, come è chiaramente emerso nella concessione dell'adesione di Cipro, stato che appartiene geograficamente all'Asia ed è entrato nell'Unione europea nel 2004.

Per altro verso con i Paesi citati e, in particolare, con Tunisia e Marocco esistono già avanzate relazioni. In particolare la Tunisia ha un patto di associazione con l'Unione europea dal 1995, per eliminare le barriere doganali, e per la libera circolazione delle merci e delle persone. Completata la zona di libero commercio la situazione della Tunisia, nei confronti dell'Unione europea, dunque, sarà assimilabile a quella della Norvegia e dell'Islanda. Quanto al Marocco, questo stato ha espresso più volte il suo desiderio di incorporazione nell'Unione europea, desiderio che è stato respinto in quanto non è un paese europeo[9]. Nell'ottobre 2008, tuttavia, il Marocco è stato il primo paese del Mediterraneo a ottenere uno statuto di partenariato speciale con l'Unione europea (“advanced status”), in seguito alle riforme intraprese a livello politico, sociale ed economico. Tale statuto include l'istituzione di una conferenza UE-Marocco e la partecipazione diretta del Marocco in una serie di consigli ministeriali UE e di meeting di lavoro. Quanto all'ingresso d'Israele nell'Unione europea,  sostenuta in particolare dal  Partito Radicale Transnazionale, va segnalato che i vari governi israeliani che si sono susseguiti non hanno mai manifestato alcun esplicito interesse,  pur apprezzando l’idea di «Europa più ampia» che l’Unione ha già discusso con alcuni paesi della sponda sud del Mediterraneo, Israele compreso, per creare un’area di cooperazione e stabilità. In Israele, se l’opposizione è genericamente favorevole, Il Likud, che è forza di governo, ha al suo interno una varietà degna di attenzione. Il presidente della Repubblica, Moshe Katsav, in una intervista a un giornale tedesco nel marzo 2001 si disse a favore, e si augurò che non vi fossero ostacoli. Non diverse sono le dichiarazioni dei sui successori da Perez e Rivlin. Quest’ultimo ebbe a dichiarare: “È naturale che l’Unione europea e Israele siano partner e alleati. Siamo entrambe il risultato di sogni che sono diventati realtà, grazie alla determinazione e al coraggio dei loro fondatori. Condividiamo anche i valori della democrazia, della diversità e dei diritti umani”. Anche le dichiarazioni di ministri dell’attuale governo in carica sono anch’esse generalmente di favore.

Ciò premesso, per altro verso, affacciarsi sul continente africano è centrale, nei prossimi anni, per una serie di fatti che sono sotto l’evidenza di tutti noi, ma che forse non sono stati ancora sufficientemente metabolizzati dall’intellighenzia europea[10]. In primo luogo certamente per i flussi migratori, che vedono migliaia di disperati sfuggire dalle tante guerre e dalla fame ed andare verso il nord, passando prevalentemente per i paesi del Magreb[11], poi per la questione della sicurezza europea in quanto molti dei paesi africani sono il centro di flussi terroristici di ritorno, dalla Siria in particolare, ma anche di gruppi terroristici autoctoni ed, infine per la presenza di minerali e fonti d’energia di altissimo volare economico e fondamentali nell’attuale fase dello sviluppo tecnologico[12].

Nel 2019, secondo il World Migration Report 2020 dell'Organizzazione Mondiale per le Migrazioni[13], oltre 21 milioni di africani sono stati costretti a migrare. La maggior parte dei movimenti migratori, però, è tra regione e regione all'interno del Continente. L'aumento di queste migrazioni interne, rispetto agli anni precedenti, è significativo. Nello stesso periodo è aumentato anche il numero di africani che vivono in regioni diverse da quelle di origine è passato da circa 17 milioni nel 2015 a quasi 19 milioni nel 2019. Proprio in Europa vivono 9,2 milioni di africani, mentre nel mondo sono circa 32,6 milioni.

E’ di evidenza che il flusso migratorio determina squilibri e costi non solo sociali difficilmente tollerabile. L’Africa ospita alcuni dei gruppi jihadisti più letali, tra cui BokoHaram, al Shabaab, Isis e al Qaeda nel Maghreb Islami[14]. La Fondazione ICSA ha realizzato, in questa fase di emergenza globale Covid-19, una analisi circa l’evoluzione del terrorismo jihadista nel Nord Africa e nel Sahel. Lo studio ha rilevato, in generale, un “consolidato e crescente intreccio tra dinamiche criminali e sigle terroristiche in quest’area, parallelamente ad una progressiva africanizzazione della jihad e di iniziale spostamento del baricentro del terrorismo islamista nella regione saheliana e del West Africa, con un significativo inasprimento della competizione tra formazioni filo-qaediste e gruppi affiliati ad Islamic State”. Il dispiegarsi delle attività terroristiche jihadiste si sta intersecando con gli effetti della pandemia globale sul continente africano, ed è ipotizzabile che i governi africani in questa fase possano dirottare le risorse dalla lotta al terrorismo al settore sanitario.  Come conseguenze della pandemia in corso, si ritiene plausibili, nel breve e medio periodo, alcuni cambiamenti delle rotte e delle modalità di conduzione del narcotraffico da parte dei jihadisti, mentre, dal lato dei consumatori occidentali, si registrano già significative modifiche degli stili di consumo e delle modalità di acquisto degli stupefacenti.

Il jihadismo africano, dunque, si caratterizza per un marcato pragmatismo, che si determina nella completa sovrapposizione tra l’integralismo islamico, il terrorismo, la criminalità organizzata di stampo mafioso, il narcotraffico e il traffico di esseri umani. Più che minacciare direttamente l’Occidente nei confini del suo territorio, la jihad africana preferisce insidiare e parassitare le nostre economie a latere, attraverso il contrabbando e i traffici illegali sul suolo africano. Pur richiamandosi a reti terroristiche internazionali, queste formazioni hanno soprattutto carattere di insorgenze, sono radicate nel loro territorio e in esso trovano ragion d’essere e di profitto.

Coltan, diamanti, petrolio, proiettano alcuni dei più “poveri” paesi africani nella logica della globalizzazione. A tali ricchezze naturali si aggiunge l’enorme quantità di petrolio presente sul continente; oltre al nord, dove svetta l’Algeria e la Libia, nel continente primeggia la Nigeria che, nel 2016, si è aggiudicata il primo posto come paese africano produttore di petrolio, dodicesima nella classifica mondiale, battendo l’Angola, classificatosi secondo, per un soffio. Il terzo colosso africano del petrolio è il Sudan.

In tale contesto si inserisce il confronto tra U.E. e Paesi dell’Est (in primo luogo Russia, Turchia). Il confronto con la Russia si svolge attualmente sul bacino del mediterraneo. Siria e Libia sono lo scenario attuale del confronto. I Russi sono presenti in Siria ed in cirenaica con la compagnia Wagner (soggetto privato ma con fortissimi legami con la Russia) e la Turchia oltre alla in Siria (combattendo i curdi che a suo tempo avevano aiutato l’Occidente nella guerra contro i jihadisti) allarga la sua sfera di competenza con il supporto ai libici guidati da Fayez al Sarraj. Ultimamente sempre i Turchi allargano la loro sfera di controllo nel mediterraneo intimidendo la Grecia. In definitiva due ex imperi, quello russo e quello ottomano, si confrontano nel mediterraneo dove il vero assente è l’UE[15].

Viceversa, molte delle questioni che attanagliano il continente europeo potrebbero essere, a nostro modo di vedere, superate con un deciso intervento nel mediterraneo, dove l’Italia potrebbe svolgere, naturalmente, la funzione principale. In particolare, sulla questione energetica, l’apporto alla transizione verso le energie pulite potrebbe essere efficacemente affrontato solo con una operazione in quelle zone. Peraltro, si potrebbe spingere più agevolmente per la scelta per un Sud “bacino” d’energia. In tale contesto poi l’evoluzione informatica e le nuove tecnologie possono moltiplicare e semplificare tale processo contribuendo, peraltro assieme ad un ritrovato benessere, all’evoluzione in senso sempre più democratico dei paesi africani.

 

3. L’innovazione tecnologica con il Covid19

Ricordiamo che il nuovo coronavirus (SARS CoV-2) è stato identificato il 9 gennaio 2020 come agente causale di un cluster di polmonite segnalato il 31 dicembre 2019 dalla Commissione Sanitaria Municipale di Wuhan (Cina) all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nel nostro Paese è stata attivata una rete di sorveglianza sul nuovo coronavirus, ed è stata creata una task-force attiva 24 ore su 24 monitorata dal Ministero della Salute, in contatto con le autorità sanitarie internazionali, mentre il Governo dal marzo 2020 ha dichiarato lo Stato di emergenza inizialmente per sei mesi esteso, per ora, fino al 31 gennaio 2021. Perciò dal 10 marzo, con apposito decreto il c.d. lockdown con cui, in definitiva, il Paese si chiude e si ferma, tranne che per i servizi essenziali. Il giorno dopo l’Organizzazione mondiale della sanità sentenzia che trattasi di pandemia. L’Italia sceglie una doppia quarantena forzata fino al 3 aprile, poi estesa al 13. In questo periodo, la stragrande parte della popolazione italiana non ha potuto indefinitiva lasciare il luogo di abitazione se non per motivazioni essenziali e con apposita attestazione.

Bene, oltre all’impatto diretto sulla salute e sull’economia, il Covid-19 ha avuto un effetto anche su una nuova e più articolata “dieta mediale”[16]. In merito i dati forniti dalle ricerche sul campo evidenziano la crescita impressionante di home banking, social media e piattaforme di sharing, a cui sono accompagnate l’esplosione di nuove realtà come TikTok ed il mondo del gaming, divenuti, ormai, veri e propri fenomeni di massa. Le analisi dimostrerebbero, inoltre, che, post Covid19, tre persone su quattro sono ora più propense, rispetto all’anno scorso, alla fruizione in streaming all’e-commerce e che il nostro paese si uniforma al trend globale per quanto riguarda il primo aspetto, segnando leggermente il passo sul secondo (solo 65%). Tali comportamenti si riscontrerebbe anche tra le fasce più mature e, si stima che, nei prossimi mesi, nel mondo, due terzi delle persone tra i 55 e i 65 anni faranno acquisti online, mentre circa sei su dieci fruiranno di contenuti in streaming. In definitiva, Covid19 ha portato un vasto pubblico ad accedere, spesso per la prima volta, al digitale, accelerando l’evoluzione e sviluppando cambiamenti culturali destinati a rimanere[17].

È proprio tale adozione cross-generazionale il fenomeno più interessante di questo momento storico senza precedenti ed induce a riflettere su una serie di aspetti. In primo luogo, su un profondo cambio di paradigma che le aziende dovranno necessariamente tenere in considerazione. Un esempio su tutti, l’e-commerce, che diventerà presto commodity, elemento non più negoziabile nella scelta di un prodotto/servizio da parte dei consumatori.

La sfida per i brand sarà quindi capire come tali comportamenti evolveranno al di là del momento contingente, per cogliere le opportunità e cominciare a correre alla nuova velocità del consumatore[18]. Per tutti gli altri, resta la minaccia della perdita irreversibile di rilevanza, per l’assenza di un’offerta capace di rispondere a tali mutate esigenze. Nella sostanza l’offerta delle imprese dovrà sostanzialmente adattarsi ed essere in presenza o a distanza, e-commerce in storeonline offline e capace di adattarsi a un consumo che è capace di scegliere, di volta in volta, ciò che è più conveniente.

Vi è poi un ulteriore aspetto che vorrei sottolineare in questa breve relazione. In questi mesi di emergenza sanitaria determinata dalla diffusione del Covid-19, molte imprese hanno fatto ricorso per garantire la prosecuzione dell’attività e, contestualmente, tutelare la salute dei propri dipendenti al lavoro agile o smartworking. E’ bene sottolineare che tale misura, invero mai imposta in Italia, tranne che nel pubblico impiego, non è discesa da scelte pianificate e stabili esigenze organizzative aziendali, bensì dalla pragmatica necessità di lavorare permanentemente da casa durante il lockdown, necessità, peraltro, che è venuta meno già dal mese di luglio[19]. In effetti, va osservato come lo smartworking ha di fatto consentito, come sopra cennato, la parziale continuità operativa di molti processi produttivi, ma anche una piena stabilità retributiva per i prestatori che hanno potuto utilizzarla.

Secondo una ricerca appena pubblicata da Microsoft, in seguito all’emergenza sanitaria la quota di imprese italiane che ha adottato il lavoro flessibile è passata dal 15 per cento del 2019 al 77 per cento. Dati simili arrivano da una ricerca dell’ISTAT uscita a giugno: il 90 per cento delle grandi imprese italiane (cioè con più di 250 addetti) e il 73 per cento delle imprese di dimensione media (50-249 addetti) hanno introdotto o esteso lo smartworking durante l’emergenza, contro il 37 per cento delle piccole (10-49 addetti) e il 18 per cento delle microimprese (3-9 addetti). Per dare un’idea, a gennaio e febbraio 2019 il personale a distanza era l’1,2 per cento del totale, a marzo aprile era diventato l’8,8 per cento.

Dunque, riprendendo il filo del nostro ragionamento, è bene osservare come l’emergenza Covid 19 abbia funzionato da detonatore per un più robusto impiego della possibilità della tecnologia digitale anche nel mondo del lavoro, innovando, in un brevissimo periodo, il modo di operare di aziende ed enti pubblici. In effetti anche se molti contratti di lavoro prevedevano forme varie di lavoro a distanza, in pratica, tali situazioni erano considerate a margine e non si era, tranne rarissimi casi provveduto ad un diffuso impiego. Ad esempio, Stato ed enti locali sono ricorsi in forma massiccia al lavoro da remoto, una pratica che si è rivelata in definitiva capace, quando opportunamente monitorata, di rispondere alle esigenze degli utenti e del territorio.

Il terzo aspetto che mi preme sottolineare e l’impulso dato dall’emergenza Covid 19 alle modalità di formazione a distanza (c.d. FAD). L’obbligo di quarantena ha imposto il ricorso a piattaforme virtuali per quanto riguarda la didattica di ogni ordine e grado. Università, enti specializzati e scuole pubbliche e private si sono, infatti, reinventate attraverso la rete e la formazione FAD. Grazie al supporto delle tecnologie e della solidarietà digitale, la FAD ha consentito alla popolazione che è dovuta rimanere a casa di poter fruire comunque di una serie di corsi di formazione che hanno permettono l’aggiornamento, senza correre il rischio di arrestare la propria crescita personale e professionale. Scuole ed Università in primo luogo hanno proseguito le lezioni dunque sfruttando il metodo dell’e-learning, tramite apposite piattaforme sulle quali si sono svolte lezioni di gruppo in tempo reale.

 

2.1. Le piattaforme

La caratteristica comune è che il processo in corso ha al centro le c.d. piattaforme informatiche, ovvero, basi costituite da  hardware e/o software su cui sono sviluppati e/o eseguiti programmi o applicazioni. In effetti, a ben vedere, internet, in quanto “rete di reti”, assolve alla sua funzione di base tecnologia erogante servizi, disponibile per tutti i dispostivi connessi. La rete vive in più nature hardware, che si distribuisce su diversi dispositivi, che danno rilievo alla connessione, che si snoda sino a singoli hub fra di loro distinti e diversamente distribuiti sul globo. In secondo luogo, il web oggi è caratterizzato dalla sua “architettura della partecipazione”, la filosofia della condivisione, basata sullo sharing e sul peer-to-peer(P2P), che garantisce all’intelligenza collettiva di incanalarsi e di esprimersi nella realizzazione e nel miglioramento di prodotti condivisi, per lo più di user-generated-content. Parallelamente anche i software non sono più considerati come programmi deputati esclusivamente a mere funzioni computazionali, ma come app(applicazioni), le quali recano un vantaggio maggiore di quello che posseggono intrinsecamente e che, per di più, si migliorano con l’uso condiviso attraverso il loro remixing. Questo aspetto se da un certo punto di vista costituisce l’elemento di “perfezionamento” del servizio offerto, permettendo allo stesso, di declinarsi in nuovi paradigmi culturali, dall’altra parte costituisce la chiave di volta del plusvalore generato dalle stesse.

In effetti, l’acquisizione dei dati personali e comportamentali dell’utente costituisce forse il principale business dei gestori di piattaforme. Ad esempio se uso piattaforme come Google Hongouts Zoom per le videoconferenze o per le lezioni con gli studenti, posso utilizzare per attività di profilazione anche i dati audio e video degli utenti, oltre ai file condivisi dagli utenti. Peraltro, a specificarlo sono le stesse informative privacy, dove si precisa che potranno essere utilizzate tutte le informazioni che l’utente fornisce o crea durante l’utilizzo del servizio. Possono essere memorizzate anche la cronologia delle attività, i dati di geo-localizzazione dei vari dispositivi usati, i dati dei contatti con i quali comunichiamo ed i video che guardiamo. E questo per poterci profilare e offrirci servizi e pubblicità personalizzata. In genere è lasciata all’utente, poi, modificare le impostazioni della privacy in modo da minimizzare la raccolta dei dati. A questo poi si aggiungono varie attività fraudolente poste in essere per rubare, attraverso il phishing, dati personali, credenziali di accesso e codici di pagamento. I dati possono essere condivisi con tutte le aziende che utilizzano i servizi delle piattaforme di videoconferenze online, che sono in grado di fornire un servizio gratuito proprio grazie alle inserzioni pubblicitarie.

In definitiva, l’utilizzo di piattaforme ha per l’utente un costo esplicito nel caso si paghi un servizio per accedervi ma anche costi impliciti. In particolare, questo tipo di costi non hanno un evidente esborso monetario ma permettono alla piattaforma, attraverso l’acquisizione di dati (liberamente o meno) forniti dall’utente, di offrire ai soggetti interessati informazioni utili per la loro attività; sul punto vorrei essere chiaro che, ai fini del nostro ragionamento, i dati assumono valore anche quando non possano essere assegnati ad una persona specifica perché resi del tutto anonimi.

 

2.2 Nuova teoria del plusvalore.

Secondo Karl Marx, diversamente dal servo della gleba, che sa quando lavora il suo campo e quando invece lavora il campo del padrone, l’operaio industriale, che vende il suo tempo, non il risultato del suo lavoro, non sa quando ha finito di lavorare per sé e quando ha incominciato a lavorare, gratuitamente, per il padrone. Dunque il plusvalore che una merce acquista (ossia il profitto che l’imprenditore ricava da una merce investendo parte del suo capitale sotto forma di salario per i dipendenti per farli lavorare più del giusto) dipende dal pluslavoro (che è quel lavoro in più non retribuito che un operaio compie per produrre una merce; se ad esempio per costruire un tavolo ci vogliono 5 ore di lavoro e si sa che in commercio quel tavolo vale 10 euro, cioè 2 euro per ogni ora di lavoro, le possibilità di guadagno per l’imprenditore sono due: o paga l’operaio non 2 ma 1 euro l’ora così che speculando sul suo lavoro ci guadagna la metà, oppure fa lavorare l’operaio 10 ore ma gliene paga solo 5, così che l’operaio costruirà due tavoli ma sarà pagato solo per uno e il guadagno dell’altro tavolo andrà nelle tasche dell’operaio È sull’ignoranza di questo stato di cose, che Marx stesso definisce plusvalore: i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi[20].

Parallelamente succede, a nostro modo, di vedere nelle piattaforme. L’utilizzatore della piattaforma non sa che utilizzando la piattaforma sta di fatto contribuendo alla ricchezza della piattaforma stessa e nel tempo di connessione fornisce in modo consapevole ed inconsapevole informazioni e dati personali. 

Le statistiche ci dicono che i tempi di permanenza online che superano in media le 6 ore giornaliere[21]. Ora una media di oltre 6 ore e mezza al giorno equivale ad un totale di oltre 100 giorni di tempo online ogni anno per ogni utente internet, che se estendiamo ad un totale di quasi 4,4 miliardi di utenti internet, otteniamo che nel 2019 l'umanità ha trascorso online un totale di oltre 1,2 miliardi di anni. Ma che cosa fanno effettivamente i 4,4 miliardi e 400 milioni di utenti di Internet del mondo per quelle 6 ore e mezza al giorno?

Anche qui le statistiche ci illuminano. I 4,4 miliardi di utenti passano gran parte del loro tempo su Google che continua a dominare la classifica dei siti web più visitati al mondo, con Similar Web Alexa che mettono il gigante della ricerca in cima alle loro tabelle, con YouTube al secondo posto in entrambe le liste mentre, Facebook si posiziona al terzo posto[22]. Le piattaforme di social media sono fortemente presenti nelle liste di entrambe le aziende, ed è interessante notare che Twitter continua a mostrare forti risultati nelle classifiche dei siti web, nonostante la sua base di utenti sia costantemente in diminuzione. Nello specifico il numero di utenti dei social media in tutto il mondo è salito a quasi 3,5 miliardi all'inizio del 2019, con 288 milioni di nuovi utenti negli ultimi 12 mesi, portando l'utilizzo globale al 45%. Tuttavia, l'uso dei social media è ancora lontano dall'essere distribuito uniformemente in tutto il mondo; molto alto in Occidente, mentre in alcune parti dell'Africa presenta ancora tassi di penetrazione ad una sola cifra.

Anche il pubblico globale dei social media è maturato, con persone intorno ai 30 anni che ora rappresentano la maggior parte degli utenti dei social media del mondo. Anche il pubblico anziano è maggiormente rappresentato e le varie piattaforme di Facebook riportano un numero sempre più elevato di utenti di età superiore ai 55 anni rispetto agli utenti al di sotto dei 18 anni. La quantità di tempo che le persone trascorrono sui social media è in continuo aumento anche se l’incremento è decrescente.

Global Web Index riferisce che l'utente medio dei social media trascorre 2 ore e 16 minuti al giorno sulle piattaforme sociali (contro le 2 ore e 15 minuti dell'anno scorso) che equivale a circa un terzo del tempo totale di internet e a un settimo della loro vita lavorativa. Come per l'uso di Internet, questo tempo si somma rapidamente: se estendiamo questo tempo medio giornaliero a tutti i 3.484 miliardi di persone che usano i social media oggi, otteniamo un totale di quasi 330 milioni di anni di tempo umano speso sulle piattaforme sociali nel corso del 2019.

Dunque, in definitiva, le piattaforme quindi non remunerano l’utilizzatore e, quindi, operano un “furto” che è alla base del cospicuo plusvalore che esse realizzano. In quanto web-utente, in effetti, ognuno di noi, ciascuno con i propri interessi, i propri pensieri e le proprie emozioni, ha un preciso valore economico, che è valorizzato dalle piattaforme grazie ai nostri click, ai nostri post e alla gestione dei nostri dati personali. Se, infatti, l’utilizzo ad esempio di Google e Twitter è gratuito, la grandissima quantità di informazioni che ci riguardano e che sono da esse acquisite costituiscono il valore dell’impresa, che certo si accompagna all’indubbie capacità degli analisti che in essa vi operano ed al ruolo determinante dei “commerciali”. Infatti i dati che vengono venduti sono usati (e rielaborati) allo scopo di venderci direttamente qualcosa.

Innanzitutto, questo consenso come abbiamo sopra cennato è il più delle volte inconsapevole, e legittimato da opzioni di default sulla privacy del tipo opt-out, in cui la possibilità non è immediata. Evidentemente è una scelta non casuale per le grandi corporation, ben consapevoli da una parte che l’opzione di default, anche solo per pigrizia o inerzia, è quella spesso e volentieri preferita e che, d’altra parte, un’opzione del tipo opt-in potrebbe ridurre il livello di sorveglianza da parte dell’azienda, con il risultato di una diminuzione dei profitti. Ma tale “mercificazione” dei profili digitali pone anche dei seri problemi anche rispetto al tema dell’architettura digitale delle scelte, che spesso vengono impostate proprio per tale fine[23]. Dunque, se clicchiamo un link su Facebook o se guardiamo un video su Youtube vuol dire che l’argomento è di nostro interesse e ciò è sfruttato dalla piattaforma che  forte di questa inferenza, agli accessi successivi selezionerà per noi articoli o video sullo stesso tema, oppure su temi ad esso legati.

Ora è evidente che tale plusvalore è tenuto dai gestori delle piattaforme, che moltiplicano i loro profitti.

Ma c’è dell’altro. Le piattaforme operano un controllo che si estende pericolosamente alla società. E’ notorio il caso di Cambridge Analytica, società americana specializzata nel raccogliere dai social ogni tipo di dato dei loro utenti, che attraverso la raccolta dei “mi piace” e dei commenti sui post, nonché della geo-localizzazione nel momento della condivisione dei contenuti, delle pagine seguite e delle critiche manifestate, li elaborava per creare profili accurati di ogni singolo utente[24] e tali dati erano immediatamente disponibili anche ai fini politici. A questi dati, se si associano il possesso di dati patrimoniali e finanziari che consentono di conoscere la situazione economica di ciascuno, permette informazioni utili al marketing (e alla politica), capaci di portare a strategie di discriminazione. Il problema della raccolta indiscriminata dei dati porta anche, dunque, a riflessioni sul controllo sociale: in fondo, per tenere sotto osservazione una persona o un gruppo di persone basta raccogliere un numero sufficientemente grande di dati sulla sua vita. Infatti, se analizzati con le tecniche della psicometria, che consentono di risalire a un identikit di ciascuno di noi, questi dati potrebbero consentire di formulare previsioni comportamentali addirittura sulle nostre azioni future.

In effetti è necessario abbandonare l’illusione, che per lungo tempo è stata dominante che la rete e il digitale siano l’avanguardia rivoluzionaria di un mondo libero e fuori controllo ma considerare, invece, le tecnologie della comunicazione come il nuovo scenario di scontro in cui si affrontano i gruppi che lottano per esercitare l’egemonia. Nel libro “I padroni di Internet2” (rgb, 2006) gli autori, Jack Goldsmith e Tim Wu, confutavano la tesi che la rete fosse uno spazio anarchico, mostrando come gli Stati imponessero il rispetto delle proprie regole. In effetti bisogna rimarcare che l’infrastruttura digitale (le piattaforme), oltre la narrazione su virtualità e assenza di barriere fisiche, è potentemente radicata nella dimensione materiale; macchine, cavi, e data center sono necessari e geo-politicamente strategici e servono per far funzionare la macchina del governo «intelligente» e si possono facilmente racchiudere entro firewall nazionali, come dimostra l’esempio della censura cinese. I muri non servono solo a impedire il passaggio dei migranti, ma anche quello dei dati che richiedono l’assenza di interruzioni.

 

3. Riequilibrio con la tassazione.

Quanto evidenziato con riferimento alle piattaforme ed i relativi gestori, permette di rafforzare la convinzione che sia nel giusto chi spinge per la tassazione dei giganti del web. Le grandi aziende di Internet sono state a lungo oggetto di denunce, per lo più pubbliche, riguardo sia l’esiguità delle imposte versate rispetto ai ricavi molto spesso più che miliardari iscritti a bilancio[25], sia in relazione al tasso di competitività, di fatto completamente stravolto, rispetto ad altre multinazionali attive in settori diversi e/o collaterali. Alcuni Stati europei, tra cui la Francia, hanno deciso, da qualche tempo, l’introduzione di meccanismi e strumenti di prelievo dedicati alle grandi aziende che controllano Internet, prevedendo un prelievo del 3% sui ricavi digitali, correlati allo sfruttamento dei relativi copyright e royalty incluse, delle aziende che effettuano le loro vendite principalmente nel cyberspazio.

In tal senso la Francia ha semplicemente aperto una strada, sulla quale anche altri Paesi hanno deciso convergere, elaborando norme fiscali ad hoc generalmente destinate a ridurre i ricavi di aziende, molte delle quali statunitensi, che registrano guadagni transnazionali che sfuggono spesso alla stretta delle rispettive Amministrazioni finanziarie. Naturalmente, gli Stati Uniti non sembrano affatto disposti ad accettare e ad aprirsi all’utilizzo dell’arma di nuovi dazi.

Come funziona una tassa digitale in Francia? La legge francese impone il prelievo del 3% alle società con almeno 750 milioni di euro (845 milioni di dollari) di ricavi globali e vendite digitali di 25 milioni di euro effettuate entro i confini francesi e destinate a clienti/consumatori che vi risiedono. Delle circa 30 imprese interessate, la maggior parte sono americane, anche se, in realtà, l’elenco comprende anche aziende cinesi, tedesche, britanniche e persino francesi. In pratica, la finalità è quella di concentrare e/o ricondurre la tassazione sul luogo in cui effettivamente si trovano gli utenti dei servizi online, piuttosto che su dove le aziende basano la propria sede europea o indirizzano i rispettivi guadagni in relazione allo sfruttamento dei diritti derivanti dai copyright multipli da cui i servizi e i canali utilizzati dalle società per erogarli dipendono. Tradotto, le nuove norme fiscali, come quella francese, mirano ad imporre un prelievo direttamente sui ricavi, prima che i profitti conseguiti in Francia aggirino le norme eludendole per spostare e/o alloggiare i propri guadagni in giurisdizioni a bassa o zero tassazione.

Quali altri Paesi impongono una digitaltax? L’Italia, in primis, ha adottato una tassa simile a quella francese, peraltro già in vigore dal 1° gennaio 2020. Un prelievo che però contiene una clausola ad hoc che ne sterilizza gli effetti in caso e nel momento in cui il gruppo di studio a guida OCSE riuscisse a definire e a far accettare una nuova forma minima di tassazione globale da applicare non soltanto alle multinazionali del web ma all’intero orizzonte delle grandi aziende con vocazione globale. Anche il governo turco, a sorpresa, ha dato il suo via libera ad una tassa digitale del 7,5%. Più costosa di quella francese. La legislazione introdotta nel Regno Unito imporrebbe un prelievo minore, del 2%, sui ricavi dei motori di ricerca, piattaforme di social-media e per compravendite online, sempre a condizione che tali guadagni derivino, come valore, direttamente dagli utenti che risiedono e/o operano nel Regno Unito. Ma anche Austria, Spagna e Belgio stanno prendendo in considerazione o hanno già predisposto prelievi digitali.

Gli USA hanno reagito alla tassa francese sostenendo che discrimina le società americane, ed hanno proposto tariffe per circa 2,4 miliardi di dollari ai prodotti francesi e hanno aperto indagini sulle tasse digitali proposte in Austria, Italia e Turchia. Gli Stati Uniti, infatti, fanno affidamento sulla Sezione 301 del U.S. Trade Act del 1974, lo stesso strumento già utilizzato dal presidente Donald Trump per imporre tariffe sui beni cinesi a causa di presunti furti di proprietà intellettuale. Al riguardo, come noto, è intervenuta anche l’Unione europea con un serrato e riservato scambio di note tra Commissari, Presidenti e la Casa Bianca, con risultati, per il momento, piuttosto modesti. Neanche la dichiarazione francese di abbassare l’entità del prelievo sui colossi del Web se gli Stati Uniti e altri fossero d’accordo su uno sforzo globale per un approccio fiscale uniforme da coordinarsi e realizzarsi sotto la guida e la gestione dell’OCSE, sembra aver stemperato gli animi.

Ma in cosa consistono le imposte proposte, ovvero, in cosa consiste la digitaltax. Essa parte dal presupposto che poiché sono spesso domiciliate in altri Paesi, comprese giurisdizioni a bassa tassazione come l’Irlanda o le Bermuda, e trasferiscono denaro attraverso le frontiere, le aziende che vendono online possono facilmente evitare di pagare le tasse in Paesi in cui, tuttavia, effettuano vendite significative.

In particolare, la Francia sostiene che la struttura dell’economia globale si è spostata su un nuovo modello basato sui dati, sui numeri, sui profili individuali, una cloud-economy che ha reso arcaici i sistemi fiscali del XX secolo. Non è quindi una casualità il fatto che, secondo i dati 2018 della Commissione europea, le società tecnologiche globali paghino un’aliquota fiscale media del 9,5% rispetto al 23,2% per le grandi imprese tradizionali, senza parlare delle piccole e medie aziende ancor più penalizzate da questa rivoluzione “silenziosa”, almeno fino a qualche anno or sono.

E’ evidente che la base logica della tassazione che, invece, è avanzata in queste brevi righe parte da una differente presunzione: si tratta, infatti, di tassare le società Internet in proporzione alla loro “presenza digitale” nel Paese rispetto al resto del mondo ed il prelievo non deriva dal fatto che conseguono profitto, ma dalla sostanziale considerazione che effettuano un “furto” di dati all’utente, furto che non è da questo né conosciuto ne misurabile. L’enorme potere economico si va poi a saldare con l’enorme potere di condizionamento che tali strumenti assumono e, quindi sono necessari potenti interventi di riequilibrio, attraverso delega di potere alle assemblee elettive su tali soggetti, anche attraverso la costituzione di apposite agenzie che vigilino su di essi.

Il riequilibrio può pertanto avvenire, nelle more di una più corretta sistemazione delle posizioni in campo, attraverso un prelievo dello Stato che “ripari” al furto, distribuendo il prelievo a beneficio dei cittadini e che assicuri che il legittimo svolgimento della libera attività economica non travalichi la formazione di una libera opinione, vero presidio per lo sviluppo anche economico equilibrato.

 

4. Alcune osservazioni sulla questione del Mes

Prima di procedere a tirare le conclusioni dell’intervento, mi si consenta alcune note sulla questione del Mes. Il Meccanismo Europeo di Stabilità, più noto con l’acronimo di  MES è un’organizzazione intergovernativa  costituita dai paesi che condividono l’euro con il compito di aiutare i paesi che si trovano in difficoltà economica. Il MES, fondato nel settembre ha avuto anche lo scopo di superare altri due fondi creati in precedenza (l’EFSF ed lo EFSM)[26]. Ne sono membri tutti i Paesi dell'Eurozona che, attualmente, sono 19 e, cioè Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna. Questi paesi sostengono il MES in proporzione; l’Italia contribuisce con il 17,7% sul totale di circa 700 Miliardi di Euro previsti (l’Italia quindi, che ha già  versato circa 14 Miliardi di euro, ne dovrà dare altri 109,9 Miliardi di euro). Da un punto di vista organizzativo il MES, esso è retto da un “Consiglio dei Governatori”, composta da soggetti (i consiglieri) nominati da ciascuna nazione ed un Consiglio di Amministrazione” che a sua volta nomina il “Direttore Generale” e decide a maggioranza (85%). Il Direttore Generale nominato oggi è il tedesco Klaus Regling che resterà in carica fino al 2023.  Egli dirige un consesso di vertici manageriali formato da: David Eatough, Rolf Strauch, Christophe Franklen, Kalin Anev Janse, Sofie de Beule-Roloff; Francoise Blondeel. Gli artt 32.1 e  34 dello Statuto prevedono che venga conferito, nei territori dove opera, lo “Status Giuridico, privilegi ed immunità a tutto il personale della MES. Inoltre, è previsto che i beni, le disponibilità, le proprietà (ovunque possedute) del MES, godano del “Beneficio della Immunità”; pertanto perquisizioni, sequestri, confische, espropri, pignoramenti, etc. “Non trovano Applicazione”[27].

 

4.1. L’erogazione del prestito

Per il momento, il fondo ha una dotazione di 80 miliardi di euro, generati dalla contribuzione, in maniera proporzionale, dei soci membri. La nota recente decisione del MES assegna all’Italia la somma di 34/36 Miliardi di Euro solo per investimenti da spendere nel settore della Sanità. Si tratta di una novità che è stato introdotto a seguito dell’epidemia del nuovo coronavirus: il Pandemiccrisissupport. Fino alla fine del 2022, gli Stati membri del Mes – che sono quelli membri dell’area euro –potranno chiedere un prestito fino al 2 per cento del loro Pil del 2019 da utilizzare in spese sanitarie dirette e indirette legate all’emergenza coronavirus, che saranno monitorate dalla Commissione Ue. Per l’Italia stiamo parlando, appunto, di una cifra massima tra i 35 e i 36 miliardi di euro.  Ad oggi il vincolo della spesa a misure legate alla sanità è di fatto l’unica condizione per accedere al Pandemic Crisis Support, anche se, è acquisito che sussistono le regole giuridicamente vincolanti che al prestito del Mes poi seguano delle condizioni, come ad esempio la richiesta di fare riforme specifiche.

L’aiuto ad uno Stato membro in difficoltà, pertanto, anche in questo caso  è subordinato al benestare  dello Stato che riceve il prestito ad un piano di riforme fissato dal MES e la verifica sul corretto adempimento degli impegni presi è attuato attraverso una commissione formata dalla Commissione Europea, Banca Centrale Europea (BCE) e Fondo Monetario Internazionale (FMI). L'assistenza finanziaria, ricordiamo, è concessa a condizioni rigorose e solo nel caso in cui la situazione minacci la stabilità finanziaria dell'intera zona euro e degli Stati membri che ne fanno parte. Le condizioni possono comprendere misure relative alla politica di bilancio, economica e finanziaria, a seconda delle circostanze nel paese interessato. Dunque, le condizioni per beneficiare dell'assistenza finanziaria del MES comprendono un accordo sull'attuazione di misure strategiche adeguate entro un certo periodo di tempo. In definitiva, tali misure strategiche sono mirate a stabilizzare le  finanze pubbliche del debitore, a rafforzare la resilienza nei confronti di shock futuri ed a riguadagnare l'accesso al finanziamento sul mercato. Finora lo strumento più utilizzato è stato il ricorso a prestiti al governo. Le condizioni per beneficiare di assistenza finanziaria in questi casi sono fissate generalmente in un "programma di aggiustamento". Si segnala, che è stata introdotta, recentemente, una modifica ai regolamenti più calmierata della precedente ma per attivare questa linea di credito il Paese richiedente può usufruirne solo se i suoi bilanci rispettino i parametri di Maastricht.

Nell’ipotesi che venisse richiesto, ed il MES autorizzasse il prestito (ad esempio all’Italia che, ricordiamo, potrebbe aggirarsi a circa 34/36 Miliardi di euro si apre per l’effettiva erogazione del prestito un processo d’intesa con la Commissione Europea e BCE. Le condizioni strategiche, infatti, sono negoziate tra lo Stato membro interessato e la Commissione europea, di concerto con la BCE; se possibile è prevista anche la partecipazione attiva dell'FMI.

Dopo che sono state concordate le misure strategiche, l'Eurogruppo potrà dare il proprio avallo politico ed il Consiglio potrà, conseguentemente, approvarle formalmente. Le condizioni, ricordiamo, sono definite in un memorandum d'intesa firmato dallo Stato membro interessato e dalla Commissione europea[28]. Il meccanismo europeo di stabilità prende la decisione formale. 

Prima di definire il memorandum d'intesa, la Commissione europea, di concerto con la BCE, valuta:

- se sussistano rischi considerevoli per la stabilità finanziaria dell'intera zona euro o dei suoi Stati membri;

- le necessità di finanziamento dello Stato membro e la sostenibilità del suo debito pubblico (la cosiddetta analisi della sostenibilità del debito).

Affinché l'assistenza finanziaria sia concessa, l'Eurogruppo ed il MES devono concordare con tali valutazioni. 

Gli Stati membri che richiedono assistenza finanziaria nel quadro del MES devono inoltre ratificare il trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance (noto anche come "patto di bilancio"); questa regola, invero, è applicabile dal marzo 2013. Dal 1º gennaio 2014 la concessione di assistenza finanziaria è subordinata anche al rispetto della regola del pareggio di bilancio, sancita nel patto di bilancio. 

Peraltro, se si aderisce al MES, si dovrà anche sottostare alle c.d. “Missioni di Controllo post-prestito” che questo, di concerto con la Commissione Europea e BCE  e anche con la partecipazione del FMI attiva con il comune obiettivo di valutare se l’Italia continui ad attuare politiche solide e se sussista il rischio tale da giudicare che non sia in grado di rimborsare il prestito[29]. Questa sovrapposizione di Controllo delle attività si protrarrà fino a che non venga restituito almeno il 75% del debito.

Va rimarcato inoltre che il finanziamento MES, una volta deciso e contrattato, si erogherà in “Tranche del 15%” sulla base dello stato di esecuzione dei progetti realizzati. I crediti del MES sono privilegiati e, dunque, sono preferiti ai crediti terzi[30].

 

4.2. Riassumendo

Le osservazioni sopra fatte ci permettono alcune considerazioni certamente economiche e, poi, più propriamente politiche, circa l’appetibilità del ricorso al MES, da parte del nostro Paese.

In primo luogo, per modificare i termini dello Statuto è necessaria una delibera degli organi di Governo dell’Europa della BCE e del MES che cambi lo Statuto del MES. Pertanto, anche la tanto celebrata “lettera di Paolo Gentiloni”[31] dello scorso 7 maggio (che promette una riduzione delle prescrizioni capestro del MES) non può superare l’applicabilità dello Statuto in ogni caso che richiede una modifica dello stesso. Essa ha, naturalmente, il suo peso, ma vale solo come indicazione; nelle varie riunioni europee sul tema MES, peraltro, si sarebbe paventata anche la ipotesi di una moratoria di un anno sulla applicabilità dei vincoli di Statuto (cosa tutta da verificare), ma la cosa non costituisce un vantaggio vero, attesi i tempi della burocrazia e scambi tra Italia e CEE, che fanno prevedere tempo molto lunghi e, quindi, certamente superiori all’anno. Dopodiché riprenderebbe vigore lo Statuto MES.

Per altro verso, sono evidenti le difficoltà del Governo nella programmazione, entro breve tempo, della spesa dei 36 Miliardi di Euro. Questo sia per una difficoltà oggettiva relativa alla necessità di comporre le varie istanze che provengono dai vari settori comunque interessati, sia per la mancata soluzione del nodo politico di fondi (MES si o MES no) dentro la maggioranza delle forze politiche che sostengono il Governo. Altrettante difficoltà sembrano sorgere in seno alla Commissione.  Quindi il denaro del MES e arriverà  corre il rischio di arrivare molto tardi.

Altro aspetto critico è il tasso previsto, che  è vicino allo zero ma è legato alla variabilità del costo per la raccolta delle fonti finanziarie da parte MES. L’eventuale onere sarà ribaltato sul debitore.

Ciò, connesso al fatto che il credito erogato è privilegiato e alla necessità di finanziare un alto debito pubblico, rende, a nostro modo di vedere, pressoché certo l’innalzamento futuro dello spread sul debito e, suggerisce difficoltà nel piazzamento di titoli italiani. Già in altre occasioni, infatti, ho avuto modo di ricordare come Modigliani e Miller[32] nel loro famoso contributo alla finanza, abbiano osservato come i tassi d’interesse crescano al crescere dell’indebitamento, e ciò perché i creditori percepiscono un aumento del rischio sull’effettivo rimborso del prestito. Ora, sebbene sia indiscutibile che il debito pubblico complessivo del nostro Paese ammonta ad oltre 2.400 Miliardi e che, dunque, anche se si utilizzasse tutta la linea di credito MES disponibile, il debito privilegiato costituirebbe solo circa 1,5 per cento del debito statale, pur tuttavia si deve sottolineare che sarebbe sufficiente anche solo un incremento dello 0,05% annuo del costo del debito (a ragione del maggior rischio percepito dai creditori) per annullare il vantaggio del prestito “linea MES”. In altri termini i successivi finanziamenti li pagheremo più cari. Ed allora, ragionando in termini squisitamente economici, a mio modo di vedere le cose, prende forza l’idea di chi sostiene che meglio sarebbe procedere attraverso l’ordinaria emissione di titoli, i cui interessi, costituirebbero di fatto - almeno per la quota parte sottoscritta dai cittadini residenti nel nostro Paese - un trasferimento a sostegno dei consumi a favore delle famiglie.

Da un punto di vista più strettamente “politico” non mancano, poi, le ragioni per pensare che ci possa essere una pesante influenza effettiva della politica dei paesi componenti la UE sull’Italia. In effetti, ben può rilevarsi come i paesi che maggiormente potranno avere necessità di ricorrere al MES sono quelli più piccoli ed esposti con titoli di prestito  e con poco o nessun potere nella struttura del MES.

Ora, nel caso in cui si acceda al prestito MES un paese come l’Italia con un altissimo debito pubblico, ci si potrebbe anche trovare in una situazione di difficoltà oggettiva che porti a ricondizionare il debito. In tal caso,  questo avverrebbe sotto la guida della c.d. TroiKa (Fondo Monetario, Banca Centrale Europea e Commissione Europe). A questo punto non sarebbe fantapolitica, pensare che i debitori non privilegiati (ad esempio i privati cittadini italiani che hanno BOT, CCT, Titoli  etc.) si potrebbero vedere ridurre il valore del proprio credito con interventi legislativi ad hoc.

Peraltro, verso il denaro del MES entrerebbe nel nostro paese attraverso le banche; ciò ci autorizza a pensare che le somme, in una eventuale fase di ricondizionamento del debito, potrebbero essere utilizzare a stornare i debiti con chi detiene i crediti, lasciando poco o niente al finanziamento dell’economia reale, ovvero agli  investimenti. Insomma, una serie di congetture a cui occorre trova una risposta chiara prima di accedere alle prestito. Tuttavia, non è dato rintracciare una discussione seria sul tema che è certamente importante ed è capace, come abbiamo visto, di condizionare pesantemente il futuro sviluppo del nostro Paese.

 

4.3. Un utilizzo alternativo degli aiuti alla Pandemia

È cosa nota che l’accordo di luglio 2020 assegna all’Italia, fra fondo perduto e prestiti, 209 miliardi di euro. Naturalmente, per vedere quei soldi occorrerà indicare le riforme e gli investimenti necessari, ragione per cui fino ad oggi nulla di certo è stato ancora partorito. Per altro verso le linee guida della Commissione Ue sono precise e pongono in primo piano l’ambiente e la sostenibilità (per più di un terzo delle risorse), la sanità e l’innovazione.

Tuttavia, penso che possa esserci un’alternativa possibile per uscire dalle pastoie burocratiche e permettere a l’Italia di restituire il denaro preso in prestito, senza particolari problemi, e questo passa attraverso il recupero della sovranità monetaria nazionale. Recentemente, il professor Paolo Maddalena, insigne giurista italiano, ha evidenziato come la legislazione vigente (ed i trattati europei) consentano, per il nostro Paese, una doppia circolazione monetaria; per intenderci e chiarire i termini della questione, accanto all’euro, potrebbe circolare, secondo Maddalena, un’altra moneta ad uso interno, “battuta” ciò dallo stato italiano per effettuare i pagamenti interni[33]. Tralasciando, per semplicità di esposizione, i dubbi che l’ex giudice costituzionale avanzava sul gradimento della Banca d’Italia, l’osservazione ci consente di fare alcune deduzioni. In primo luogo, se è possibile una doppia circolazione, sarebbe dunque immaginabile che il denaro messo a disposizione dall’Europa, invece, di impegnarlo secondo i piani di investimento eventualmente approvati, sia tenuto a garanzia di una nuova moneta. Ovvero, debiti per 209 miliardi di euro a fronte di nuova moneta di stato per lo stesso importo.

Ma che vantaggio ciò avrebbe? Bene, ciò innesterebbe un circuito (a mio modo di vedere virtuoso) di moltiplicazione monetaria che permetterebbe di accrescere la massa di moneta spendibile al di sopra dell’importo dei 209 miliardi di euro. Questo meccanismo, molto simile ad un gioco di prestigio, è invece ben noto agli economisti della moneta che sanno come il denaro in circolazione non immediatamente speso e depositato presso intermediari bancari può essere utilizzato per alimentare prestiti. Quindi, in altri termini lo Stato riacquisterebbe la politica monetaria, adesso imbrigliata nelle rigide regole della Bce. Ma le considerazioni da fare non si dovrebbero fermare qui. Infatti, ben si potrebbe pensare ad un ulteriore passo avanti, raccogliendo le suggestive indicazioni dell’attuale presidente della Consob, il professor Paolo Savona, sul principio che le valute virtuali o sono di stato o non sono[34].

Dunque, la nuova moneta di Stato italiano ben potrebbe essere una valuta virtuale, sfruttando cosi vantaggio competitivo rispetto a molti stati avanzati che tentennano su questo. È evidente che le implicazioni di una tale presa di posizione dell’Italia su tale aspetto, superano i limiti della scienza economica e rientrano in quelli della politica, pur tuttavia, questo consentirebbe, a nostro modesto avviso, al nostro Paese di fare un salto di qualità, permettendo di superare i vincoli europei e di liberarci dalla morsa del debito, che ha già superato il record a 2.560 miliardi di euro, comunicato dalla Banca d’Italia a fine luglio 2020.

 

5. Conclusioni

Covid 19 rappresenta una opportunità unica per l’impatto che ha su un percorso oramai segnato da un potere che nelle democrazie occidentali si è cristallizzato su una cultura tanto egemone quanto incapace di cogliere i forti segnali di discontinuità presenti. Esso ha reso evidenti i limiti dello sviluppo attuale ed i pericoli per la democrazia e per il benessere diffuso, che l’illusione mondialista ha offuscato in una generale ed ingiustificata fiducia nell’inevitabile del cammino intrapreso per arrivare al progresso umano.

La pandemia ha portato a riflettere gli intellettuali sui tali limiti ed ha acceso i riflettori sulle contraddizioni non risolte. Ancora un volta l’Europa in particolare  è ad un bivio, che impone scelte drastiche.

L’emergenza immigrazione, la questione ambientale e la trasformazione sociale imposta dalle nuove tecnologie oltre a scardinare i vecchi poteri e consuetudini, come nelle poche righe che seguono ci si è incaricati sommariamente di rappresentare, se non affrontare in un contesto globale e, per il nostro continente, europeo rischiano di rendere impotenti gli Stati e farli collassare su loro stessi, attesa la impossibilità di affrontare scelte epocali in solitudine.

Di tutta evidenza se le risorse per la trasformazione vanno prese dove esse vengono realizzate, ovvero, in primo luogo, dalle corporation delle piattaforme informatiche e poi dalle multinazionali dell’industria prevalentemente chimica e farmaceutica (di cui non abbiamo avuto modo di parlare nelle pagine che precedono solo per economia di trattazione), il loro impiego deve essere di necessità rivoluzionario nel vero e pieno senso del termine[35]. E’ necessario, infatti, come cennato, che l’Europa impieghi tale denaro verso il Sud del mondo, per una rinascita del bacino del mediterraneo da sempre culla della civiltà più avveduta. Solo in tal modo, con un cambiamento del paradigma che vuole concentrato il benessere nel solo Nord d’Europa sarà possibile aprendo alle forse nuove del Sud avere una Europa complessivamente più forte. In effetti sia il modello di sviluppo market oriented che quello renano[36] devono lasciare il passo ad un modello di Stato dove le autorità pubbliche prendano il controllo dell’indirizzo da dare allo sviluppo. La realtà delle cose l’impone!

 

Dott. Enea Franza, Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche Università Internazionale per la Pace - delegazione di Roma dell’O.N.U.

 

[1] Vedi, “La paura e la speranza, Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla”, G. Tremonti Mondadori  2008.

[2] Vedi tra i tanti: “La dimensione sociale dell'Unione Europea alla prova della crisi globale” a cura di A. Ciccarelli e P. Gargiulo, Franco Angeli Editore, 2019, “La nuova evangelizzazione dell'Europa nel magistero di Giovanni Paolo II”, a cura di Benedetto Testa, Edizioni studio domenicano, 1991, “L’Europa della crisi” a cura di Maria Cristina Marchetti, Ed La Sapienza 2019 e, “L'identità dell'Europa e le sue radici: storie, culture, religioni”, autori vari, Rubbettino Editori 2002.

[3] Vedi anche “Gli italiani e l’Europa (2) – L’insoddisfazione aumenta, ma aumentano anche le preoccupazioni”, di Pier Giorgio Ardeni, 8 maggio 2019 e, dello stesso autore: “Gli italiani e l’Europa (1) – Preoccupazione e insoddisfazione, ma non disaffezione” di Pier Giorgio Ardeni, 3 maggio 2019Centro Studi Cattaneo (https://www.cattaneo.org/ 2019/05/10/gli-italiani-e-leuropa-2-linsoddisfazione-aumenta-ma-aumentano-anche-le-preoccupazioni/).

[4] L’European Centre for DiseasePrevention and Control (Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) è un'agenzia indipendente dell'Unione europea con lo scopo di rafforzare le difese dei paesi membri dell'Unione nei confronti delle malattie infettive. Il centro, istituito nel 2005, ha sede a Solna in Svezia.

[5] Vedi anche “Caos Med. Dall’ordine al disordine nel Mediterraneo e in Europa” di Giulio Sapelli, Edizioni Goware 2015“L'enigma della crescita” di Luca Ricolfi, Mondadori 2016 ed il “Europe: The Struggle for Supremacy, from 1453 to the Present” di BrendanSimms, Basic Books, 2013

[6] La Germania “… nei primi anni 2000, con la creazione dei Mini-Jobs, ha cominciato a imbrogliare le statistiche sul mercato del lavoro tedesco; con la sua KFW (l’equivalente della Cassa Depositi e Prestiti italiana), che figura come organismo privato, manipola i dati sull’esatto ammontare del debito pubblico; da quando è entrata nell’euro, la Germania gode di un surplus della bilancia dei pagamenti, derivante da un euro “tedesco” di fatto sottovalutato rispetto ai suoi fondamentali economici e che non redistribuisce, nella totale assenza di solidarietà fra gli Stati dell’Unione”. Renato Brunetta, 28 ottobre 2020 Fine modulo Free News online

[7] Al momento ci sono cinque paesi ufficialmente candidati all'adesione: Turchia (candidata dal 1999), Macedonia del Nord (candidata dal 2004), Montenegro (candidato dal 2010), Serbia (candidata dal 2012)[35] ed Albania (candidata dal 2014). Gli altri stati della penisola balcanica occidentale hanno firmato l'accordo di stabilizzazione e associazio-ne necessario prima che possano candidarsi per l'adesione.

[8] Vedi “La strategia euro-mediterranea: prospettive politico-economiche per il Mezzogiorno” di Dino Nicolia, Franco Angeli, 2005.

[9] Nel 1987 il Marocco aveva chiesto di diventare membro delle Comunità europee. Tale domanda è stata respinta dal Consiglio con la motivazione che non era uno Stato europeo.

[10] Vedi “Come cambiare il mondo” di Eric J. Hobsbawm, BUR Rizzoli, 2012.

[11] Ovvero verso la Libia, la Tunisia, l'Algeria, il Marocco e la Mauritania.

[12] Si consideri, ad esempio, l’importanza del Coltan, minerale metallico dato dalla combinazione di Columbite e Tantalite, presente soprattutto nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo per la produzione degli I Phone.

[13] Vedi https://publications.iom.int/system/files/pdf/wmr_2020.pdf

[14] Vedi per un approfondimento: “Osservatorio di Politica Internazionale” Approfondimento ISPI su Il Nuovo Jihadismoin Nord Africa e nel Sahel a cura di Stefano M. Torelli e Arturo Varvelli, ’ISPI (Istituto per gli Studi Politica Internazionale), 2013 e “Sahel e Africa Subsahariana” Marco Cochi, Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. I

[15] Vedi:“Come, dove e contro chi Ankara si proietta oltre l’Anatolia”. Carta di Laura Canali 25/07/2020, https://www.limesonline.com/carta-assi-espansione-turchia/119420?prv=true e, Turchia e Mediterraneo allargato: democrazia e democrazie ,  books.google.it › books,  Valeria Fiorani Piacentini · 2005. “La Russia e l’Europa”  Claudio Mutti, Gli editoriali di Eurasia, 16 Febbraio 2019.

[16] “Internet... e poi? Teoria critica dei nuovi media” di Dominique Wolton, Edizioni DEDALO, 2000

[17] “L’impatto del coronavirus nei settori regolamentati”, Allegato Relazione Annuale AGCM, giugno 2020, https://www.agcom.it/documents/10179/4707592/Allegato+6-7-2020+1594044962316/36cae229-dcac-4468-9623-46aabd47964f?version=1.1

[18] “Mobile marketing & communication. Consumatori Imprese Relazioni” di Cherubini, Pattuglia, Franco Angeli 

[19] Dal 23 febbraio del 2020, con l’approvazione del decreto legge varato  per rispondere all’emergenza da coronavirus, si rendeva automatico il ricorso allo smartworking, o lavoro agile, per le aziende nelle zone a rischio che potevano svolgere attività a domicilio e a distanza. Fino a quel momento il lavoro a distanza era molto raro: era richiesto dal singolo lavoratore all’azienda e sancito con un accordo individuale, ai sensi della Legge 81 del 2017. Lo smartworking vero e proprio venne introdotto in Italia nel 2017: ed era un’evoluzione del telelavoro, il lavoro fatto a casa seguendo gli stessi orari che in ufficio e una postazione simile, spesso fornita dall’azienda. Lo smartworking invece comporta flessibilità, e prevede – in teoria –  che non ci siano precisi vincoli di orario o di luogo del lavoro: si può lavorare dove si vuole, scegliendo i propri orari e muovendosi per obiettivi. Il contratto italiano prevede anche che siano indicati i tempi di lavoro e riposo, il diritto alla disconnessione e che sia il datore di lavoro a garantire la salute e la sicurezza del dipendente.La forma che si è vista durante il lockdown è un adattamento emergenziale del lavoro in ufficio dentro casa: prevede gli stessi orari e si svolge sempre nello stesso luogo, solo che il luogo non è l’ufficio. Lo smartworking invece prevedrebbe anche dei giorni in ufficio, fissi o quando ce ne sia bisogno, e l’uso di spazi di co-working, comodi da raggiungere, dove lavorare e incontrare altre persone senza rischiare l’isolamento e l’alienazione. 

[20] Vedi “Smith Ricardo MarxSraffa: Il lavoro nella riflessione economico-politica” di Riccardo Bellofiore, Edito da Rosenberg &Sellier, 2020.

[21] Dati presi da: “Global Digital Report di We Are Social e Hootsuite 2019”.

[22]Nel nostro Paese, La piattaforma che cresce di più è Instagram che, pur mantenendo la medesima posizione dello scorso anno, passa dal 55% al 64%. Cresce anche Pinterest, che passa dal 24% al 29% e, in classifica, scavalca Skype che cede 1 punto percentuale. Crescono del 2% anche Twitter e LinkedIn che mantengono la stessa posizione dello scorso anno. Mentre un bel salto in avanti lo fa anche Snapchat che passa dal 12% al 16%. Un salto di quattro punti lo fa anche Twitch che passa dal 10% al 14% e scavalca WeChat, che pure cresce del 2%. Ma la vera novità, rispetto al 2019, è rappresentata dal fenomeno TikTok, non presente nelle rilevazioni passate. L’app della cinese ByteDance si piazza in classifica con l‘11%. Questo invece un dettaglio sugli utenti italiani complessivi sulle principali piattaforme: Facebook: 29 milioni di utenti; Instagram: 20 milioni di utenti; LinkedIn: 14 milioni di utenti; Twitter: 3,7 milioni di utenti; Snapchat: 3,05 milioni di utenti

[23] “Immaginate che vi venga in mente di diventare vegetariani. Probabilmente andrete su Facebook e vi servirete del suo motore di ricerca per cercare i ristoranti vegetariani preferiti dei vostri amici. Questo farà capire al social network che meditate una decisione importante, che avrà conseguenze su diversi settori commerciali: in questo caso si tratta di buone notizie per l’industria del tofu e cattive per il reparto macelleria del supermercato in cui vi servite abitualmente. Facebook sbaglierebbe a non trarre profitto da questo tipo di informazioni, e proprio per questo si serve di aste in tempo reale per la vendita dei suoi spazi pubblicitari, per capire se l’industria della carne vi vuole più di quella del tofu. È in questo momento che il vostro destino smette di essere nelle vostre mani. Può far sorridere, finché non andate al supermercato e il vostro smartphone vi informa che al banco macelleria vi attende uno sconto del 20 per cento, o il giorno dopo, passando davanti alla più vicina steakhouse, il telefono vibra di nuovo con un’altra offerta: “Entrate, mangiate una bistecca!”. Dopo una settimana di riflessione – e un sacco di sconti sulla carne – decidete che essere vegetariani non fa per voi. E il caso è chiuso. Certo, se l’industria del tofu si fosse accaparrata quegli spazi pubblicitari, le cose sarebbero potute andare nella direzione opposta. Ma non importa chi vince. Ciò che conta è che una decisione che sembra completamente autonoma non lo è affatto”; da “Silicon Valley: i signori del silicio” diEvgenyMorozov di Fabio Chiusi, T. Ibanese, Editore Codice 2017

[24] Vedi “Targeted: My Inside Story of Cambridge Analytica and How Trump, Brexit and Facebook Broke Democracy” di Brittany Kaiser HarperCollins

[25] Google, Amazon, Facebook, Apple, Airbnb, Uber e Booking.com hanno versato nel 2019 in tutto all'Agenzia delle entrate 42 milioni di euro. La Repubblica https://www.repubblica.it/economia/2020/09/15/news/dai_giganti _del_ web_solo_42_milioni_di_tasse_al_fisco_italiano-267423301/#:~:text=MILANO%20%2D%20I%20giganti%20del%20 web,entrate%2042%20milioni%20di%20euro.

[26] La decisione di istituire il meccanismo "fu presa a livello Ecofin il 9-10 maggio 2010" e poi "a livello di Consiglio europeo il 25 marzo 2011"[1]. Il comunicato stampa del Consiglio dei Ministri del Governo Berlusconi IV del 3/8/2011 riporta l'approvazione nel corso della riunione della "Decisione del Consiglio Europeo 2011/199/UE, che modifica l'art. 136 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea relativamente ad un meccanismo di stabilità (ESM-EuropeanStabilityMechanism) nei Paesi la cui moneta è l'Euro, del relativo disegno di legge per la ratifica. Obiettivo della decisione che tutti gli stati dell'Eurozona possano istituire, se necessario, un meccanismo che renda possibile affrontare situazioni di rischio per la stabilità finanziaria dell'intera area dell'Euro."La ratifica parlamentare finale avvenne alla Camera dei Deputati il 19/7/2012 con 325 sì, 53 no e 36 astenuti (votazione n. 13, seduta n. 669 del 19/07/2012). Esso sostituiva due programmi di finanziamento temporanei dell'UE: lo strumento europeo di stabilità finanziaria (FESF) e il meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (EFSM). I nuovi salvataggi degli Stati membri dell'Eurozona sarebbero così stati coperti, nel disegno dei firmatari, dal MES (mentre il FESF e l'EFSM avrebbero continuato a gestire i trasferimenti di denaro e il monitoraggio dei programmi per i salvataggi precedentemente approvati per Irlanda, Portogallo e Grecia). Il Trattato che istituisce un Meccanismo europeo di stabilità era stato sottoscritto dai 17 Paesi dell’eurozona il 2 febbraio 2012, "in una nuova versione che supera quella sottoscritta l'11 luglio 2011 (non fu avviata a ratifica in nessun paese dell’eurozona) ampliandone sia l’ammontare massimo di risorse disponibili sia la tipologia delle operazioni consentite"[3]. Il Consiglio Europeo di Bruxelles del 9 dicembre 2011, infatti, con l'aggravarsi della crisi dei debiti pubblici aveva deciso l'anticipazione dell'entrata in vigore del fondo, inizialmente prevista per la metà del 2013, a partire da luglio 2012. Il trattato, "sorpassando" l'iter del parallelo atto per la modifica dell'articolo 136 del TFUE, dovette inizialmente assumere la veste di atto istitutivo di un'organizzazione intergovernativa (sul modello del FMI), a motivo della struttura fondata su un consiglio di governatori (formato da rappresentanti degli stati membri) e su un consiglio di amministrazione e del potere, attribuito dal trattato istitutivo, di imporre scelte di politica macroeconomica ai paesi aderenti al fondo-organizzazione. Successivamente, però, l'attuazione del fondo è stata temporaneamente sospesa in attesa della pronuncia da parte della corte costituzionale della Germania sulla legittimità del fondo con l'ordinamento tedesco. Il trattato stabiliva che l'organizzazione sarebbe stata istituita se gli Stati membri che rappresentavano il 90% dei suoi requisiti patrimoniali originari avessero ratificato il trattato istitutivo. Questa soglia poteva essere superata con la ratifica della Germania ma ciò non avvenne prima di una pronuncia del supremo organo giurisdizionale tedesco. La Corte Costituzionale Federale tedesca ha sciolto il nodo giuridico il 12 settembre 2012, quando si è pronunciata, purché venissero applicate alcune limitazioni, in favore della sua compatibilità con il sistema costituzionale tedesco[7]. Pertanto, il Bundestag autorizzò la ratifica il 27 settembre 2012, portando il trattato in vigore a tale data per i sedici Stati che avevano ratificato l'accordo. Il MES ha perciò iniziato le sue operazioni in una riunione dell'8 ottobre 2012.

[27] In particolare, vedi articolo 32.3 dello Statuto. Ma anche l’articolo 32.5 dello Statuto prevede che gli archivi del MES siano ovunque “Inviolabili”. -L’articolo 32.6 dello statuto prevede che anche i locali, ovunque siano, sono “Inviolabili”. -L’articolo 32.8 dello Statuto prevede che tutte le documentazioni e le archiviazioni siano “Inviolabili ovunque siano”. 

[28] L’art.14.6 dello Statuto da facoltà al Consiglio di Amministrazione, di concerto con la BCE, di cambiare le condizioni di rapporto se la “Linea di Credito” sia o meno adeguata o se richieda un adeguamento.

[29] L’articolo 4.8 dello Statuto precisa che se l’inadempiente (l’Italia in questo caso) non soddisfa il contratto PERDE IL DIRITTO DI VOTO fino a quando non sana la inadempienza

[30] L’articolo 9 dello Statuto “Richiesta di Capitale” viene deciso a maggioranza dal Consiglio d’Amministrazione con l’85% (Italia solo 17,7%). Se l’Italia non dovesse adempiere ai versamenti richiesti diventa inadempiente e deve sottostare alle indicazioni prese in consiglio senza la sua presenza.

[31] L’on. Paolo Gentiloni è Commissario europeo per l'economia, carica che ha assunto il 1º dicembre 2019.

[32] Franco Modigliani (Roma18 giugno 1918 – Cambridge25 settembre 2003) è stato un economista italiano con cittadinanza statunitense dal 1946. Nel 1985 diviene il primo (e tuttora l’ unico) italiano vincitore del Premio Nobel per l'economia, per i suoi lavori sul risparmio e i mercati finanziari. Merton Howard Miller (Boston16 maggio 1923 – Chicago3 giugno 2000) è stato un economista statunitense. Nel 1990 ha vinto il premio Nobel per l'economia (insieme a Harry Markowitz e William Sharpe).

[33]Ci hanno fatto credere che la sovranità monetaria sia impedita dai trattati, ma in realtà non è così”.  “L’articolo 128 del Trattato di Lisbona e l’articolo 16 dello statuto della BCE – spiega il magistrato – non chiudono alle banche nazionali la possibilità di emettere monete parallele che hanno valore all’interno del territorio nazionale”. “Secondo la Convenzione di Vienna, inoltre, i trattati devono essere considerati estinti quando anche una delle parti perseguono uno scopo diverso – ha detto Maddalena. Oggi abbiamo Germania, Austria, Olanda, Danimarca, Finlandia e Svezia che negano gli eurobond, andando quindi contro il principio di coesione economica dell’Unione Europea”. (L’UNICO). Paolo Maddalenain “Speciale StopEuropaItalexit”, condotto da Glauco Benigni e Riccardo Corsetto, e trasmesso in streaming su  Homo Sapiens Tv. Aprile 2020.

[34] “Non ci dobbiamo muovere dall’idea che le criptomonete devono essere pubbliche, di questo sono convinto”, e questo in primo luogo perché se fossero ammesse circuiti privati diventerebbe problematico il controllo della quantità di moneta e, ancor di più, la sua riconduzione nell’alveo pubblico”, ha affermato Savona nella giornata del 25 ottobre 2019 scorso alla lectio magistralis tenuta alla sede romana dell’Associazione Italiana per l’Analisi Finanziaria (Aiaf) sul tema “Innovazione tecnologica e mercati finanziari”.

[35]  Roberto Cornelli,” Paura e ordine nella modernità”, Giuffrè Editore, 2008

[36] I due sono i modelli di capitalismo di riferimento sono: - i sistemi market oriented (tipici della realtà anglosassone: nord America e Gran Bretagna), caratterizzati da strutture proprietarie diffuse, - i sistemi relationshiporiented (caratterizzanti l’Europa centrale – modello renano – ed il Giappone), dove prevalgono strutture proprietarie ristrette (network oriented) o chiuse (bankoriented). I riflessi di tale impostazione si hanno nelle decisioni delle imprese e nel ruolo svolto dal mercato dei capitali, per cui si può affermare che i modelli di capitalismo si distinguono in: - outsider model (modello anglosassone), fortemente orientato al mercato del capitale di rischio, dove l’influenza maggiore sulle decisioni rilevanti per l’impresa è rimessa nelle mani di soggetti che sono a contatto diretto con la gestione, con imprese a proprietà azionaria diffusa e rischi elevati di conflitti di interesse fra azionisti e manager; - insider model (capitalismo renano), orientato al ruolo degli intermediari ed incentrato sulle risorse messe a disposizione dagli azionisti o dal sistema bancario, e dove le decisioni spettano a soggetti che conoscono approfonditamente il business, con imprese ad azionariato stabile e potenziali conflitti di interesse fra azionisti di controllo e azionisti di minoranza, nonché fra azionisti e finanziatori.