A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

IL DIALOGO CIVILE NELL’UNIONE EUROPEA: LE RETI EUROPEE DI SOCIETA' CIVILE E LA SFIDA ALLA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA 

Autore: Dott.ssa Antonella Galletti

 

ABSTRACT: “La democrazia prima di essere metodo e prassi, è valore. Come tale, la si propone, non la si impone”. L’espressione "dialogo civile", insieme a quella di “società civile”, ricorre sempre più frequentemente nel linguaggio degli ambienti politici e anche all’interno del sistema dell’Unione europea. Dietro queste espressioni in molti vedono una sorta di “ultima sponda” per il recupero e lo sviluppo della democrazia. Il contesto dell’integrazione europea, cioè di un sistema quasi unico di multi-level governance, ci consente di mettere in evidenza come gli attori non governativi siano utili non soltanto all’ordinaria alimentazione dei nuovi spazi di governo ma anche, sempre più, alla loro qualificazione democratica. Nell’Unione europea si vanno aprendo sempre più numerosi canali d’accesso per le organizzazioni di società civile (OCS)che, allo scopo di utilizzare al massimo le opportunità già presenti nel sistema e di ottenerne di nuove, si stanno attrezzando anche dal punto di vista organizzativo dando vita a “piattaforme”, network, forum, “strutture ombrello”, tutte a dimensione europea. Le OCS tendono, nel loro complesso, a dialogare in maniera costruttiva e (ovviamente) critica, con le istituzioni europee e rappresentano un importante fattore di integrazione “dal basso” e, al contempo, di legittimazione democratica dell’Unione europea.

 

ABSTRACT: The terms “civil dialogue” and the term “civil society” occur increasingly in the European Union system: they can be considerated two typical examples for development and restoration of democracy.

The framework of European integration (almost the sole example of multi-level governance) allows us to highlight how non-governmental actors are useful to the creation of new areas of room of government and to their more democratic.

In order to make best use of opportunities (existing and new), civil society organizations are crating European forum, platforms and networks and make a very important factor for “bottom up” integration and for the European Union’s democratic legitimacy.

 

1. Introduzione - 2. La società ed il dialogo civile nell’Unione europea - 3. Le reti europee di società civile . 4. Conclusioni

 

1. Introduzione

La democrazia partecipativa è ormai parte integrante del modello europeo di società.

In seno all’Unione europea l’emergere di “strumenti partecipativi”, nel significato di canali di dialogo aperti dalle istituzioni con la società civile, esterni al tradizionale circuito rappresentativo, è risalente nel tempo e si lega all’annoso dibattito sul deficit democratico[1].

Il Trattato di Lisbona sancisce la complementarità tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa riprendendole rispettivamente agli articoli 10 e 11 del Trattato sull’Unione europea (TUE).

L’art. 10 paragrafo 3, TUE conferisce ai cittadini il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione e, precisando che le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini, rinvia alla necessità di applicare il principio di sussidiarietà. La partecipazione diviene quindi un diritto dei cittadini e la sussidiarietà un elemento portante della democrazia partecipativa.

L’articolo 11 TUE stabilisce che le istituzioni danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell’Unione, e afferma che le istituzioni mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile.

Un altro articolo da considerare è l’art. 15 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) che riconosce il ruolo della società civile nel buon governo dell’UE.

L’espressione “dialogo civile”, insieme a quella di “società civile” ricorre sempre più frequentemente nel linguaggio degli ambienti politici e anche all’interno del sistema dell’Unione europea. Dietro queste espressioni in molti vedono una sorta di “ultima sponda” per il recupero e lo sviluppo della democrazia[2].

Il contesto dell’integrazione europea, cioè di un sistema quasi unico di multi-level governace, ci consente di mettere in evidenza come gli attori non governativi siano utili non soltanto all’ordinaria alimentazione dei nuovi spazi di governo ma anche, sempre più, alla loro qualificazione democratica. Nell’Unione europea si vanno aprendo sempre più numerosi canali d’accesso per le organizzazioni di società civile, OCS, che hanno scoperto il “cantiere Europa” e sono impegnate a superare antichi pregiudizi e freni di stampo più o meno accentuatamente ideologico nei riguardi del processo di integrazione. Allo scopo di utilizzare al massimo le opportunità già presenti nel sistema e di ottenerne di nuove, le organizzazioni di società civile si stanno attrezzando anche dal punto di vista organizzativo dando vita a “piattaforme”, network, forum, “strutture ombrello”, tutte a dimensione europea.

Le OCS tendono, nel loro complesso, a dialogare in maniera costruttiva e (ovviamente) critica, con le istituzioni europee e rappresentano un importante fattore di integrazione “dal basso” e, al contempo, di legittimazione democratica dell’Unione europea.

 

2. La società ed il dialogo civile nell’Unione europea

Il tema del “dialogo civile” e di “società civile è certamente collegato a quello, più generale e impegnativo, della democratizzazione delle istituzioni internazionali e dei relativi processi decisionali. In questo contesto, dialogo civile starebbe ad indicare la dimensione “partecipativa-popolare” della democrazia internazionale[3].

Di dialogo civile non esiste ancora una definizione che sia condivisa dalle istituzioni dell’Unione europea. Allo stato attuale ciò che si può dire, per esclusione, è che il dialogo civile non è un sistema formale di accreditamento delle organizzazioni di società civile presso l’Ue, equiparabile ai regimi di status consultivo delle ONG, e non costituisce un’alternativa rispetto al «dialogo sociale» (per il quale sono espressamente individuati attori e competenze), ma è assunto come complementare sia al dialogo politico con le autorità nazionali ed europee sia al dialogo sociale tra le parti sociali.Per le istituzioni europee, dialogo civile è il «dialogo strutturato e regolare tra l’insieme delle organizzazioni europee rappresentative della società civile e l’Unione», è «il dialogo settoriale quotidiano tra le organizzazioni della società civile e i loro interlocutori in seno ai poteri legislativo ed esecutivo» dell’Unione. In altre parole, è uno strumento per favorire nella società civile europea un consenso diffuso nei riguardi del processo di integrazione europea e del suo sviluppo[4].

C’è comunque convergenza tra le istituzioni dell’Unione nel considerare il dialogo civile quale parte integrante del processo di consultazione nel sistema UE, come tale considerato necessario a soddisfare i principi generali di good governance, in particolare quelli della trasparenza e della partecipazione. Esso rappresenta la dinamica interattiva che si esprime in virtù della estesa e complessa rete di canali d’accesso che le sedi istituzionali dell’Unione vanno rendendo disponibili alle organizzazioni della società civile.Il dialogo civile può riguardare questioni «verticali» o «orizzontali» e quindi assumere la forma di dialogo generale oppure settoriale. Esso si estende a tutti gli ambiti di intervento dell’UE, da quelli interni (politica sociale, protezione dei consumatori, mercato interno, politiche giovanili, ecc.) a quelli esterni (sviluppo sostenibile, aiuto umanitario, diritti umani, allargamento, commercio internazionale, politica estera e di sicurezza comune).

Anche per quanto riguarda la definizione di società civile, istituzioni e organi dell’Unione europea non hanno ancora trovato un accordo tale da consegnarci un concetto univoco.

Il Comitato economico e sociale europeo fornisce non una, ma più definizioni.

Una prima definizione è quella che identifica la società civile come l’insieme di tutte le strutture organizzative i cui membri, attraverso un processo democratico basato sulla discussione e sul consenso, sono al servizio dell’interesse generale e agiscono da tramite tra i pubblici poteri e i cittadini[5].

Una seconda definizione accentua, invece, la dimensione di “socializzazione politica”: la società civile organizzata è intesa come “un luogo per l’apprendimento collettivo”, come una “scuola di democrazia”, come un “processo culturale” che si fonda su principi quali il pluralismo, l’autonomia, la solidarietà, la partecipazione, l’educazione, la responsabilità e la sussidiarietà.Una ulteriore definizione è quella che intende per società civile un concetto collettivo per tutti i tipi di azione sociale, realizzati attraverso individui e gruppi, che non sono l’emanazione dello Stato e neppure un suo prolungamento. Ciò che contraddistingue il termine di società civile è la sua natura dinamica, il fatto che esso significhi sia situazione sia azione[6].

Il CESE fornisce infine il quadro delle “appartenenze” affermando che “c’è accordo nel definire le ONG, le CBO (Community-Based Organisations) e le parti sociali come organizzazioni di società civile in senso ampio”. È chiaro che siamo in presenza di un approccio “estensivo” al tema della società civile, comprensibile anche in ragione del fatto che all’interno del CESE sono rappresentati oltre che gli interessi dei datori di lavoro e dei sindacati dei lavoratori, anche gli interessi “generali”, cioè una varietà effettivamente illimitata di domande, aspirazioni e obiettivi.

Dal canto suo la Commissione, nel Libro Bianco sulla governance europea del 2001, definisce la società civile attraverso l’elencazione dei suoi “attori rappresentativi”:organizzazioni sindacali e padronali, organizzazioni non governative, associazioni professionali, volontariato, organizzazioni di base e organizzazioni che coinvolgono i cittadini nella vita locale[7].

In un successivo documento, ma coerentemente con l’ottica inclusiva del Libro Bianco, la Commissione precisa che per organizzazioni della società civile devono intendersi “le principali strutture della società al di fuori degli organi governativi e della pubblica amministrazione, compresi gli operatori economici che generalmente non sono considerati come facenti parte del cosiddetto terzo settore o delle ONG”, il cui ruolo “nelle democrazie moderne è strettamente connesso col diritto fondamentale dei cittadini di formare associazioni per perseguire finalità comuni, come sancito dall’art.12 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE”[8]

È evidente che la via prescelta dalla Commissione è ancor più ampia di quella imboccata dal CESE: per essa, infatti, è “civile” tutto ciò che non è “governativo” o “amministrativo”, a prescindere da qualsiasi distinzione del tipo di interessi perseguiti.

Appare pertanto chiaro la tendenza delle istituzioni europee a considerare attori del dialogo civile sia le associazioni che operano per fini solidaristici di servizio alla comunità (quindi le ONG comunemente intese) sia il settore privato che ha come fine il profitto.L’intento di ricomprendere quanti più attori non-statali possibili all’interno della definizione di società civile è di per sé apprezzabile, esso potrebbe portare all’innesco di un ampio processo di fecondazione ad opera dei diritti umani, tale da portare grandi benefici alla coesione sociale ed economica, detto altrimenti, alla pace sociale nell’Unione.

Uno dei punti chiave del Libro bianco della Commissione è quello di migliorare la qualità della legislazione europea, attraverso la partecipazione della società civile. Esso afferma che “la qualità, la pertinenza e l’efficacia delle politiche dell’Unione dipendono dall’ampia partecipazione che si saprà assicurare lungo tutto il loro percorso, dalla prima elaborazione all’esecuzione”. In tale ottica, una migliore comunicazione istituzionale, l’apertura di un dibattito pubblico sulle principali questioni affrontate dalla politica europea, la consultazione della società civile sono complementari al dialogo sociale previsto nei Trattati e rafforzano i canali istituzionali.Il Libro bianco ha certamente il merito di aver posto sul tavolo la questione dei contatti tra istituzioni e cittadini; tuttavia esso finisce per rivolgersi quasi solamente alle organizzazioni della società civile, le quali sono chiamate a contribuire alla discussione sulle strategie politiche proposte, e non ai cittadini. La scommessa dell’esecutivo europeo sembra non tanto quella di accrescere la legittimità democratica dell’Unione, quanto quella di fare della partecipazione un vero e proprio metodo di problem-solving, nella continua ricerca di equilibrio tra efficienza, efficacia e legittimità[9]. In altre parole, la Commissione, non potendo (o, forse, non volendo) darsi una representative legitimacy, ha preferito strumenti nuovi dalla natura consensuale, al fine di garantirsi il sostegno non tanto dei cittadini europei, quanto delle organizzazioni socio-economiche che ne rappresentano i principali interessi[10]. Si ritiene, cioè, che la Commissione non abbia, con il Libro bianco, enunciato i principi della democrazia partecipativa europea, ma abbia tentato di attivare competenze e sapere tecnici insiti nella società civile per affrontare i nodi legislativi più articolati, per dare qualità contenutistica alle norme, e altresì per fare in modo che le norme (e più in generale le politiche) scaturiscano consensualmente. In tal senso la partecipazione si affianca, ed in parte si sovrappone, alla consultazione degli esperti, talora prevista da norme secondarie, oggi spesso affidata alle agenzie, che sola è in grado di garantire le valutazioni scientifiche, a supporto delle proposte legislative in particolari ambiti[11].

La Commissione, con il Libro bianco, ha quindi promosso“un’impostazione coerente” (efficace ed efficiente) dell’interazione con la società civile, che ha portato avanti nel 2002, con la Comunicazione “Verso una cultura di maggiore consultazione e dialogo. Principi generali e requisiti minimi per la consultazione delle parti interessate ad opera della Commissione”[12], attraverso la quale ha accentuato il ruolo delle diverse organizzazioni che operano all’interno della società europea, ruolo intimamente connesso col diritto fondamentale dei cittadini di formare associazioni per perseguire finalità comuni, sancito dall’art. 12 della Carta di Nizza. Seppure meno nota del Libro bianco, tale Comunicazione ha il pregio di porre le basi per un quadro di consultazione “sufficientemente flessibile per tener conto delle esigenze specifiche dei vari interessi in gioco”. In base a tale Comunicazione la Commissione è tenuta ad essere trasparente nel definire quali sono le questioni esaminante, quali i metodi impiegati per le consultazioni, quali le parti consultate e i motivi per cui sono state scelte, quali i fattori che hanno influenzato la definizione delle politiche; le parti interessate devono, dal canto loro, rendere espliciti gli interessi rappresentati e a quale grado, aspetto quest’ultimo che troverà definitiva attuazione attraverso il registro dei rappresentanti d’interessi del 2008. Il contenuto della Comunicazione si situa a metà strada tra un codice di autoregolamentazione e una dichiarazione d’intenti: la Commissione detta, infatti, criteri e modalità che essa stessa dovrà rispettare, senza tuttavia determinare l’insorgere di un vero e proprio obbligo giuridico a proprio carico[13]. Con la Comunicazione del 2002 si porta a compimento la “svolta” del 2001 adoperando, ancora una volta, una fonte che formalmente non crea vincoli giuridici, ovvero non dà luogo a norme che possono essere fatte valere dinanzi la giurisdizione europea[14].

Se è vero che i principi enunciati in tale atto hanno un carattere “sostanzialmente” prescrittivo e sono indirizzati a produrre effetti giuridici (in quanto riproducono norme generali che dovranno essere rispettate nella prassi e nello sviluppo della politica di consultazione), la Commissione, creando solo soft obligations, risponde del mancato rispetto di esse solo sul piano della accountability. Sorge perciò il dubbio che i principi esplicitati nella Comunicazione siano essenzialmente dettati per creare consenso, più che per avviare vere e proprie “prassi” di democrazia partecipativa.

Sotto la spinta del Libro bianco è stato disposto un sistema, l'Interactive Policy Making (Interattiva delle Politiche, IPM), volto a sviluppare forme di consultazione dei cittadini su specifiche questioni e a raccogliere commenti degli stessi[15]. L’IPM intende “contribuire all’elaborazione delle politiche consentendo alle autorità pubbliche di rispondere in modo più rapido e mirato ai problemi che sorgono, di migliorare la valutazione dell’impatto delle politiche (o della loro assenza) e di rendere meglio conto ai cittadini della loro azione”[16]. Fa da corollario all’IPM la predisposizione di un apposito sito internet “La vostra voce in Europa”, che permette la consultazione dei cittadini attraverso questionari on line, ovvero l’invio di osservazioni su format prestabiliti. Il sito dà accesso a consultazioni, dibattiti e altri strumenti che permettono di partecipare attivamente al processo politico europeo[17]. È noto come la Commissione lanci normalmente una consultazione prima di elaborare le proprie proposte normative, ovvero in fase di policy planning, e come i soggetti coinvolti siano, oltre alla cosiddetta società civile, anche attori istituzionali degli Stati membri (in particolare entità sub-nazionali). Tali “strumenti partecipativi” concernono alla fase della pianifcazione, che è anche una fase prelegislativa in senso lato: la società civile può agire solo a monte delle scelte normative e delle politiche gestionali, come change-agent, ma sono essenzialmente assenti dinamiche partecipative nelle fasi di attuazione e controllo del decision making[18].

Malgrado il massiccio utilizzo delle nuove tecnologie e le ripetute attestazioni di principio, sono evidenti alcuni dei difetti già individuati nel 2002, come la scarsa trasparenza, la limitata inclusività dei processi di consultazione, e l’uso degli strumenti telematici è insufficiente per ampliare la cerchia dei soggetti partecipanti e per conferire la necessaria trasparenza agli strumenti partecipativi[19]. Pertanto, nel 2006, la Commissione ha lanciato l’ “Iniziativa Europea per la Trasparenza” (IET)[20]: attraverso il citato Libro verde, la stessa società civile è stata chiamata a pronunciarsi sulle misure da adottare per migliorare la trasparenza del processo decisionale.

In una successiva Comunicazione del 2008[21], l’esecutivo europeo ha fornito ulteriori chiarimenti in materia, prevedendo la creazione di un registro per i rappresentanti di interesse[22], al fine di “consolidare la fiducia dei cittadini” e predisponendo un codice di condotta “per dare una maggiore trasparenza” ai rappresentanti di interessi e alle loro attività. Con tale Comunicazione si è voluta realizzare una connessione più stretta tra società e istituzioni e di produrre “una oggettiva affermazione della legittimità di entrambe secondo un riconoscimento reciproco che supera la storica separatezza tra due entità già considerate come mondi a sé”[23]. Le attività per le quali è prevista la registrazione sono definite come le attività volte ad influenzare l’elaborazione delle politiche e il processo decisionale delle istituzioni europee, le attività svolte nell’ambito del dialogo sociale o le attività richieste direttamente dalla Commissione.

Una delle principali iniziative successive al 2008 è stata la revisione del sistema del registro dei rappresentanti di interessi, pubblicata dalla Commissione nell’ottobre 2009[24]. Alla società civile è richiesta una elevata autorganizzazione, nonché la capacità di autoqualificarsi stakeholders e di organizzare la propria struttura alla difesa degli interessi in ambito europeo[25]. Inoltre è evidente come, ancora una volta, non sia stato utilizzato il metodo dell’hard law, e come la Commissione abbia invece optato per un atto regolativo atipico, formalmente soft, dotato di una limitata prescrittività, ampliata dalla possibilità di un rimedio para-giurisdizionale (il reclamo)[26].

La Commissione, visto il ruolo istituzionale che svolge e il sostanziale monopolio dell’iniziativa legislativa che detiene (appena intaccato dal Trattato di Lisbona), è certamente l’interlocutore privilegiato della società civile. Le altre istituzioni, infatti, sebbene abbiano sviluppato sistemi di consultazione informale, appaiono ancora non strutturati, scarsamente visibili e poco trasparenti.

 

3. Le reti europee di società civile

Quali sono le reali opportunità per la società civile?

Dal 2007, in aggiunta alle consultazioni e alle conferenze, cominciano ad affermarsi le cosiddette “piattaforme” (network tematici e luoghi virtuali di dialogo): strumenti partecipativi, seppure sui generis, rivolte all’elaborazione di idee, che mettono in comunicazione soggetti diversi con l’obiettivo di scambiare buone pratiche ed esperienze. Le piattaforme, talvolta legittimate da atti di soft law, dovrebbero esprimere una sintesi degli interessi in gioco in un determinato settore e costituirsi come interlocutori privilegiati della Commissione. Le piattaforme, perciò, sono strumenti extra-istituzionali e non giuridici, non sono, cioè, né previsti né regolati da fonti formalmente vincolanti, né il loro “contributo” ha conseguenze giuridiche.

Alhadeff e Wilso, rispettivamente Presidente e Direttore della “Piattaforma delle ONG sociali europee”, propongono una tipologia di OSC europee comprendente: quelle create con l’aiuto anche finanziario della Commissione europea, i network nati o che si sono trasferiti a Bruxelles, e infine quelle ong nazionali e internazionali che hanno deciso di aprire un ufficio a Bruxelles.

Della prima categoria fanno parte le ONG per lo sviluppo, la European Women’s Lobby, l’Anti-Poverty Network, l’“European Disability Forum” e lo “European Network Against Racism”.

Appartengono alla seconda categoria alcuni network attivi nel campo della cooperazione allo sviluppo, tra i quali: Eurostep (European Solidarity Towards Equal Participation of People) e un coordinamento di ONG collegate al movimento sindacale (One World Action, Solidaridad Internacional, Movimiento por la Paz y la Democracia).

Infine, la terza categoria comprende ONG quali Amnesty International Greenpeace, Save the Children.

A queste tre categorie ne va aggiunta una quarta, che è quella delle “piattaforme europee”: come “Piattaforma delle ONG sociali europee”, Green Nine, “Network diritti umani e democrazia”e il “Forum europeo per le arti e il patrimonio culturale”.

Nel 2003 le ONGS accreditate a Bruxelles hanno dato vita alla “Confederazione delle ONG europee per l’aiuto e lo sviluppo” (CONCORD); essa è formata da 18 network internazionali e da 19 piattaforme nazionali. Tra gli obiettivi principali della Confederazione ricordiamo la coordinazione delle attività delle ONG europee per lo sviluppo al fine di influire sull’elaborazione delle politiche dell’Unione in materia, il rafforzamento della legittimità delle ONGS europee e la promozione della qualità del lavoro delle ONGS sviluppando il capacity building. I principi di riferimento sono quelli di rappresentatività, della trasparenza, della good governance, della accountability.

Un esempio di piattaforma europea che merita di essere segnalato è la “Piattaforma per l’Europa interculturale”, aperta sia alle organizzazioni che ai singoli individui. La Commissione europea, nel marzo 2007, ha fatto di tale piattaforma uno dei partners nel gruppo di direzione per l’anno europeo per il dialogo interculturale[27]. In un secondo momento, con la Comunicazione del 2007 sull’Agenda europea per la cultura[28], la piattaforma sul dialogo interculturale è diventata un interlocutore privilegiato della Commissione. Fino al novembre 2008 la sua caratteristica consisteva nel non fondarsi su una membership: poteva pertanto, formalmente e sostanzialmente, partecipare chiunque fosse stato interessato. In realtà, dopo essere divenuta parte del dialogo strutturato con l’Unione, la piattaforma è oggi diventata un’associazione che unisce diverse organizzazioni, le quali sono ufficialmente membri ed eleggono lo steering group, una specie di comitato direttivo che rimane in carica tre anni. “Piattaforma per l’Europa interculturale” ha un mero ruolo di advocacy e mira esplicitamente ad influenzare l’agenda politica europea.

Per gli stakeholders economici è stata inoltre prevista l’opportunità di far parte del “Gruppo pilota di imprese europee” (European Business Test Pane, EBTP), aperto a tutte le imprese ma non alle unioni industriali e alle associazioni di categoria. L’EBTP è equiparabile ad una piattaforma, opera online attraverso le consultazioni e svolge un’attività di raccolta e monitoraggio dei risultati delle stesse.

Complessivamente, il sistema delle piattaforme è ancora piuttosto settoriale, ma potrebbe rappresentare un passo in avanti sulla strada della democrazia partecipativa poiché permette alle istituzioni europee di rivolgersi ad un unico interlocutore che ha provveduto in proprio a “dialogare” e a “riordinare” gli interessi in gioco. Oltre agli strumenti partecipativi sopra descritti, persiste la pratica di incontri bilaterali informali, che permettono alla Commissione di confrontarsi con le maggiori umbrella organizations, e di scambi di documenti non pubblici. Anche se questi si configurano con ciò che spesso viene descritto con il termine “lobbismo”, visto che sono ufficiosi e non conoscibili dall’esterno, essi consentono ugualmente ai rappresentanti della società civile di influire maggiormente sul policymaking process[29].

Una delle più note “organizzazioni ombrello” è Social Platform[30], la più grande alleanza della società civile per la giustizia sociale e la democrazia partecipativa in Europa.La Social Platform è una rete di 48 ONG pan-europee diretta ad assicurare che le politiche UE siano sviluppate in partenariato con i soggetti di cui si occupano, rispettando i diritti fondamentali, promuovendo la solidarietà e migliorando la vita dei cittadini. I membri lavorano su questioni quali: la parità di genere, la lotta alla povertà e alla discriminazione, i diritti dei Rom, dei senzatetto, ecc. Su alcuni temi politici che toccano gli interessi di più categorie, si elabora una posizione congiunta e raccomandazioni che poi presentano ai decisori politici in incontri bilaterali, oppure invitandoli ad eventi e incontri pubblici.

 

4. Conclusioni

È evidente che la partecipazione non ha, ad oggi, assunto forme tipiche, non sia stata oggetto di una regolamentazione vincolante e gli strumenti partecipativi, la scelta e la gestione degli stessi rimane in capo alle singole DG della Commissione e hanno carattere flessibile e informale.Anche se i risultati di molti studi confermano che le organizzazioni facenti parte della società civile aspirano ad un ruolo di rilievo nel decision making europeo e ritengono di dover essere coinvolte, i processi di consultazione rimangono ancora relativamente “poco partecipati”. Ciò alimenta l’impressione che la Commissione sia maggiormente interessata ad acquisire, attraverso la consultazione, consensi sulle proprie proposte e ad incrementare la propria legittimità di fronte alle altre istituzioni, più che a conferire alla società civile un ruolo effettivo nel processo di policy. Non c’è contraddittorio, dialogo tra l’esecutivo e la società civile, né dibattito reale. Eventualmente quest’ultimo potrà aprirsi contestualmente nei singoli Stati membri o sui mezzi di comunicazione, ovvero, dopo la consultazione, in seno alle istituzioni, ma in quel caso sarà un dibattito politico.

È chiaro che la società civile rappresenta un ingranaggio chiave per il corretto funzionamento della democrazia: debolezza della società civile significa malfunzionamento della democrazia, che finisce per attirare su di sé sfiducia e rassegnazione, portando così all’ulteriore indebolimento della società civile, e così via. Se inoltre è vero che la società civile costituisce la chiave della democrazia, questa società civile la qualifica chiaramente: possiamo in effetti parlare di strong democracy, ovvero di democrazia a partecipazione popolare, che permette ai singoli individui di prendere attivamente parte al processo democratico, di orientarlo, e di riempirlo di contenuti umano centrici. Questa è l’unica alternativa accettabile alla democrazia diretta, dato che proprio la democrazia, così intesa, è lo strumento politico che ci permette di perseguire il bene comune, diverso dalla somma degli interessi individuali. La società civile, essendo il luogo dove soggetti privati pensano e perseguono il bene pubblico, permette un’operazione di sintesi, per cui i bisogni individuali confluiscono nel bisogno pubblico. Saranno poi le istituzioni democratiche, traducendo il meccanismo in termini autoritativi, a trasformare tali domande politiche nel “diritto pubblico democratico” ed in politiche adeguate[31].

Come si è già anticipato nell’incipit, il Trattato di Lisbona afferma la necessità di instaurare e mantenere un dialogo vivo e diretto con la società europea, riconoscendo che esiste ancora una profonda distanza tra le istituzioni europee e i cittadini, ben esemplificata dal fatto che il progressivo aumento dei poteri del Parlamento europeo è stato accompagnato da una parallela diminuzione del tasso di partecipazione spiccatamente politica alle elezioni europee.

Rimane tuttavia incerto l’impatto reale dell’art. 11 TUE: il Trattato di Lisbona ha riconosciuto alla partecipazione il massimo grado di vincolatività giuridica, visto che ne ha fatto un principio fondamentale dell’Unione, ma non ha richiesto esplicitamente un’apposita regolamentazione. In ogni caso l’art. 11 TUE offrirebbe una solida base giuridica per procedimentalizzare la partecipazione, per chiarire gli aspetti maggiormente critici, per prevedere procedure partecipative garantite da specifici strumenti giurisdizionali, ovvero per attribuire specifici diritti di partecipazione, azionabili avanti alla Corte di giustizia[32].

D’altro canto, anche la “società civile” ha manifestato, in un apposito documento, il Towards A Structured Framework For European Civil Dialogue i propri auspici sul futuro della partecipazione ed ha sottolineato la necessità di un regolamento generale in materia, avente quale base legale proprio l’art. 11 TUE, identificando alcuni specifici punti per i quali norme vincolanti sarebbero necessarie. In particolare, è stata rilevata la necessità di uno statuto europeo per le organizzazioni, di condizioni e regole per essere ammessi alla partecipazione, di specifici punti di riferimento istituzionali per il dialogo[33].

Nonostante ad alcuni osservatori il ruolo svolto nel policy making dalla società sia apparso piuttosto notevole, in realtà, nella formulazione delle proposte legislative, il contributo è ancora limitato. La Commissione ha infatti mantenuto una netta distinzione tra la consultazione (e altri strumenti partecipativi) e il processo legislativo vero e proprio e la ricaduta prescrittiva degli inputs forniti dalla società civile è quasi irrilevante. Ancora più circoscritto è inoltre l’apporto della società civile nelle successive fasi di implementazione e monitoraggio[34].

Sino ad ora il Trattato di Lisbona non ha portato cambiamenti radicali nell’assetto degli strumenti partecipativi. Come detto, l’art. 11 TUE offrirebbe una solida base giuridica per l’adozione di un regolamento in quest’ambito, eppure la Commissione non sembra aver mutato la scelta già fatta, rimanendo contraria ad un over-legalistic approach e ancorata al soft law[35].

Il soft law sembrerebbe essere l’opzione ottimale per gli strumenti partecipativi anche all’interno dell’Unione europea. Se è vero che da una parte il soft law consente alla prassi di evolvere (o involvere) liberamente, si presta (in astratto) a gestire prassi che sono a loro volta lontane dalla partecipazione politica, e consente di sfruttare al massimo il potenziale delle nuove tecnologie sempre in evoluzione; dall’altra parte il soft law consente anche di non chiarire chi deve partecipare, di non attribuire né diritti né obblighi ai soggetti parte del processo partecipativo, di non esplicitare quale deve essere la ricaduta degli inputs forniti dalla società civile[36].

Non è semplice immaginare, anche se “auspicato” in dottrina[37], che la Corte di giustizia sarà in grado di intervenire in quest’ambito, stabilendo fino a che punto le regole dei codici di condotta sono giuridicamente vincolanti, qual èlo spazio di discrezionalità della Commissione e quale deve essere la ricaduta prescrittiva degli strumenti partecipativi. È difficile anche, ad oggi, presumere che alle organizzazioni della società civile escluse da un processo di consultazione, o le cui prerogative siano state violate in tale processo, sia consentito un rimedio giudiziario, anche se potrebbe farsi (forse) un generico riferimento alla violazione dell’art. 11 TFUE. Pertanto, indipendentemente da un intervento giurisprudenziale “creativo”, e anche se non si volessero irrigidire oltremodo gli strumenti partecipativi, sembrerebbe conveniente regolamentare l’aspetto soggettivo del processo di partecipazione (prescrivendo i criteri per individuare chi partecipa), ma anche gli effetti che esso produce. Anche laddove non si considerasse essenziale una norma vincolante per assicurare il contatto tra singoli cittadini e autorità pubbliche, un regolamento eviterebbe, si pensa, che le prassi partecipative siano solo una vetrina per gli stakeholders europei[38].

Con riferimento alle ricadute prescrittive del processo partecipativo, va ricordato che, in generale, la democrazia partecipativa si muove in un ambito che si può definire a-decisionale, e quindi la decisione finale spetta sempre alle istituzioni della democrazia rappresentativa: “la democrazia partecipativa non è una replica della democrazia rappresentativa. È una cosa diversa. La mancanza di potere vincolante costituisce anche un suo punto di forza, perché permette interazioni meno imbrigliate, favorisce l’informalità dei rapporti tra i partecipanti, consente loro di confrontarsi in modo aperto senza posizioni precostituite e di inventare soluzioni nuove. Naturalmente anche la democrazia partecipativa deve darsi regole, come ormai tutti sottolineano, ma esse devono essere flessibili e condivise dai partecipanti, non imposte dall’alto nel quadro di disposizioni legislative. L’obiettivo fondamentale della democrazia partecipativa è quello di creare empowerment a favore dei cittadini. Ma questo termine non va inteso nel senso giuridico di attribuire potere, bensì come capacitazione, ossia nel senso di aumentare le loro capacità di elaborazione e invenzione e le loro possibilità di influenza”[39].

Quanto appena esposto, tuttavia, non risolve il problema del “valore” della consultazione. Sarebbe comunque auspicabile, quindi, una regolamentazione che stabilisca fino a che punto l’istituzione può discostarsi dal risultato di una consultazione o di un forum, anche per evitare che questi diventino simboli di un’apertura solo virtuale del potere pubblico nei confronti della società. 

La democrazia partecipativa impone certamente all’Unione un salto di qualità rispetto a quanto è stato fatto sino ad ora. Il paradigma su cui oggi si regge l’UE è la combinazione di diversi modelli tradizionali di democrazia (rappresentativa, diretta e partecipativa), ma si esplica attraverso una democrazia rappresentativa ancora deficitaria e strumenti partecipativi insufficienti, impedendo così di parlare di una vera e propria democrazia partecipativa già “in atto”. Infine, è difficile affermare se la democrazia partecipativa sarà, se realizzata, sufficiente a colmare il tanto discusso deficit democratico dell’Unione. La democrazia partecipativa non è, infatti, la panacea di tutti i mali dell’UE, né la soluzione definitiva per aumentare la “qualità democratica” dell’Unione[40]. È certo però che essa può offrire un contributo al superamento delle insufficienze di una democrazia europea che appare “priva di un radicamento popolare e non sufficientemente proiettata a finalità di giustizia sociale”[41].

 

Dott.ssa Antonella Galletti, Dottore di ricerca e cultore di Diritto dell’Unione europea e di Diritto internazionale nell’Università “Kore” di Enna.

 

[1] In questo senso si v.: S. SMISMANS, European Civil Society: Shaped by Discourses and Institutional Interests, in European Law Journal, 4, 2003, pp. 482-504; D. FRIEDRICH, Participatory Democracy in the European Union? European Governance and the Inclusion of Civil Society Organisations in Migration and Environmental Policies, in www.gsss.uni-bremen.de; D. SICLARI, La democrazia partecipativa nell’ordinamento comunitario: sviluppi attuali e prospettive, in D. BOLOGNINO, G. DE MARTIN (a cura di), Democrazia partecipativa e nuove prospettive della cittadinanza, Padova, Cedam, 2010, pp. 195-212.

[2] PH. C. SCHMITTER, Come democratizzare l’Unione europea e perché, Bologna, Il Mulino, 2000; J. HABERMAS, Droit et démocratie, Paris, Gallimard, 1997.

[3] M. MASCIA, La società civile nell’Unione europea, Venezia, Marsilio Editori, 2004, p. 77.

[4] Per un approfondimento, si v. la Relazione del Presidente del CESE alla Conference on “Partecipatory Democracy on the European Constitution”, Bruxelles, 8-9 March, 2004, in www.esc.eu.int

[5] Parere CESE 851/1999 del 22/9/1999, Il ruolo e il contributo della società civile organizzata nella costruzione europea, GU C 329del 17/11/1999, p. 33.

[6] Ivi, pp. 32-33.

[7] Commissione europea, La governance europea. Un libro Bianco, COM (2001) 428 definitivo/2, Bruxelles, 2001, p. 15.

[8] Commissione europea, Verso una cultura di maggiore consultazione e dialogo. Principi generali e requisiti minimi per la consultazione delle parti interessate ad opera della Commissione, COM (2002) 704 definitivo, Bruxelles, 11.12.2002.

[9] M. PICCHI, Uno sguardo comunitario sulla democrazia partecipativa, in G. DEPLANO (a cura di), Partecipazione e comunicazione nelle nuove forme del piano urbanistico, Cagliari, Edicom, 2009, p. 129.

[10] D. FERRI, L’Unione europea sulla strada della democrazia partecipativa, in Istituzioni del Federalismo, in Rivista di studi giuridici e politici, 2/2011, pp. 297-339.

[11] Corte di giustizia, 25 gennaio 1994, AngelopharmGmbH c. Freie und Hansestadt Hamburg, Causa C-212/91, in Racc. 1994, p. I-171.

[12] COM (2002) 704 definitivo, cit.

[13] B. KOHLER-KOCH, The Commission White Paper and the Improvement of European Governance, in Jean Monnet Working Paper, 6/2001.

[14] D. FERRI, op. cit.

[15] Commissione europea,Iniziativa a favore di una definizione interattiva delle politiche (DIP),COM (2001) 1014 definitivo, Bruxelles, 3.4.2001.

[16] http://ec.europa.eu/yourvoice/ipm/index_it.htm. Per un approfondimento, si v. D. FRIEDRICH, op. cit.

[17] Al sito si aggiungono le pagine web, di volta in volta create dalle DG della Commissione, riferite a singole consultazioni.

[18] D. FERRI, op. cit.

[19] Tra il 2002 e il 2006 può citarsi la Comunicazione Europa 2010: un partenariato per il rinnovamento europeo, COM (2005) 12 definitivo, con cui la Commissione ha ribadito che i cittadini europei devono poter partecipare alla costruzione dell’Unione europea e che l’idea di partenariato racchiude in sé i concetti di consultazione e partecipazione, nel contesto dell’iniziativa Legiferare meglio, in http://ec.europa.eu/enterprise/policies/ better-regulation/index_it.htm

[20] Commissione europea, Libro verde Iniziativa europea per la trasparenza, COM (2006) 194 definitivo,Bruxelles, 3.5.2006. A tale Libro verde ha fatto seguito la Comunicazione COM (2007) 127 definitivo:Seguito del Libro verde “Iniziativa europea per la trasparenza”, Bruxelles, 21.3.2007.

[21] Commissione europea, Iniziativa europea per la trasparenza. Quadro di riferimento per le relazioni con i rappresentanti di interessi (registro e codice di condotta), COM (2008) 323 definitivo, Bruxelles, 27.5.2008.

[22] https://webgate.ec.europa.eu/transparency/regrin/welcome.do?locale=it#it

[23] U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia, in ID. (a cura di), Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze University Press, 2010.

[24] Commissione europea, Iniziativa europea per la trasparenza: il registro dei rappresentanti di interessi, un anno dopo, COM (2009) 612 definitivo, Bruxelles, 28.10.2009.

[25] L. BOUSSAGUET, R. DEHOUSSE, Lay people’s Europe: A Critical Assessment of the First EU Citizens’ Conferences, in European Governance Papers (Eurogov), n. C-08-02, in www.connex-network.org/eurogov/pdf/egp-connex-C-08-02.pdf

[26] G. MOTZO, L’attività normativa delle comunità europee, Milano, Giuffrè, 1964.

[27] Parlamento Europeo e Consiglio, Decisione 1983/2006/EC del 18 dicembre 2006, in GUCE L 412, 30 dicembre 2006, pp. 44-50.

[28] Commissione europea, Agenda europea per la cultura in un mondo in via di globalizzazione, COM (2007) 242 definitivo, Bruxelles, 1.5.2007.

[29] D. FERRI, op. cit.

[30] https://www.socialplatform.org/

[31] G. FINIZIO, Pacifismo, federalismo e società civile globale, Relazione presentata alla riunione dell’Ufficio del dibattito del MFE di Verona del 13-14 dicembre 2003 su “Le nuove frontiere del federalismo”, disponibile al sito https://www.peacelink.it/europace/a/6549.html, 26.8.2004.

[32] D.FRIEDRICH, Old wine in new bottles? The actual and potential contribution of civil society organisations to democratic governance in Europe, in RECON Online Working Paper, 2007/08 July 2007 (disponibile sul sito: www.reconproject.eu/projectweb/portalproject/RECONonlineWorkingPapers.html).

[33] Si v.: Towards A Structured Framework For European Civil Dialogue (Bruxelles,15.2.2010), in www.civic-forum.fr/documents/towards_a_structured_framework_ for_european_civil_dialogue.pdf

[34] S. KROGER, Nothing But Consultation: The Place of Organized Civil Society in EU Policy-Making Across Policies, in European Governance Papers (Eurogov), n. 03/2008, (disponibile sul sito www.connex-network.org).

[35] D. FERRI, op. cit.

[36] Ibidem.

[37] V. CUESTA LOPEZ, The Lisbon Treaty’s Provisions on Democratic Principles: A Legal Framework for Participatory Democracy, in European Public Law, 16/2010, Issue 1, p. 135.

[38]D. FERRI, op cit.

[39] L. BOBBIO, Dilemmi della democrazia partecipativa, in Democrazia e Diritto, 4/2006.

[40] V. CUESTA LOPEZ, op. cit., p. 138.

[41] U. ALLEGRETTI, Verso una nuova forma di democrazia: la democrazia partecipativa, in Democrazia e Diritto, 3/2006.