IL DIRITTO EUROPEO: UN PATRIMONIO DA SALVARE
Autore: Prof. Claudio De Rose, Direttore Responsabile e coordinatore scientifico
- PREMESSE
E’ possibile, benchè non se ne abbia l’assoluta certezza, che la costruzione europea abbia bisogno, come qualcuno grida a gran voce, di ristrutturazioni in termini politici ed economico-finanziari, ma è certo che detta esigenza non sussiste per il sistema giuridico che l’Europa unita si è data.
Ed infatti, il diritto europeo costituisce una realtà collaudata ed affinata da circa settanta anni di esperienze e applicazioni, tanto da parte delle Istituzioni, oggi dell’Unione e prima della Comunità, quanto da parte degli Stati membri, nei loro rapporti reciproci e a livello di rapporti intersoggettivi.
Per questi suoi tratti caratteristici, il diritto europeo si inscrive a pieno titolo tra gli assetti che lo “JUS” ha raggiunto negli ultimi due millenni, qualificandosi, rispetto alle altre categorie del sapere e dell’agire umano, come strumento di garanzia per la giustizia e l’equità della convivenza civile.
Inoltre, a differenza degli assetti generali e sovranazionali che lo hanno preceduto- quali il diritto dell’Impero romano, il diritto canonico, lo jus gentium, la common law – il diritto europeo si è affermato nei confronti degli ordinamenti nazionali non sulla base di presupposti di priorità incombente bensì sulla base della libera e spontanea accettazione degli Stati membri.
Un’accettazione correlata alla comunanza di interessi in gioco, primo fra tutti quello alla convivenza pacifica dopo secoli di innumerevoli guerre, e non ultimo quello della coesione economica e sociale a fini di sviluppo.
Di qui la reciproca convenienza ad assoggettarsi, con parziali cessioni di sovranità, a regole comuni, sia con riferimento a settori di primario rilievo economico e sociale, quali gli appalti, l’ambiente, la concorrenza, gli aiuti di Stato, la politica agricola, l’igiene e la sicurezza dei luoghi di lavoro, la vigilanza sulle banche, l’unione economica e monetaria, la cooperazione giudiziaria anche in campo penale rafforzatasi da ultimo con l’attuazione della figura del Procuratore europeo.
In virtù delle citate interazioni, si è andata via via configurando, anche al di là di quei valori e di quei settori, una sorta di immedesimazione dei diritti interni col diritto europeo, a livello di principi costituzionali oltre che di diritto ordinario.
Ciò ha portato alla conseguenza che i legislatori, gli operatori ed i giudici degli Stati membri avvertono sempre meno la riferibilità dei comandi normativi alle origini e alle tradizioni giuridiche nazionali e sempre di più, invece, la necessità di verificare la coerenza dei comandi medesimi con la matrice europea: una verifica a cui può bastare la gamma dei criteri interpretativi interni sempre che non ricorrano i presupposti per sottoporre la questione al vaglio della Corte di giustizia europea, ai sensi dell’art.267 TFUE.
Per effetto di detta immedesimazione il diritto europeo è entrato nel DNA dei diritti nazionali e sta portando ad una loro progressiva omologazione, di certo positiva per la tutela degli interessi comuni.
Il che conferma che il diritto europeo ben può essere considerato un rilevante patrimonio di cultura ed esperienza giuridica e che lo stesso va il più possibile salvato, ai fini di una giusta ed equa disciplina dei rapporti ai quali siano interessati gli europei.
La portata e la consistenza dell’interesse a conservare il diritto europeo anche in situazioni politiche critiche e/o avverse potrebbero essere messe concretamente alla prova nell’ipotesi che si pervenisse all’attuazione della Brexit.
In tale evenienza, infatti, sarebbe interessante verificare quali conseguenze il legislatore, gli operatori e i giudici inglesi trarrebbero dall’uscita del Regno Unito dall’Unione europea sul piano della regolazione giuridica dei rapporti intersoggettivi.
Una prima ipotesi potrebbe essere quella che la norma europea è così ben concepita da poter essere mantenuta in vigore ripresentandola come norma nazionale, il che potrebbe dar luogo a facili ironie.
A parte tale specifica ipotesi, il problema si porrebbe soprattutto per i rapporti in divenire tra soggetti britannici, nel senso che occorrerebbe provvedere in tempi brevissimi ad “emancipare” il diritto britannico dal diritto europeo. Ma l’emancipazione potrebbe rivelarsi non facile sul piano dei principi e addirittura scomoda e imbarazzante qualora, ad esempio, l’adozione o il ripristino di una norma britannica portasse a conseguenze meno garantistiche della normativa europea.
Un discorso ben distinto andrebbe fatto, invece, per la gestione giuridica di rapporti in atto o in divenire tra inglesi ed “europei”. Questi ultimi, infatti, se si trattasse di enti pubblici sarebbero tenuti ad applicare il diritto europeo e gli operatori inglesi, anche pubblici, non potrebbero che aderire se hanno interesse al rapporto. Se si trattasse di operatori europei privati, questi ultimi, qualora interessati al rapporto, potrebbero assoggettarsi al diritto inglese, sempre che ciò non li induca a rinunzie a tutele garantistiche del diritto europeo.
Per quanto detto, sarebbe forse opportuno che l’esposta problematica formasse oggetto degli accordi bilaterali ex art.50 TUE tra Regno Unito e Consiglio europeo.
- Gli anticorpi di cui dispone il diritto europeo nei riguardi delle disapplicazioni e violazioni delle sue norme.
Il patrimonio giuridico europeo può essere minacciato da due tipi di pericoli. Il primo è quello delle disapplicazioni e violazioni delle sue norme. Il secondo è quello delle riforme che lo snaturino.
Entrambi i pericoli non sono un’esclusiva del diritto europeo perché, in realtà, qualunque altro assetto, ivi compresi i diritti interni, ne è ugualmente minacciato.
Ciò che caratterizza il diritto europeo è che, trattandosi di diritto sovranazionale, esso, per difendersi, deve poter contare, oltre che sulle proprie Istituzioni, anche su quelle degli Stati membri.
Inoltre, le minacce possono provenire anche dagli Stati membri medesimi. Importante è verificare se e in quale misura il diritto europeo può contare su validi anticorpi nei riguardi di entrambi i pericoli che possono minacciarlo.
Quanto sopra precisato, si passa a considerare il primo tipo di pericoli, riservando al secondo il paragrafo che segue.
Come si è detto, il primo genere di minacce è costituito dalle disapplicazioni e violazioni dei precetti. In relazione a tali evenienze, vengono in primo luogo in evidenza le disapplicazioni o le violazioni che provengono dai privati o anche dai pubblici apparati, nazionali o europei che agiscano “iure privatorum”.
Questo genere di illeciti o illegittimità, per quanto meritevole di considerazione e di contrasto, non è tuttavia tale da minacciare l’essenza del diritto europeo. Esso, per difendersene, si affida agli organi di giustizia, propri o degli Stati membri ed alle misure ripristinatorie e/o sanzionatorie previste dai loro ordinamenti di loro iniziativa ovvero in via di recepimento di norme dettate dal diritto europeo, come nel caso della direttiva ricorsi in materia di appalti pubblici o della direttiva in materia di licenziamenti collettivi o nel caso di misure limitative degli abusi di posizioni dominanti.
Un’altra gamma di violazioni o disapplicazioni è quella in cui possono incorrere le stesse Istituzioni europee venendo meno al loro obbligo di pronunciarsi su determinate questioni ovvero nei loro reciproci rapporti o, ancora, nei riguardi di persone fisiche o giuridiche. Per queste ipotesi il diritto europeo appronta misure di contrasto, prevedendo in materia specifiche competenze della Corte di giustizia su ricorso della parte che si ritiene lesa (art.263 e art.265 TFUE).
Particolare rilievo assumono le disapplicazioni o violazioni di norme di cui uno Stato membro sia accusato dalla Commissione con la procedura di infrazione di cui l’art.258 TFUE o da altro Stato membro, ai sensi dell’art.259 TFUE. Si tratta di misure a cui si fa ricorso solo in presenza di rilevanti scostamenti dalla normativa dell’Unione e dagli obblighi conseguenti in capo ad uno Stato membro, come ad esempio in tema di rispetto dei parametri di equilibrio di bilancio e di contenimento del relativo disavanzo.
Si tratta pur sempre, comunque, di procedure e misure di ordine giuridico, in nessun modo riferibili a valutazioni di ordine politico.
Questo vale anche nell’ipotesi in cui la manchevolezza concerni i valori di cui all’art.2 del TUE, in base al quale “l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne ed uomini”.
Anche in questi casi l’atteggiamento dell’ordinamento europeo è di tutela giuridica – e non politica – dei suddetti valori, che sono poi quelli essenziali su cui si basa la costruzione europea.
Non a caso, quindi, la pronuncia viene affidata all’organo di giustizia, con ampia possibilità di chiarimenti e difesa per lo Stato accusato. Questo concetto va tenuto ben fermo nel valutare le pronunce che la Corte di giustizia viene chiamata a rendere su eventi quali quelli concernenti l’immigrazione e di cui l’Italia si è resa protagonista di recente.
Al momento non risulta che ne sia stata investita la Corte di giustizia ma, se lo fosse, tanto la procedura quanto la pronuncia rimarrebbero nell’alveo dell’applicazione del diritto europeo e dell’affermazione della sua validità e della sua continuità.
Più complessa è la procedura di cui all’art.7 del TUE, in base al quale il Consiglio europeo può contestare ad uno Stato membro la violazione grave dei valori di cui al citato art.2. In questo caso il Trattato non si affida ad un giudice ma ad una procedura che coinvolge varie Istituzioni europee (oltre al Consiglio anche il Parlamento europeo e la Commissione) e che parte dalla proposta di un terzo degli Stati membri. Inoltre, la pronuncia è a maggioranza dei membri del Parlamento e del Consiglio.
In definitiva, le valutazioni possono apparire di ordine politico ma se si pensa all’oggetto delle stesse, all’ampia possibilità di spiegarsi attribuita allo Stato membro inquisito e alla finalità della misura sanzionatoria, che è la sospensione dell’esercizio di taluni dei diritti derivanti allo Stato membro dai Trattati, può concludersi che si resta nell’ambito del diritto e della tutela dei principi su cui si basa la costruzione europea.
In definitiva, si tratta di un ulteriore anticorpo a difesa del diritto europeo.
- Il rischio di riforme con danni per il diritto europeo.
Il rischio di riforme che potrebbero snaturare il diritto europeo è purtroppo fondato, in quanto, come già fatto presente nell’editoriale del n.1/19 di questa rivista, esse potrebbero provenire dai movimenti sovranisti e populisti.
Gli stessi, a quel che è dato comprendere, intendono ridare agli Stati membri una piena identità nazionale ed una piena sovranità, il che significherebbe, certamente, eliminare le cessioni di sovranità fin qui intervenute nel quadro della costruzione di un’Europa votata alla tutela di interessi comuni.
Per quel che concerne il recupero dell’identità nazionale, non v’è piena concordanza di dichiarazioni. Ed infatti, stando all’intervista al francese Jordan Bardella (in “La Repubblica” 18 maggio 2019, pag.2), si tratterebbe di basare l’Unione su una libera collaborazione tra Nazioni sovrane solo quando ce n’è bisogno e quindi eliminare le Istituzioni stabili.
Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha parlato, invece, di liberare Bruxelles da chi la occupa abusivamente, senza specificare, però, se intende lasciare vuote le poltrone o sostituirne gli occupanti attuali con persone meritevoli di fiducia da parte delle Nazioni sovrane.
Comunque sia, nelle intenzioni di quei movimenti è palese l’attacco a due punti base del diritto europeo, che sono, appunto, le parziali cessioni di sovranità e l’affidamento della costruzione europea ad organismi stabili autonomi dagli Stati membri.
V’è silenzio, invece, per quel che concerne la tutela dei diritti umani e degli altri valori di cui all’art.2 del TUE e v’è silenzio su tutti gli altri aspetti qualificanti del diritto europeo, qui richiamati nel paragrafo 2.
Da questi non lieti segnali sembrerebbe doversi in ogni caso dedurre che l’avvento di questi movimenti, anche in posizione minoritaria, metterà in discussione l’attuale assetto europeo e quindi anche l’assetto giuridico-istituzionale su cui s’incardina il diritto europeo attuale.
Non è detto, però, che questo sia un gran male. Anzi, a ben vedere, una ricognizione attenta dei fondamentali del diritto europeo potrebbe giovare più che nuocere.
Sarà importante, naturalmente, che il dibattito si svolga tra protagonisti ben preparati e senza infingimenti politici. Se così sarà, non potranno non emergere le contraddizioni in termini e la velletarietà di quel discorso riformista.
In realtà, delle due l’una: o i pretesi riformisti intendono davvero portare avanti un modello di Europa “à la carte”, come lo stesso Bardella ha definito la sua proposta o, viceversa, essi intendono insediarsi ai posti di comando lasciandone intatta la struttura attuale.
Nella prima ipotesi, non si tratterebbe più di un nuovo modello d’Europa ma del ritorno ad una stucchevole e preistorica forma di alleanza o, tutt’al più una sorta di organismo intergovernativo come tanti, che gestirebbe spicchi di interessi convergenti. In questa ipotesi, non avrebbe senso parlare di un modello di Europa unita e resterebbe solo da rimpiangere il modello attuale ed il suo ordinamento giuridico.
Nella seconda ipotesi, tutto rimarrebbe come adesso, in termini giuridico-istituzionali e, quindi, in termini di diritto europeo. E quest’ultimo ben potrebbe servire come argine ai salti nel buio in cui potrebbero sfociare le riforme normative preannunciate dai movimenti in questione, ad esempio in tema di immigrazioni, di limiti ai disavanzi di bilancio e di tutela dei diritti umani oltre che della libertà di circolazione.