A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

L’EVOLUZIONE DEL QUADRO NORMATIVO EUROPEO E NAZIONALE IN MATERIA DI ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI

Autore: Avv. Cinzia Coduti

 

Gli organismi geneticamente modificati sono frutto dell’ingegneria genetica che prevede l’introduzione di un gene estraneo in un organismo, nel caso specifico in una pianta, che sviluppa una resistenza a insetti o parassiti. Sono state, così, artificialmente manipolate, tra le altre, alcune specie di soia, mais, cotone e colza “arricchite” di un gene batterico che produce la tossina insetticida BT. In altri casi si è provveduto al trasferimento di un gene sintetico capace di rendere la pianta resistente agli erbicidi impiegati contro le infestanti.

Si è ritenuto, in questo modo, di migliorare la resa di specifiche piante che, al contrario, si sono dimostrate vulnerabili agli attacchi sempre più massicci di insetti e parassiti, diventati più forti della tossina BT, mentre le infestanti hanno sviluppato la capacità di resistere agli erbicidi. Le piante ingegnerizzate trasferiscono i loro effetti nocivi anche sul suolo e sulle piante non geneticamente modificate, con l’evidente conseguenza del diffondersi di contaminazioni nell’ambiente.

Il dibattito che anima le diverse posizioni circa la presenza di dati scientifici più o meno sufficienti a dimostrare i rischi per la salute e l’ambiente, diffusamente documentato dagli organi di stampa negli ultimi mesi, deve essere integrato da considerazioni ulteriori, dirette a verificare la concreta utilità di un impiego di tali sementi in campo aperto.

Gli OGM sono stati presentati come un valido espediente per risolvere i problemi legati alla malnutrizione in molti Paesi in via di sviluppo: Brasile, Argentina, India, Stati Uniti e Cina sono i Paesi che per primi hanno sperimentato la coltivazione di OGM.

Il bilancio, tuttavia, non pare possa definirsi positivo, per diverse ragioni: in primo luogo, perché il numero di persone denutrite è aumentato rispetto alle previsioni; in secondo luogo perché le piante geneticamente modificate sono state impiegate soprattutto per fini industriali nei settori del tessile, dei biocarburanti e della mangimistica e in terzo luogo perché i costi legati al loro uso sono difficilmente sostenibili dagli imprenditori agricoli di piccole dimensioni.

La scelta di incrementare la produzione di cibo creando in laboratorio varietà omologate capaci di resistere agli attacchi esterni, ha contribuito alla perdita di biodiversità in molti dei Paesi interessati dalle coltivazioni geneticamente modificate.  

L’Italia e, sempre più chiaramente, l’Europa hanno manifestato estrema cautela nei confronti di iniziative dirette a promuovere la coltivazione in pieno campo di organismi dell’ingegneria genetica.

Anzi, gli ultimi dati riportati dal Servizio Internazionale per l’acquisizione delle applicazioni nelle biotecnologie per l’agricoltura (ISAA)[1] mostrano una evidente tendenza dell’Unione europea a dichiararsi OGM free: nel 2014, infatti, dei 28 Paesi europei soltanto cinque (Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania) hanno coltivato una superficie totale di 143.016 ettari di mais geneticamente modificato, con una concentrazione pari al 92% nel solo Paese spagnolo, dove sono stati destinati a OGM 131.538 ettari di superficie. I dati mostrano un graduale abbandono di tali colture, se confrontati con quelli dell’anno precedente, che avevano registrato una superficie totale coltivata a OGM pari a 148.013 ettari, di cui 136.962 sempre solo in Spagna.

Il quadro geografico così delineato trova conferma nel recente impegno del Parlamento europeo di garantire l’applicazione del principio di sussidiarietà lasciando liberi gli Stati membri di compiere le opportune valutazioni circa la necessità di vietare o limitare la coltivazione di OGM nel loro territorio.

Si tratta di una modifica finalizzata a colmare una lacuna contenuta nella direttiva 2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 marzo 2001 sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati che, nel regolare il sistema di autorizzazioni per la commercializzazione e la coltivazione di OGM, impedisce allo Stato di opporre il proprio rifiuto alla semina nel proprio territorio se non invocando la clausola di salvaguardia di cui all’articolo 23 o le misure di emergenza di cui all’articolo 34 del Regolamento (CE) n. 1829/2003 del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 settembre 2003 relativo agli alimenti e ai mangimi geneticamente modificati, in presenza di rischi per la salute umana e degli animali o per l’ambiente, o, ancora, le misure dirette ad evitare la presenza involontaria di OGM in altri prodotti ai sensi dell’articolo 26 bis, della direttiva 2001/18/CE.   

Dopo più di quattro anni di trattative sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2001/18/CE per quanto concerne la possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di OGM sul loro territorio[2], lo scorso 13 gennaio il Parlamento europeo ha approvato la nuova direttiva per favorire un maggior coinvolgimento della collettività nel processo decisionale, valutando anche gli aspetti sociali, economici ed etici connessi alla decisione di non coltivare.

La nuova disciplina, che entrerà in vigore a partire dalla prossima primavera, consentirà al singolo Stato di opporre il proprio veto su tutto il territorio o parte di esso per motivi diversi da quelli previsti per la procedura di autorizzazione.

In particolare, se la procedura di autorizzazione di un OGM sarà sempre caratterizzata da una preventiva valutazione dei rischi ambientali e sanitari, per gli OGM già autorizzati l’effetto innovativo della direttiva si manifesterà nella possibilità, per il singolo Stato, di adottare misure specifiche, da comunicare preventivamente alla Commissione europea, che siano giustificate dal perseguimento di obiettivi di politica agricola o ambientale, da esigenze di pianificazione urbana e territoriale, da finalità di contenimento dell’uso del suolo, da questioni di ordine pubblico, dalla valutazione degli impatti socio-economici o, ancora, dalla necessità di evitare la presenza di OGM in altri prodotti, che consentiranno allo Stato membro di vietare ab origine la coltivazione sul proprio territorio dichiarandosi, in sostanza, OGM free.

La soluzione proposta a livello europeo conferma e avvalora la scelta dello Stato italiano di tutelare la distintività e la qualità delle produzioni agricole locali, che nessun vantaggio possono trarre dalle colture geneticamente modificate. Ad esse, infatti, si accompagna un modello di sviluppo agroindustriale monocolturale che punta alla quantità omologata e che perde di vista la ricchezza della biodiversità, rappresentando un rischio, anche sotto il profilo economico, per gli imprenditori dei campi limitrofi che coltivano nel rispetto delle pratiche convenzionali o biologiche.

Così, quando nella regione del Friuli Venezia Giulia alcuni agricoltori hanno deciso di seminare in campo aperto il mais geneticamente modificato MON810 senza autorizzazione da parte delle autorità italiane, i ministri della Salute, delle Politiche agricole e dell’Ambiente hanno fatto ricorso alle misure di emergenza di cui all’articolo 34 del Regolamento n. 1829/2003 firmando il 12 luglio 2013 il decreto che per diciotto mesi vieta la coltivazione di mais MON810 sull’intero territorio nazionale. Il decreto è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale serie generale del 10 agosto 2013 n. 187.

Contro il decreto interministeriale un agricoltore del Friuli ha proposto ricorso dinanzi al Tar del Lazio. I giudici amministrativi, tuttavia, nel respingere le doglianze del ricorrente hanno fatto piena applicazione del principio generale di precauzione, condividendo la scelta delle autorità italiane di adottare misure di emergenza giustificate dallo stato di incertezza «riguardo all’esistenza e alla portata dei rischi per la salute delle persone»[3].

Il principio di precauzione ha rappresentato la base per l’elaborazione della direttiva 2001/18/CE ed è stato espressamente previsto come principio generale dal Regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2002 che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare il cui articolo 7 dispone che la presenza di rischi per la salute individuati sulla base di dati disponibili e la permanenza di una situazione di incertezza sul piano scientifico, consentono l’adozione di misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire un elevato livello di tutela della salute, in attesa che siano fornite ulteriori informazioni scientifiche sulla salute.

Contro la sentenza del Tar del Lazio l’imprenditore ha presentato ricorso al Consiglio di Stato: il 6 febbraio 2015, con la sentenza n. 605, i giudici hanno respinto il ricorso facendo definitivamente salvo il decreto sulla base del principio di precauzione, la cui applicazione, si legge nella motivazione, «postula l’esistenza di un rischio potenziale per la salute e per l’ambiente, ma non richiede l’esistenza di evidenze scientifiche consolidate sulla correlazione tra la causa, oggetto di divieto o limitazione, e gli effetti negativi che ci si prefigge di eliminare o ridurre (cfr. da ultimo, Cons. Stato, V, 10 settembre 2014, n. 4588 e 11 luglio 2014, n. 3573); e comporta che quando non sono conosciuti con certezza i rischi connessi ad un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali (cfr., da ultimo, Cons. Stato, IV, 11 novembre 2014, n.5525)»[4]

Nelle more della pubblicazione della sentenza, il decreto interministeriale, destinato a cessare gli effetti l’11 febbraio 2015, ha ricevuto una proroga di ulteriori diciotto mesi, assicurando la vigenza del divieto nel periodo di attesa per il recepimento da parte dell’Italia della nuova direttiva europea.

In seguito agli avvenimenti nel Friuli Venezia Giulia, lo Stato italiano ha provveduto ad adottare apposite misure sanzionatorie attraverso il d.l. 24 giugno 2014 n. 91 recante Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea, convertito dalla legge 11 agosto 2014 n.116, che, ai sensi dell’articolo 8, punisce con la multa da 25.000 a 50.000 euro e con l’obbligo della rimessione in pristino chiunque violi i divieti di coltivazione disposti in via cautelare, sempre che il fatto non costituisca più grave reato.

La scelta espressa dall’Italia e confermata a livello europeo garantisce tutela effettiva alla vocazione agricola dei territori e all’autenticità delle produzioni di qualità: soltanto in Italia sono 264 i prodotti a denominazione di origine protetta (DOP) e ad indicazione geografica protetta (IGP) e 523 sono i vini accompagnati da altrettanti segni di garanzia[5].

Le produzioni di qualità appartengono al patrimonio culturale di tutti i Paesi dell’Unione e come tali vanno preservate e valorizzate perché raccontano la storia di luoghi e di persone che contribuiscono a rendere un prodotto riconoscibile per la sua unicità. E tale impegno è stato preso dall’Europa con il Regolamento (UE) n. 1151/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 novembre 2012 sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari.      

La proposta di nuova direttiva, dunque, nel garantire maggiore libertà agli Stati di decidere in merito alla coltivazione di OGM sul proprio territorio, richiama gli stessi ad un atto di responsabilità verso i propri cittadini, i quali devono poter partecipare in modo consapevole al processo decisionale, valutando i numerosi aspetti di carattere economico, sociale e ambientale che la scelta di vietare gli OGM sottende.

Occorre, allora, domandarsi se gli OGM possano trovare spazio in un sistema produttivo che punta alla qualità e alla valorizzazione della biodiversità e se possano davvero rappresentare una soluzione per risolvere i problemi che erano chiamati a risolvere. Infatti, sebbene si sia registrato un aumento delle quantità di cibo disponibili, ancora oggi sono 805 milioni le persone che non hanno accesso alle risorse necessarie per un’alimentazione sufficiente, sicura e nutriente[6]. Allo stesso tempo, le denunce di spreco di cibo commestibile pongono chiaramente in evidenza i problemi di sovralimentazione e malnutrizione che gravano in misura sempre più estesa su altra parte della popolazione.

 

Avv. Cinzia Coduti - Consulente legale della Coldiretti.

 

[1] ISAAA Brief 49-2014: Executive Summary Global Status of Commercialized Biotech/GM Crops - 2014, in   http://www.isaaa.org/resources/publications/briefs/49/executivesummary/default.asp

[2] Bruxelles, 12 luglio 2013, COM(2010) 375 def.

[3] T.A.R. Lazio, sez. III Q, 23 aprile 2014, n. 4410.

[4] Cons. Stato, Sez. III, 6 febbraio 2015, n. 605.

[5] I dati sono reperibili sul sito del Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, all’indirizzo https://www.politicheagricole.it

 

[6] FAO, IFAD e WFP. The State of Food Insecurity in the World 2014 strengthening the enabling environment for food security and nutrition. FAO, Roma, 2014, in http://www.fao.org/3/a-i4030e.pdf