ALLA RICERCA DELL'UGUAGLIANZA DI GENERE: COME L'UNIONE EUROPEA HA AFFRONTATO LA SCOTTANTE QUESTIONE DELLE AZIONI POSITIVE POLITICHE
Autore: Dott.ssa Chiara Spiniello*
Se si considera che più della metà degli abitanti dell’Unione europea - ed analogamente di tutti ed ognuno dei suoi Stati membri - sono donne, ne dovrebbe conseguire che un’eguale proporzione si trovi riflessa nell’Europarlamento e nei parlamenti nazionali. Nei fatti, però, si riscontra tutt’altro dato: le Istituzioni annoverano un numero di donne a dir poco esiguo. Una minoranza che non si definisce soltanto in relazione alla componente maschile ma che è tale in assoluto: le donne che occupano ruoli istituzionali sono letteralmente poche. Al punto che appare legittimo affermare che quella femminile, in Europa, è una maggioranza trattata da minoranza[1].
Un paradosso, questo, che sociologi, giuristi e politologi hanno cercato di risolvere - sia nei diversi contesti nazionali, sia in ambito europeo - proponendo misure variamente orientate alla promozione della partecipazione di genere. Capofila di questi strumenti sono state le c.d. “azioni positive”[2], definite come una risposta giuridica volutamente diseguale giustificata dall’appartenenza del soggetto ad una categoria, o ad una condizione, socialmente sottorappresentata o discriminata, che legittima la differenza di trattamento[3]. In buona sostanza, le azioni positive consistono in particolari strategie o misure specifiche adottate per valorizzare la differenza positiva di atteggiamenti culturali e di comportamento delle donne, e per contrastare gli ostacoli che si frappongono ad una effettiva uguaglianza tra uomini e donne nella società.
In base all’oggetto di riferimento le azioni positive pensate per colmare lo squilibrio nel rapporto tra donne e uomini negli organi politici decisionali si suddividono in “soft” (o “deboli”) e “forti”. La ratio delle prime - che, a differenza delle seconde, non intervengono sulla disciplina elettorale in maniera diretta - è volta alla rimozione dei soli ostacoli di carattere culturale, economico e sociale che impediscono alle donne, di fatto, di concorrere con gli uomini da pari punti di partenza. Ne costituiscono esempio tutte quelle misure che prescrivono un’eguale presenza delle candidate e dei candidati nei programmi di comunicazione politica offerti dalle emittenti radiofoniche, pubbliche e private, durante la campagna elettorale. Simili previsioni si riscontrano - per quel che concerne l’esperienza italiana - nell’art. 23 della legge statutaria n.17 dell’11 dicembre 2003 del Friuli Venezia Giulia e l’art. 10 della legge n. 4 del 27 marzo 2009 della Regione Campania.
Le azioni positive “forti”, invece, hanno un riflesso immediato sulla materia elettorale. La loro intensità dipende dalle soluzioni normative adottate, in base alle quali è possibile individuare quattro tipologie differenti, che intervengo rispettivamente:
- nella predisposizione delle candidature. Si tratta di azioni positive che variano in base al sistema elettorale adottato; esse risultano maggiormente implementabili nei sistemi proporzionali, laddove la presenza di liste elettorali consente con maggiore facilità di prevedere strumenti che vincolino i promotori delle liste al rispetto di quote massime di candidati di uno stesso genere o alla pari presenza di donne e uomini. Peraltro, l’efficacia di tali misure è condizionato significativamente dal carattere delle liste presentate: se esse sono “bloccate” l’effetto di parità è accentuato dall’invariabilità dell’ordine di presentazione dei candidati; al contrario, se all’elettore è lasciata la facoltà di esprimere uno o più voti di preferenza, la riuscita della quota di riserva potrebbe essere vanificata in quanto, in questo caso, sarebbe imprevedibile il numero di candidati di genere femminile effettivamente eletto.
Nell’ambito dei sistemi elettorali proporzionali, un esempio molto interessante è costituito dalla disciplina elettorale spagnola. La Ley Orgánica n. 3 del 22 marzo 2007 prevede, infatti, che: le candidature presentate per le elezioni parlamentari, municipali, (...) per il Parlamento europeo e per le assemblee legislative delle comunità autonome dovranno essere basate su una composizione equilibrata di donne e uomini, cosicché nel gruppo di riferimento il numero di persone di ogni sesso non sia superiore al sessanta per cento e inferiore al quaranta per cento. Inoltre, si precisa che le Comunità autonome possono prevedere misure atte a favorire una maggiore presenza delle donne nelle rispettive assemblee elettive[4].
- nella fase dell’esercizio del voto da parte dell’elettore. In queste misure rientrano tutti quei meccanismi che impongono al cittadino il rispetto di un vincolo legato al sesso dei candidati, come ad esempio la preferenza di genere.
- sulla composizione di una determinata assemblea politica elettiva. Trattasi di azioni positive dagli effetti piuttosto controversi; esse potrebbero essere previste - ad esempio - da una legge che stabilisce le modalità di elezione, con schede separate, di candidati dei due generi, ai quali sia riservata metà dei seggi per ciascuno. Tale procedura parrebbe porsi irrimediabilmente in contrasto con i principi regolativi della rappresentanza politica su cui si fonda la democrazia pluralista[5].
- nelle procedure di nomina degli organi esecutivi locali e regionali. Si tratta di misure volte a realizzare il principio di pari opportunità nell’accesso agli incarichi di governo locali e regionali. Da segnalare, a proposito, l’esperienza francese, la quale risulta particolarmente interessante in quanto il Legislatore d’oltralpe - mediante la Loi 128 del 31 gennaio 2007 - si è fatto garante al massimo livello dell’applicazione del principio di parità. Tale norma, infatti, stabilisce che gli esecutivi regionali e quelli dei Comuni con più di 3500 abitanti devono essere composti da un numero eguale di donne e uomini.
L’efficacia di queste misure, peraltro, può essere accresciuta dalle sanzioni che si riconnettono alla loro violazioni: tali ammende possono essere di tipo “finanziario”, e consistere sostanzialmente in una riduzione del rimborso delle spese elettorali proporzionata alla misura del mancato rispetto delle quote di riserva, oppure comportare l’inammissibilità della lista elettorale (o, nei casi dei sistemi maggioritari, l’invalidità della presentazione delle candidature nei diversi collegi). Infine, il Legislatore può stabilirne la durata: limitata nel tempo o permanente. Mentre in questo secondo caso le azioni positive sarebbero applicabili fino all’eventuale abrogazione della corrispondente disposizione legislativa, nel primo esse avrebbero una “scadenza”, giustificabile in relazione alla particolare intensità della misura contemplata.
Fin dalla prima teorizzazione, in tutti i Paesi dell’Unione europea le azioni positive sono state oggetto di uno stridente dibattito, caratterizzato dalla contrapposizione tra chi ne ha sostenuto l’idoneità e chi, al contrario, ne ha denunciato la non conformità rispetto al quadro costituzionale di riferimento. Ad arricchire tale confronto - a volte spingendo, altre volte frenando il percorso di incentivazione normativa intrapreso nei differenti ordinamenti - è stata la giurisprudenza delle Corti Costituzionali degli Stati membri. Dopo un’iniziale fase di diffidenza, persino gli orientamenti più restrittivi hanno abbandonato la strenua difesa del concetto di eguaglianza “formale” - idea che nasce e si ancora su un modello di democrazia basato su una mera, perché non attuata, dichiarazione dei diritti - per sposare il principio dell’eguaglianza “sostanziale”, fondamento di una democrazia compiuta, coerente ed effettivamente orientata alla piena garanzia dei diritti di cittadinanza e partecipazione anche tramite l’adozione di quelle misure e programmi pubblici necessari a scavalcare “ex lege” quegli ostacoli che si frappongono alla piena realizzazione dell’individuo come singolo e nella società[6]. Questo cambio di direzione si è concretizzato, in particolare, mediante il riconoscimento costituzionale delle misure positive introdotte nelle legislazioni elettorali a sostegno delle candidature femminili.
Insistere sul passaggio dalla “teoria” alle “buone prassi”, rafforzando la presenza femminile nei luoghi di potere e nei diversi livelli decisionali, risulta - in definitiva - l’obiettivo principe di ogni democrazia che possa dirsi effettivamente libera, equa, paritaria. Il riequilibrio della rappresentanza di genere non è un “affare di donne” e non va considerata un’anacronistica rivendicazione femminista; esso - andando a riproporre il tema della cittadinanza attiva e riaprendo la discussione sulla democrazia compiuta - contribuisce a colmare il deficit democratico che affligge la gran parte degli ordinamenti contemporanei.
La convinzione che la sotto rappresentanza femminile in politica mini le fondamenta democratiche della società si trova chiaramente espressa nella Dichiarazione di Parigi, elaborata nell’ambito della Conferenza Europea di Parigi del 1999 e sottoscritta dai ministri responsabili delle politiche per le pari opportunità degli Stati membri. Accanto alla sopraccitata osservazione, dal documento emerge un secondo aspetto egualmente, se non maggiormente, importante perché suscettibile di ricadute pratiche: si raccomanda l’adozione di misure, altresì a carattere vincolante, volte a promuovere la partecipazione equilibrata di entrambe i sessi al procedimento decisionale.
Ad otto anni dall’adozione della Dichiarazione di Parigi, l’Unione Europea ha consacrato l’orientamento intrapreso, proclamando il 2007 Anno europeo delle Pari Opportunità per tutti - Verso una società più giusta[7]. Tra gli obiettivi stabiliti in quell’occasione si ricorda, in particolare, l’impegno a stimolare il dibattito relativamente all’incremento della partecipazione alla vita sociale dei gruppi vittime di discriminazioni nonché alla partecipazione equilibrata alla vita sociale di uomini e donne[8]; un proponimento che si è suggerito di realizzare mediante manifestazioni e incontri, ma anche - e soprattutto - campagne promozionali, informative ed educative.
Nel mentre, durante gli otto anni che hanno separato i due eventi, sono stati emananti diversi atti aventi ad oggetto, precipuamente, la parità politica. Particolarmente significativa è stata la comunicazione del primo marzo 2006 della Commissione sul Piano di lavoro per la parità tra donne e uomini 2006-2010[9], che ha inserito tra le aree prioritarie di azione la promozione della partecipazione paritaria delle donne e degli uomini ai processi decisionali, con particolare riferimento alla sfera politica. Infatti, nel ribadire che la persistente sottorappresentanza delle donne nel processo decisionale politico costituisca un deficit democratico, si è affermata la necessità di incoraggiare maggiormente la cittadinanza attiva e la partecipazione delle donne alla vita politica e all’alta dirigenza dell’amministrazione pubblica a tutti i livelli (locale, regionale, nazionale ed europeo). Al fine di ridimensionare questa situazione è stata, poi, sottolineata l’importanza della creazione di una rete femminile dell’UE nei posti di responsabilità economica e politica.
Passo successivo alla tabella di marcia 2006-2010, è stata la Strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015 in cui la Commissione - riprendendo le priorità in materia di pari opportunità definite dalla Carta delle donne[10] - ha elaborato il programma di lavoro che essa, insieme alle altre istituzioni europee, agli Stati membri e a tutte altre parti interessate, si è fatta carico di realizzare. La parità nel processo decisionale, in particolare, figura come terzo obiettivo della strategia: le donne sono sottorappresentate nei processi decisionali, sia nei parlamenti e governi nazionali sia nei consigli di direzione di grandi imprese - proclama la dichiarazione - nonostante esse siano la metà della forza lavoro e più della metà dei nuovi diplomati universitari dell’UE. Al fine di correggere tale squilibrio, la Commissione si è dunque impegnata a: a) proporre iniziative mirate al miglioramento della situazione; b) monitorare i progressi in particolare nel settore della ricerca, con un obiettivo del 25% di donne in posizioni direttive di alto livello; c) favorire l’aumento del numero di donne nei comitati e gruppi di esperti istituiti dalla Commissione, con un obiettivo di almeno il 40% di donne; d) promuovere una maggiore partecipazione delle donne alle elezioni al Parlamento europeo[11]. Proponimenti che, con qualche estensione[12], sono stati ribaditi nel nuovo vademecum pluriennale (2016-2019) in materia di eguaglianza tra i sessi.
Accanto alle dichiarazioni politiche, la volontà di raggiungere la piena parità tra uomo e donna è sancita a livello comunitario da molteplici atti giuridici, sia di diritto primario che derivato.
In questo senso, si può dire che la storia delle politiche di pari opportunità nell’Unione Europea sia iniziata ufficialmente con la firma del Trattato di Roma del 1957, che all’art. 119 - poi modificato e trasposto nell’art.141 del Trattato sull’Unione - disciplina il principio di “uguale trattamento” tra uomini e donne, con specifico riferimento alla parità retributiva[13]. Una massima destinata a rimanere carta morta fino agli anni Settanta, quando sono stati emanati i primi provvedimenti[14] atti a renderla operativa. Tali direttive hanno avuto il merito di inaugurare il cammino del diritto comunitario in materia di pari opportunità, estendendone l’ambito d’intervento dal concetto di identica retribuzione a quello di eguaglianza di chance, fino a giungere alla richiesta di incremento del numero di donne nei processi decisionali. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è stato oggetto dapprima del terzo e poi del quarto Programma d’Azione[15] della Comunità europea. Il primo dei due, che ha riguardato il periodo 1991-1995, è stato caratterizzato da uno spostamento dell’attenzione dai problemi del lavoro - prioritari nei precedenti programmi - a quelli politici e finanziari: la politica per la parità ha perso il suo carattere specifico e limitato per assumere una connotazione più ampia, presentandosi come una componente essenziale delle politiche economiche e sociali della comunità. Nell’ambito di questo programma è stato formulato un primo abbozzo del concetto di gender mainstreaming, da intendersi - secondo la definizione offerta dal Consiglio d’Europa e ampiamente condivisa[16] - come riorganizzazione, miglioramento, evoluzione e valutazione dei processi decisionali ad ogni livello, ai fini dell’inserimento della prospettiva della parità tra uomo e donna da parte degli attori generalmente coinvolti nell’attuazione delle politiche. Ma soprattutto è in questa fase che - nella ferma rivendicazione di una maggiore presenza femminile negli organismi decisionali, nelle assemblee elettive, nel governo e nelle pubbliche Istituzioni - è stata istituita, nel 1993, una rete dedicata alle donne nei processi decisionali[17]. Il quarto Programma d’Azione, rivolto al periodo 1996-2000, è stato redatto dopo le conclusioni della Conferenza di Pechino[18] e ha rappresentato (e ancor oggi rappresenta) uno dei contributi più completi alla promozione di una politica di parità e al tentativo di coinvolgere tutte le parti sociali interessate: la Commissione, gli Stati membri e le organizzazioni femminili non governative. Mediante l’introduzione della nozione di empowerment[19], tra i cui obiettivi figura - tra l’altro – l’incremento della presenza femminile nei luoghi decisionali, si è accentuato il problema della scarsa presenza femminile ai vari livelli decisionali e si è affermato che l’ineguale presenza delle donne negli organi rappresentativi, amministrativi e consultivi, nei mass media, nel mondo della finanza, nella magistratura e nella pubblica amministrazione, segnala un deficit di democrazia e delegittima in parte tali Istituzioni[20]. Per questa ragione, si è concluso, il principio della parità deve contribuire innanzitutto ad un rinnovo di valori, idee e stili di comportamento di cui può avvantaggiarsi l’intera società.
Certamente i Programmi d’Azione rappresentano gli intereventi più precisi e puntuali della politica di pari opportunità perseguita dall’Unione europea, ma non sono gli unici. Un ruolo egualmente significativo - almeno per quel che concerne le linee guida disciplinate al loro interno - deve anche essere riconosciuto ai trattati. Accanto al già citato Trattato di Roma, va ricordata la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea[21], che - imponendosi come strumento di tutela e promozione dei diritti nei confronti degli organi e delle istituzioni dell’Unione, così come dell’applicazione del diritto comunitario negli Stati membri - contiene in materia di pari trattamento (almeno) tre articoli rilevanti: l’art. 20, avente ad oggetto l’uguaglianza davanti alla legge; l’art. 21, che sancisce in principio di non discriminazione; l’art. 23, relativo all’uguaglianza tra uomini e donne. Quest’ultimo, in maniera specifica, affermando che il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato stabilisce una sorta di presunzione di legittimità[22] delle misure di discriminazione positiva che dovrebbero essere adottate nel diritto comunitario. Tali provvedimenti, noti come azioni positive, sono apparsi per la prima volta nella Raccomandazione n. 635 del 1984[23]. Dopo averne chiarito il significato - aver specificato, cioè, che si tratta di strumenti in grado di riequilibrare la situazione nel mondo del lavoro, mediante la neutralizzazione o la compensazione degli effetti negativi derivanti da atteggiamenti, comportamenti o strutture sociali basati su una divisione tradizionale delle funzioni tra uomini e donne, all’interno della società - il documento propone una esemplificazione di azioni positive e uno schema indicativo di riferimento per la loro attuazione, senza imporre percorsi già prefissati, che sono lasciati alla prassi e alle disposizioni esistenti nei vari contesti nazionali[24].
A contribuire all’affermazioni delle misure di discriminazione positiva, verrebbe da pensare, siano state anche le sentenze promulgate dalle corti europee; in realtà, l’estensione e il contenuto di siffatte misure non sempre è stato supportato dalla giurisprudenza comunitaria.
Esemplificativo, a tal proposito, è il caso Kalanke[25], oggetto di una pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, datata 17 ottobre 1995. Giudicando illegittima l’azione positiva del Land di Brema - secondo cui le donne avrebbero avuto priorità automatica nei processi di selezione ove sottorappresentate (ossia quando non presenti nella metà dei posti dei diversi gradi della categoria di personale in oggetto) - la Corte ha ritenuto che una normativa nazionale che assicura una preferenza assoluta ed incondizionata alle donne in caso di nomina o promozione va oltre la promozione delle parità delle opportunità ed eccede i limiti della deroga previsti dalla Direttiva 76/207/CEE, su cui era stato azionato il giudizio di legittimità[26].
Questa tesi è stata in parte rivista nella sentenza Marschall[27]. In questo caso la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha ritenuto il sistema istituito dalla legge del Land di Nord-Reno Westfalia legittimo perché non automatico, in quanto prevedeva la possibilità per il datore di lavoro di non rispettare l’obbligo della preferenza femminile in presenza di motivi inerenti alla persona di un candidato di sesso maschile. La Corte ha quindi concluso stabilendo che il diritto comunitario non osta ad una norma nazionale che in caso di pari qualificazioni di candidati di sesso diverso quanto ad idoneità, competenza e prestazioni professionali, obblighi a dare la precedenza nella promozione ai candidati di sesso femminile. Una clausola che è, però, sottoposta a due condizioni: a) la detta norma deve garantire, in ciascun caso individuale, ai candidati di sesso maschile aventi una qualificazione pari a quella dei candidati di sesso femminile un esame obiettivo delle candidature che prenda in considerazione tutti i criteri relativi alla persona dei candidati e non tenga conto della precedenza accordata ai candidati di sesso femminile quando uno o più di tali criteri facciano propendere per il candidato di sesso maschile; b) tali criteri non devono essere discriminatori nei confronti dei candidati di sesso femminile[28]. La presenza di dette condizioni -secondo la Corte - impone al datore di lavoro di svolgere un esame obiettivo delle candidature, permettendogli di selezionarle con autonomia, senza creare situazioni discriminatorie né nei confronti degli uomini né delle donne.
La dottrina esposta nel caso Marshall sembra trovare conferma definitiva nella sentenza Badeck, concernente misure preferenziali accordate alle donne in vista di posti di lavoro a termine, corsi di formazione, accesso ai colloqui per l’assunzione, presenze negli organi rappresentativi dei lavoratori e societari. In quest’occasione la Corte ha stabilito una serie di criteri di base in relazione alle azioni positive, affermando che un’azione diretta a promuovere di preferenza i candidati di sesso femminile nei settori del pubblico impiego in cui le donne sono sotto rappresentate deve essere considerata compatibile con il diritto comunitario, quando: non accordi automaticamente e incondizionatamente la preferenza alle candidate di sesso femminile aventi una qualificazione pari a quella dei loro concorrenti di sesso maschile e quando le candidate siano oggetto di un esame obiettivo che tenga conto della situazione particolare personale di tutti i candidati.[29]
Tenuto conto, altresì, delle successive retromarce della giurisprudenza comunitaria in materia di azioni positive[30], ciò che si deduce dagli esempi riportati - e più in generale dagli atti normativi e dalle dichiarazioni politiche degli organismi europei - è che indubbiamente l’Unione Europea mostra la ferma volontà di raggiungere la parità tra uomini e donne nelle sue istituzioni e in tutti gli ambiti di decisione democratica. Tuttavia, tale proponimento resta per l’appunto una linea di pensiero che fatica a tradursi in pratica: ancor oggi il principio di parità tra i sessi, soprattutto per quel che concerne l'ambito politico, non è stato traslato nella legislazione vincolante dell’Ue. Difatti, come si evince dall’analisi condotta, quest’ultima sembra essere molto più attenta al mondo lavorativo che a quello politico.
Ad ogni modo, prescindendo dalla specificità del tema trattato, è certo che l’intervento europeo - seppur a carattere squisitamente strategico - detiene ed esercita, indipendentemente dalla volontà degli Stati membri, un forte ruolo propulsivo nei confronti di questi ultimi.
*Dottoranda di ricerca in “Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate”, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
[1] Così I. RAUTI in Istituzioni politiche e rappresentanza femminile. Il caso italiano, pag. 12.
[2] Le origini delle affirmative actions - come si suole definirle nell’ordinamento americano - vanno rintracciate nella storia politico-istituzionale degli Stati Uniti, il paese occidentale in cui maggiore è stato il contrasto tra gli asseriti principi universali di eguaglianza e le visibili pratiche di esclusione. Introdotte mediante l’Equal Pay Act (Epa, Legge di parità salariale) del 1963 - e ribadite nel Titolo VII del Civil Rights Act (Legge per i diritti civili) del 1964 - le azioni positive sono state sperimentate inizialmente in relazione al contrasto delle discriminazioni fondate sulla razza, per poi allargarne il campo d’azione a quelle legate alla confessione religiosa, all’origine nazionale e soprattutto al sesso per tutto ciò che attiene ai rapporti di lavoro.
[3] Così J.F.L. AGUILAR nella introduzione di AA.VV., Verso una democrazia paritaria. Modelli e percorsi per la piena partecipazione delle donne alla vita politica e istituzionale, a cura di A. FALCONE.
[4] Così A. DEFENU, Il principio di pari opportunità di genere nelle istituzioni politiche.
[5] Così S. CECCANTI, Azioni positive e rappresentanza: nuove cautela da sostituire alle vecchie, in AA.VV., La parità dei sessi nella rappresentanza politica, a cura di R. BIN. Il principio della rappresentanza neutra deve essere considerato un super-principio rispetto alla formula elettorale, per cui ciò porterebbe ad escludere “quegli interventi in cui dalla candidatura discende quasi automaticamente l’elezione, come le quote di genere in liste bloccate...”
[6] J.F.L. AGUILAR nella introduzione di AA.VV., Verso una democrazia paritaria…, cit. pag. XIV.
[7] Lo ha fatto all'art. 1 della decisione 771/2006/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, 17 maggio 2006.
[8] Cfr. ibidem, art.2.
[9] Cfr. Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni - Una tabella di marcia per la parità di donne e uomini 2006-2010, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/com/2006/com2006_0092it01.pdf.
[10] Adottata in occasione della giornata internazionale della donna 2010 e del XV anniversario della conferenza mondiale dell’ONU sulle donne, la Carta delle donne - partendo dalla costatazione che le disparità legate al genere hanno conseguenze dirette sulla coesione economica e sociale, sulla crescita sostenibile e la competitività, nonché sulle sfide demografiche - si prefigge l’obiettivo di potenziare la promozione della parità tra donne e uomini, in Europa e nel mondo. Cfr., Comunicazione della Commissione, del 5 marzo 2010, intitolata «Maggiore impegno verso la parità tra donne e uomini - Carta per le donne - Dichiarazione della Commissione europea in occasione della giornata internazionale della donna 2010 - Commemorazione del 15° anniversario dell'adozione della dichiarazione e della piattaforma d'azione della Conferenza mondiale dell'ONU sulle donne, svoltasi a Pechino, e del 30° anniversario della Convenzione dell'ONU sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne», http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=uriserv:em0033.
[11] Cfr. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni del 21 settembre 2010, Strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015, http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=URISERV%3Aem0037.
[12] Ad esempio è stato prefissato il raggiungimento del 40% di donne in posizione di top e di middle management in Commissione entro la fine del 2019.
[13] Una pari retribuzione per un lavoro di pari valore è attribuita senza discriminazione a motivo del sesso o dello stato civile in relazione e a tutti gli aspetti salariali e a tutte le condizioni retributive.
[14] Si fa riferimento alle Direttive: 75/117/Cee; 76/207/ Cee; 79/7/Cee. In particolare quest'ultima - affrontando il tema della parità di trattamento nei regimi di sicurezza sociale - assicura la possibilità di agire in via giudiziale alle vittime di discriminazione, affermando che tutte le azioni mirate a far riconoscere i diritti alla parità di trattamento non possono costituire oggetto di licenziamento.
[15] In totale i Programmi d’Azione elaborati dalla Comunità europea in materia di paria opportunità sono stati cinque: il primo (1982-1985) - incentrato soprattutto sui problemi dell’occupazione e del lavoro - è stato articolato in due parti, aventi rispettivamente ad oggetto le azioni positive, ancora ad uno stadio embrionale, e gli interventi atti a sviluppare i congedi parentali pensati per realizzare la parità dei coniugi in famiglia; il secondo (1986-1990), dai risultati piuttosto modesti, ha riguardato la formazione, l’istruzione e le nuove tecnologie, nonché la ripartizione delle responsabilità familiari e professionali; il quinto (2001-2005) - che rientra nell'ambito della più ampia Strategia quadro comunitaria in materia di parità tra donne e uomini - si è posto come obiettivi la diffusione e la promozione di buone prassi in materia di parità in campi nevralgici come l’economia, la partecipazione, la rappresentanza, il godimento dei diritti sociali nonché la messa in luce delle forme di discriminazione esistenti al fine di superare gli stereotipi.
[16] Il successo di questa definizione sta nel fatto che essa accentua l’eguaglianza di genere come obiettivo - al posto di porre l’accento sulle donne come categoria speciale - ed enfatizzi il fatto che il gender mainstreaming rappresenti una strategia e sia, dunque, più di un programma di revisione delle politiche.
[17] Così C. ODORISIO, La Rivoluzione femminile, in Enciclopedia italiana. Eredità del Novecento. Appendice 2000.
[18] Quarta conferenza mondiale sulle donne delle Nazioni Unite, la Conferenza di Pechino ha affermato la necessità di spostare l’accento sul concetto di sesso, sottolineando come le relazioni uomo-donna all’interno della società, dovessero essere riconsiderate, mettendo le donne su un piano di parità con l’uomo in tutti gli aspetti dell’esistenza. L’affermazione di questo principio si è realizzato, pragmaticamente, mediante l’elaborazione di una piattaforma, la Piattaforma di Azione di Pechino, che individua dodici aree di crisi viste come i principali ostacoli al miglioramento della condizione femminile (donne e povertà; istruzione e formazione delle donne; donne e salute; la violenza contro le donne; donne e conflitti armati; donne ed economia; donne, potere e processi decisionali; meccanismi istituzionali per favorire il progresso delle donne; diritti fondamentali delle donne; donne e media; donne e ambiente; le bambine).
[19] Il concetto di empowerment, in ambito di pari opportunità, indica l’aumento del potere delle donne nel contesto economico, sociale e politico. L’empowerment femminile prevede interventi che puntano ad ottenere risultati quali: una maggiore autostima; la valorizzazione delle proprie conoscenze e competenze; lo sviluppo dell’autonomia e del potere decisionale delle donne, in famiglia, nella società o nella politica; l’accesso e la permanenza delle donne nei centri decisionali della società, della politica, dell’economia.
[20] Cfr. 95/593/CE: Decisione del Consiglio, del 22 dicembre 1995, in merito a un programma d'azione comunitaria a medio termine per le pari opportunità per le donne e gli uomini (1996-2000), http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX%3A31995D0593.
[21] Approvata a Nizza nel 2000 e dotata del medesimo valore giuridico dei trattati dal 2009, anno in cui è entrato in vigore il Trattato di Lisbona, che all’art.6 la incorpora nel TUE (Trattato dell’Unione Europea).
[22] Così R.P. LOZANO, La discriminazione positiva nell’Unione Europea ed i limiti della discriminazione positiva: carenze e debolezze delle attuali politiche di discriminazione positiva in Europa, in AA.VV., Verso una democrazia paritaria..., cit.
[23] Cfr. Raccomandazione del Consiglio 84/635/CEE sulla promozione di azioni positive a favore delle donne, 13 dicembre 1984, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:31984H0635:IT:HTML.
[24] Ad esempio, negli aspetti di cui dovrebbero occuparsi le azioni positive, la Raccomandazione ricomprende la partecipazione attiva delle donne agli organi decisionali, compresi quelli che rappresentano i lavoratori, i datori di lavoro e gli indipendenti. Come ipotetica modalità d'attuazione viene, invece, indicato il permettere ai comitati e agli organismi nazionali per la parità delle possibilità di fornire un importante contributo alla promozione di tali misure. Ciò presuppone che tali comitati ed organismi siano dotati di adeguati mezzi d’azione.
[25] Il sig. Kalanke, ritenendo discriminatoria la legge che regolamentava la funzione pubblica del Land di Brema, impugnò la nomina di una collega, affermando che questa fosse stata favorita dal regime di quote, nonostante egli avesse più titoli. Il tribunale del lavoro tedesco, investito dal ricorso, lo azionò dinnanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee.
[26] Cfr. Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 17 ottobre 1995, CAUSA C-450/93, http://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf?text=&docid=99475&pageIndex=0&doclang=IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid= 1279909.
[27] Il sig. Marschall, professore di ruolo nel Land di Nord-Reno Westfalia, dopo aver presentato la sua candidatura per un posto immediatamente superiore, viene informato dall'organismo pubblico competente che la posizione sarebbe stata attribuita ad una candidata - avente le stesse qualifiche di Marschall - in linea con la normativa nazionale.
[28] Cfr. Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee dell'11 novembre 1997, CAUSA C-406/95 http://unica2.unica.it/giurisprudenza/dispense/loi/marschall.pdf.
[29] Cfr. Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 28 marzo 2000, CAUSA C-158/97, http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A61997CJ0158.
[30] Si fa riferimento alla sentenza Abrahamsson, in cui la CGCE ridimensiona la c.d. clausola aperta introdotta nella sentenza Marshall, non ammettendo quelle situazioni in cui si dia preferenza al candidato del sesso sottorappresentato, con meriti inferiori, anche se in possesso di qualifiche sufficienti. Cfr. Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (V Sezione) del 6 luglio 2000, CAUSA C-407/98, http://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf;jsessionid=9ea7d2dc30dd42f7fec939e246088eab b1287e9a4ec1.e34KaxiLc3qMb40Rch0SaxuPaxv0?docid=45065&pageIndex=0&doclang=IT&dir=&occ=first&part=1&cid=528345.
Riferimenti bibliografici
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