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L’ORDINE EUROPEO DI INDAGINE PENALE NUOVO STRUMENTO DI  COOPERAZIONE TRA STATI BASATO SUL PRINCIPIO DEL MUTUO RICONOSCIMENTO.

Autore: Avv. Teresa Aloi

 

Con la Direttiva 2014/41/UE del 3 aprile 2014, relativa all’Ordine europeo di indagine penale (OEI), le istituzioni europee hanno elaborato uno strumento che, ispirandosi al “principio del mutuo riconoscimento”, ha come obiettivo di realizzare un “sistema globale di acquisizione delle prove nelle fattispecie aventi dimensione transfrontaliera”, tale da sostituire tutti gli strumenti del settore e da potersi utilizzare per tutti i tipi di prova, con precise modalità di esecuzione e con circoscritti motivi di rifiuto.

A fronte della perdurante assenza di organi dotati di poteri investigativi sovranazionali (l’istituzione della procura europea è ancora in fase di gestazione) la direttrice di fondo del nuovo strumento è sempre quella della cooperazione orizzontale.

A partire dalla fine degli anni 90, in concomitanza con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam (firmato il 2 ottobre 1997 dagli allora 15 Paesi dell’Unione europea ed entrato in vigore il 1 maggio 1999) che ha fissato l’obiettivo di realizzare uno “spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia”, la generica linea di indirizzo programmatico si è progressivamente trasformata nel fondamento su cui edificare tutta la legislazione dell’Unione in materia di giustizia, determinando, così, un radicale processo di modifica degli istituti di cooperazione giudiziaria.  

Proiettato nell’ambito della circolazione della prova, il principio del mutuo riconoscimento comporta, in particolare, che le prove legalmente raccolte dalle autorità di uno Stato membro, debbano essere ammissibili davanti ai Tribunali degli altri Stati membri, tenuto conto delle norme in essi applicabili. In altri termini, la prova, anche se formata in un altro Stato,  caratterizzato da un sistema processuale diverso, è suscettibile di essere ammessa ed utilizzata dalle autorità giudiziarie di ciascuno dei Paesi membri, ai fini della decisione.

Si tratta di un principio destinato ad avere un impatto dirompente, soprattutto nella repressione della criminalità avente dimensione transfrontaliera, rispetto alla quale si rivelano del tutto inadeguati i tradizionali strumenti di cooperazione e collaborazione tra i diversi Stati dell’Unione.

La disciplina dell’OEI è entrata in vigore il 22 maggio 2017, ma non tutti gli Stati hanno rispettato i termini di recepimento. Dall’analisi della Commissione europea risulta che solo Belgio e Francia hanno recepito in tempo la Direttiva.

L’Italia vi ha provveduto con il D.Lgs 21 giugno 2017, n. 108, sancendo la piena operatività del nuovo strumento elaborato dall’Unione europea.

L’introduzione nel nostro sistema dell’Ordine europeo di indagine penale non ha eliminato lo strumento delle rogatorie nella raccolta transnazionale delle prove nell’ambito dell’Unione. Esse, infatti, restano in vigore nei rapporti tra l’Italia e gli Stati dell’Unione che non hanno aderito alla Direttiva (Danimarca e Irlanda) e nei rapporti tra l’Italia e gli Stati che non appartengono all’Unione, come l’Islanda e la Norvegia; il Regno Unito, invece, ha deciso di aderirvi.

La Direttiva 2014/41/UE sostituisce i regimi di assistenza giudiziaria dell’Unione europea per la raccolta delle prove, in particolare, le corrispondenti previsioni della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 1990, della Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, la Decisione-quadro 2003/577/GAI del 22 luglio 2003 con la quale si attribuiva immediato e reciproco riconoscimento ai provvedimenti di “blocco dei beni o di sequestro probatorio” al fine di impedire “attività di distruzione, trasformazione, spostamento, trasferimento o alienazione di prove”  e  la successiva Decisione-quadro 2008/978/GAI del 18 dicembre 2008 che sul modello del mandato di arresto europeo (MAE) delineava un “mandato europeo di ricerca delle prove” (MER), teso ad ottenere da uno Stato membro “oggetti, documenti e dati” allo scopo di utilizzarli nel procedimento penale instaurato in un diverso Paese.

Ha compromesso l’efficienza del primo strumento (MAE), comportandone uno scarso utilizzo nella pratica, la procedura in due fasi, secondo cui il provvedimento di blocco o di sequestro avrebbe dovuto essere accompagnato da una ulteriore e diversa richiesta di trasferimento della prova nello Stato richiedente, in conformità alle norme applicabili all’assistenza giudiziaria in materia penale. Il MER, invece, ha avuto un’applicazione limitata perché risultava circoscritto solo alle prove “costituende” (quali, ad esempio, le prove dichiarative, le intercettazioni di comunicazioni, il controllo dei conti bancari), con la conseguenza di un quadro normativo complesso e frammentario. La Direttiva  pone, così, fine alla frammentarietà dell’attuale sistema giuridico in materia probatoria.

L’Ordine europeo di indagine penale consiste in una decisione giudiziaria emessa o convalidata da un’autorità competente di uno Stato membro (Stato di emissione), affinchè siano compiuti uno più atti di indagine specifici in un altro Stato membro (Stato di esecuzione), al fine dell’acquisizione di prove. Tale strumento può essere emesso anche per ottenere prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione (art.1).

Ne deriva, quindi, che l’obiettivo perseguito con l’OEI è quello di sostituire, nei rapporti tra gli Stati membri, gli attuali strumenti di cooperazione in materia di ricerca e di acquisizione della prova, con un nuovo e più agile modello a carattere “orizzontale”, applicabile a qualsiasi atto di indagine penale, fatta eccezione solo per il materiale raccolto dalle squadre investigative comuni (art. 3).

L’Ordine deve essere emesso da un organo giurisdizionale o da un magistrato inquirente, oppure deve essere convalidato da quest’ultimi, prima della trasmissione all’autorità di esecuzione, qualora sia disposto da un’altra autorità (art.2).

L’Ordine è trasmesso con “ogni mezzo” che consenta di conservare una traccia scritta e che permetta allo Stato di esecuzione di stabilirne l’autenticità (art.7). Per la trasmissione della richiesta è possibile avvalersi della rete giudiziaria europea, Eurojust, Europol o di altri canali. Qualsiasi ulteriore comunicazione ufficiale è effettuata direttamente tra l’autorità di emissione e l’autorità di esecuzione, che sono pure tenute a risolvere, attraverso contatti diretti, qualsiasi problematica relativa alla trasmissione o all’esecuzione dell’OEI. L’art. 6 della Direttiva subordina l’emissione del nuovo strumento probatorio al rispetto delle regole nazionali applicabili in un caso interno analogo (tale prescrizione è diretta ad evitare che l’OEI sia impiegato quale mezzo di elusione degli eventuali requisiti di ammissibilità degli atti istruttori richiesti dal diritto nazionale: si pensi, per quanto concerne le intercettazioni,  alla necessità che l’atto sia autorizzato da un giudice, che il procedimento riguardi determinati reati e che sussista un certo quantum probatorio) e prevede che, incombe sullo Stato richiedente un preliminare vaglio in ordine alla necessità dell’attività richiesta ai fini del procedimento ed alla proporzionalità della stessa in relazione allo scopo al quale è preordinata.

Il richiamo alla proporzionalità assume un significato che va oltre il semplice rapporto tra mezzi e fini, alludendo, piuttosto, ad un sindacato ampio e complesso, nella prospettiva di garantire la minore lesione possibile dei diritti fondamentali. Tale verifica non è circoscritta al solo momento dell’emissione dell’Ordine di indagine ma si estende anche a quello della sua esecuzione, come confermato dall’art. 10, par. 3, il quale statuisce che spetta pure allo Stato in cui la prova deve essere acquisita verificare la possibilità di raccogliere le informazioni richieste attraverso operazioni meno invasive per i diritti individuali. Si instaura, così, un controllo frazionato e congiunto sulla proporzionalità, rafforzato dalla possibilità di un confronto tra lo Stato di esecuzione e quello di emissione, all’esito del quale lo Stato richiedente può anche decidere di desistere dalla propria iniziativa.

I controlli governativi sono opzionali, nel senso che spetta a ciascuno Stato decidere se affiancare l’autorità giudiziaria da un organo politico. L’autorità di esecuzione non è tenuta ad attuare immediatamente l’OEI  ma deve sottoporlo ad una serie di controlli che possono portarla anche a rinviarne o, addirittura, a rifiutarne l’esecuzione.

Questo a dimostrazione del fatto che la Direttiva  2014/41/UE  non ha recepito integralmente il principio del mutuo riconoscimento, il quale esigerebbe che ciascuno Stato adottasse in modo automatico i provvedimenti degli altri Stati. Essa ha, piuttosto, accolto un’impostazione che, pur ispirandosi al principio del riconoscimento reciproco, tenga conto altresì della flessibilità del sistema tradizionale di assistenza giudiziaria (Considerando 6 Dir. OEI).

L’aspetto innovativo che introduce l’Ordine europeo di indagine rispetto agli strumenti precedenti è rappresentato dalla previsione secondo cui l’emissione di un OEI può essere richiesta anche dalla persona sottoposta ad indagine o dall’imputato, nonché dal difensore di quest’ultimi, nel quadro dei diritti della difesa applicabili conformemente al diritto ed alla procedura penale nazionale (art. 1, par. 3).

Nella procedura diretta ad acquisire la prova deve essere, in ogni caso, assicurata la riservatezza dell’indagine (art. 19) ed il rispetto dei diritti fondamentali e dei principi sanciti dall’art. 6 TUE, compresi i diritti della difesa delle persone sottoposte a procedimento penale.

Gli Stati membri devono, inoltre, garantire, ad ogni soggetto interessato la facoltà di attivare nei confronti dell’OEI gli stessi mezzi di impugnazione disponibili nella legislazione nazionale avverso un atto di indagine analogo a quello richiesto. Le ragioni attinenti il merito dell’OEI possono, tuttavia, essere fatte valere solo attraverso un’impugnazione presentata nello Stato di emissione, fatte salve le garanzie dei diritti fondamentali nello Stato di esecuzione.

Sono previste disposizioni particolari per certi tipi di indagine che richiedono il trasferimento temporaneo di persone detenute, l’audizione mediante videoconferenza o teleconferenza, l’acquisizione di informazioni su conti bancari o operazioni bancarie, le consegne controllate o le operazioni di infiltrazione (artt. 22-29).

E’ possibile ricorrere al nuovo strumento anche per le operazioni di intercettazione di comunicazioni. In tal caso l’OEI deve contenere: 1) informazioni necessarie ai fini dell’identificazione della persona sottoposta all’intercettazione; 2) la durata auspicata dell’intercettazione; 3) sufficienti dati tecnici, in particolare gli elementi di identificazione dell’obiettivo, per assicurare che l’OEI possa essere eseguito.

Si precisa che lo Stato di esecuzione deve sopportare tutti i costi sostenuti nel proprio territorio connessi all’esecuzione dell’OEI. Solo nel caso in cui ritenga che tali costi siano eccezionalmente elevati l’autorità di esecuzione può consultare l’autorità di emissione sulla possibilità e le modalità di condivisione delle spese o di modifica dell’OEI.

In sintesi l’Ordine europeo di indagine apporta i seguenti vantaggi: - crea un unico strumento globale di ampia portata, sostituirà, infatti, l’attuale quadro giuridico frammentato in tema di acquisizione delle prove. Per gli Stati membri partecipanti coprirà l’intero iter di raccolta delle prove, dal sequestro probatorio al trasferimento delle prove esistenti; - fissa termini rigorosi per l’acquisizione delle prove richieste: gli Stati membri hanno fino a 30 giorni per decidere se accettare una richiesta. Se la accettano, hanno 90 giorni di tempo per effettuare l’atto di indagine richiesto. Eventuali ritardi dovranno essere segnalati allo Stato che ha emesso l’OEI; - limita i motivi di rifiuto delle richieste. L’autorità ricevente può rifiutare di eseguire un OEI solo in determinate circostanze, per esempio, se la richiesta è in conflitto con i principi fondamentali del diritto dello Stato di esecuzione o lede gli interessi di sicurezza nazionale; - riduce la burocrazia introducendo un unico modulo standard tradotto nella lingua ufficiale dello Stato di esecuzione che permette alle autorità di chiedere aiuto nella ricerca di prove; - tutela i diritti fondamentali della difesa. L’autorità di emissione deve valutare la necessità e la proporzionalità dell’atto di indagine richiesto.

Nonostante l’importanza del nuovo strumento investigativo europeo di cooperazione giudiziaria, secondo alcuni autori, la Direttiva 2014/41/UE presenta profili di criticità.

Innanzitutto, essa sembra  trascurare completamente le implicazioni legate alle differenze tra i diversi ordinamenti nazionali, con riferimento al regime di utilizzabilità dei dati conoscitivi raccolti altrove, assunti cioè, fuori dalla sede processuale in cui saranno valutati per la decisione. L’efficacia di una collaborazione interstatuale per la traslazione di materiale probatorio dipende non soltanto dalla possibilità di assicurare un apporto collaborativo entro tempi ragionevolmente brevi, ma anche e soprattutto dal fatto di trasmettere materiale suscettibile di utilizzazione nel Paese richiedente. A nulla servirebbe, infatti, assicurare il trasferimento del dato probatorio se poi questo non potesse essere utilizzato nel processo di destinazione.

La realizzazione dell’obiettivo di libera circolazione della prova si fonda, prioritariamente, sulla reciproca fiducia tra gli Stati dell’Unione, tanto che, proprio facendo leva su un clima di fiducia reciproca, la Corte Suprema spagnola, già nel 1995 (decisione del 19 gennaio 1995 – STS 13/1995), aveva statuito l’ammissibilità delle prove formate all’estero secondo la procedura di esecuzione, precorrendo, di fatto, gli strumenti del mutuo riconoscimento. Anche in Italia, la giurisprudenza di legittimità[1] ha avuto modo di sostenere, ben prima dell’affermazione del principio in esame a livello europeo, che l’adesione agli atti internazionali comporta l’implicito riconoscimento della diversità dei singoli ordinamenti e l’impegno a riconoscere gli atti compiuti secondo i diversi sistemi, in armonia con il principio di prevalenza delle norme pattizie ( Convenzione europea di assistenza giudiziaria firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959 e dalle altre norme delle Convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dalle norme di diritto internazionale generale) su quelle interne, riconosciuto dall’art . 696  c.p.p..  Nelle  ipotesi richiamate, dunque, a dare concreto impulso al mutuo riconoscimento è stata la fiducia ed il naturale pragmatismo dei giudici nazionali piuttosto che l’adesione di quest’ultimi ad obblighi imposti a livello comunitario.

E’ evidente che, la creazione di un sistema basato sulla fiducia reciproca tra i diversi Stati dell’Unione presume che le varie culture giudiziarie condividano lo stesso percorso evolutivo democratico diretto al rispetto dei diritti fondamentali. Solo la condivisione, tra i diversi ordinamenti,  di uno standard tendenzialmente uniforme di garanzie può certificare la genuinità e l’affidabilità del dato probatorio necessarie ai fini della trasmigrazione ed utilizzazione dello stesso in un diverso ordinamento.

In questo senso, occorre riconoscere i passi avanti compiuti nella creazione di uno  Statuto europeo delle garanzie individuali, attuato, in particolare, attraverso l’approvazione di Direttive  volte a stabilire, tra l’altro, norme minime in materia di diritti sia dell’imputato, sia della vittima nel processo penale[2].

In un sistema comunitario caratterizzato da una profonda disomogeneità tra diverse legislazioni, ispirate a modelli processuali tra loro molto diversi, l’instaurazione di un clima di reciproca fiducia, anche se rafforzato da una progressiva armonizzazione delle garanzie, può risultare condizione necessaria, ma non sufficiente ai fini del reciproco riconoscimento in ambito probatorio, potendo il “trapianto” della prova straniera provocare eventuali “crisi di rigetto” se non accompagnato anche da una preventiva armonizzazione almeno di un nucleo minimo di regole probatorie dirette a disciplinare l’ammissione e la conseguente utilizzazione della prova stessa.

Proprio nella prospettiva di una preventiva armonizzazione si colloca il Trattato di Lisbona (firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007, istituisce la Comunità europea) dove, all’art. 82, par. 1, lett. a), (al fine di facilitare il riconoscimento delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria nelle materie aventi dimensione transnazionale, il Parlamento europeo ed il Consiglio possano adottare norme minime finalizzate a disciplinare, tra l’altro, l’ammissibilità reciproca delle prove tra gli Stati membri), la Direttiva 2014/41/UE trova la sua base normativa.

La creazione di un nuovo strumento probatorio, l’OEI, fondato sul principio del mutuo riconoscimento, non è stata accompagnata da una contestuale armonizzazione delle regole di acquisizione e di utilizzazione delle prove, con l’adozione di norme comuni. La prova, per circolare, deve essere compatibile non solo con le norme del Paese in cui viene raccolta, ma anche con i principi del Paese in cui viene utilizzata ai fini della decisione. Non sarebbe ammissibile una prova che pur essendo illegittima diventa utilizzabile solo perché è definita come “europea”.

La Direttiva si disinteressa del regime di utilizzabilità delle prove raccolte con l’OEI. L’unico divieto probatorio esplicitamente previsto è rinvenibile nell’art. 31, par. 3, lett. b), il quale prevede che l’intercettazione di comunicazioni è inutilizzabile o è utilizzabile solo a determinate condizioni, se sia stata ottenuta in un terzo Stato membro in cui l’intercettazione non è ammessa in un caso interno analogo. Si tratta di una forma di inutilizzabilità circoscritta ad una fattispecie precisa la quale suppone che l’intercettazione sia stata regolarmente autorizzata dall’autorità competente di uno Stato membro (Stato di intercettazione), ma la persona da intercettare si trovi sul territorio di un terzo Stato membro (Stato notificato), per il quale l’intercettazione è preclusa in un caso interno simile. Il richiamato art. 31, par. 3, lett. b) prevede l’unica figura sanzionatoria espressamente prevista non solo all’interno della Direttiva sull’Ordine europeo di indagine penale, ma anche nell’ambito delle altre diverse Direttive approvate nel settore processuale.

Tutto questo è destinato a ripercuotersi sull’effettività dell’intero sistema di garanzie che l’Europa ha predisposto in ambito processuale. Non fosse altro perché la sanzione rappresenta il principale presidio apprestato da ogni ordinamento per tutelare gli interessi ed i valori che esso intende perseguire.

Le disposizioni contenute nella Direttiva  2014/41/UE hanno determinato una vera e propria metamorfosi del diritto delle prove, sostituendo le regole che presidiavano la circolazione transnazionale di materiale probatorio, tradizionalmente scandite dalla lex fori o dalla lex loci, in “norme a struttura aperta” in cui si postula genericamente il rispetto delle formalità e delle procedure indicate dall’autorità di emissione, dei principi dell’ordinamento dello Stato di esecuzione e dei diritti fondamentali delle prove. Così, in assenza di modelli probatori tipizzati cui attenersi nell’acquisizione dell’atto investigativo e di divieti probatori espressi, diventa difficile, sia in sede legislativa, sia in sede interpretativa, apprestare gli opportuni rimedi sanzionatori.

Regole e sanzioni costituiscono un binomio inscindibile. Solo il formalismo della regola tipizzata consente l’individuazione del rimedio applicabile in caso di sua violazione; per altro verso, proprio la sanzione rappresenta l’elemento che qualifica il carattere inderogabile e cogente della regola, la quale in assenza della stessa si risolverebbe in una semplice raccomandazione ed in quanto tale, sempre derogabile in sede applicativa.

Pertanto, ogni tentativo di rafforzare diritti e garanzie si rivelerebbe mera apparenza se non accompagnata da un adeguato sistema sanzionatorio che ne garantisca l’effettività.

Sotto altro profilo, la Direttiva 2014/41/UE, pur richiamando genericamente il rispetto dei diritti e dei principi stabiliti dall’art. 6 TUE, non prevede un’adeguata tutela delle prerogative della persona sottoposta alle indagini, con un conseguente sbilanciamento a favore dei poteri delle autorità inquirenti, ma a detrimento delle garanzie difensive.

Dai trentanove articoli che compongono la Direttiva non deriva un’unificazione e neppure una compiuta armonizzazione delle legislazioni, inoltre, sono del tutto trascurati i poteri della difesa, soprattutto con riguardo alle facoltà di accedere agli atti del procedimento e di partecipare alle operazioni istruttorie.

Il mero rinvio (operato dal considerando n.15) alle tre Direttive sulle garanzie processuali dell’indagato o dell’imputato (Direttiva 2010/64/UE del 20 ottobre 2010 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali; Direttiva 2012/13/UE del 22 maggio 2012 sul diritto all’informazione nei procedimenti penali; Direttiva 2013/48/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2013, relativa al diritto di avvalersi di un  difensore) non sembra sufficiente, in mancanza della previsione di specifiche modalità di esercizio di tali diritti con preciso riferimento alla procedura relativa all’Ordine europeo di indagine penale; si pensi, ad esempio, alla necessità di stabilire peculiari meccanismi informativi circa l’emissione e l’esecuzione di un OEI anche per l’indagato, secondo quanto previsto dalla Direttiva  2012/13/UE e non soltanto un’informazione circoscritta al “dialogo” tra le autorità di emissione e di esecuzione.

L’esecuzione dell’OEI, subordinata ad una serie di controlli, è soggetta alla verifica dell’assenza di uno dei motivi di rifiuto previsti dall’art. 11 della Direttiva 2014/41/UE, fra i quali emerge quello imperniato sull’incompatibilità con “gli obblighi dello Stato di esecuzione ai sensi dell’art. 6 TUE”, vale a dire il dovere di osservare i diritti fondamentali degli individui garantiti dalla Carta di Nizza, dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, ribadito anche dall’art. 1, par. 4 della Direttiva. Il concetto di “diritto fondamentale” è, chiaramente, ambiguo. L’effettivo contenuto di ciascun diritto dipende dall’esito del bilanciamento con i valori contrapposti e sotto questo profilo le indicazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle Corti costituzionali nazionali sono spesso divergenti se non addirittura contraddittorie.

E’ possibile individuare un unico punto fermo: non è possibile andare al di sotto degli standard di attuazione dei diritti rinvenibili nel case-law della Corte europea. Lo si evince dall’art. 52, par. 3, della Carta di Nizza, ai sensi del quale il “significato” e la “portata” dei diritti richiamati dalla legislazione dell’Unione devono essere “uguali” a quelli conferiti dalla CEDU. Così facendo, però, rischiano di originarsi molte incertezze in tutte quelle situazioni in cui gli ordinamenti nazionali statuiscono standard di tutela dei diritti di livello superiore.

Non va, infatti, trascurato che, sia pure in un altro settore, la Corte di giustizia, nel caso Melloni (26 febbraio 2013, C-399/11, relativo alla consegna di una persona condannata in absentia a seguito dell’emissione di un mandato di arresto europeo), non ha esitato a sacrificare le più garantistiche regole previste dall’ordinamento spagnolo nel nome dell’obiettivo dell’ ”effettività” del diritto dell’Unione.

Valga anche l’esempio dell’esame incrociato che, nella giurisprudenza dei giudici di Strasburgo, si trasforma nell’“occasione adeguata e sufficiente” di rivolgere domande al dichiarante anche in una fase successiva del procedimento, a sua volta surrogabile dal divieto di fondare “in modo esclusivo o determinante” la condanna su dichiarazioni raccolte in assenza della difesa.

Un sistema così delineato potrebbe nascondere il grave pericolo di una raccolta transnazionale delle prove incapace di assicurare il giusto equilibrio tra i valori in gioco. Si tratta di un sistema in cui, come avviene, più in generale, in tutti i settori in cui l’Unione vanta competenze normative, gli ordinamenti nazionali sono costretti ad una cessione della loro sovranità ed il formante giurisprudenziale assume un ruolo decisivo, divenendo il minimo comun denominatore. Le autorità nazionali saranno chiamate ad utilizzare gli Ordini europei di indagine penale essenzialmente sulla base degli imput offerti dalla Corte di giustizia, organo geneticamente diretto alla protezione dei diritti fondamentali non in sé considerati, ma nell’ottica della realizzazione degli obiettivi dell’Unione, perseguiti attraverso l’impiego dello strumento ermeneutico dell’interpretazione teleologica. Un organo, dunque, che potrebbe ridurre le garanzie processuali nel nome di una più rapida raccolta transnazionale delle prove.

Da qui un enorme rischio, in particolare, per quello che rappresenta il punto cardine del nostro sistema: il contraddittorio nella formazione delle prove dichiarative. Nel nostro ordinamento esso è recepito addirittura a livello costituzionale ma non trova un’analoga considerazione nella legislazione dell’Unione e neppure nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’approccio efficientistico della Corte di giustizia potrebbe favorire modalità istruttorie tali da escludere il coinvolgimento delle parti del processo instaurato nello Stato di emissione, facendo venire meno l’importante connessione che dovrebbe sussistere fra chi raccoglie le prove e chi dovrebbe enuclearne la valenza conoscitiva e, più in generale, svilendo il contraddittorio.

Il rimedio a tali poteri discrezionali della giurisprudenza attribuiti dalla Direttiva sull’OEI va individuato in uno dei principi fondanti l’intero ordinamento dell’Unione, il quale, comunque, è già da tempo praticato, a livello interno, per guidare i bilanciamenti fra la protezione dei diritti fondamentali e le esigenze connesse alla soddisfazione della pretesa punitiva: il principio di proporzionalità, che trova una previsione generale nell’art. 52, par. 1, della Carta di Nizza ed il cui rispetto è imposto dalla Direttiva sia all’autorità di emissione (art. 6, par, 1, Direttiva OEI), sia all’autorità di esecuzione (artt. 11, par. 1, lett. f) e 10, par. 3, Direttiva OEI).

Concettualmente il controllo di proporzionalità non è difficile da identificare. Esso postula che le restrizioni dei diritti fondamentali siano strettamente necessarie, privilegiando le misure meno invasive capaci di assicurare lo stesso risultato e, comunque, applicando garanzie tali da preservare il nucleo essenziale dei diritti coinvolti.

Il controllo di proporzionalità, però, non è uno strumento infallibile in quanto esso potrebbe indebolire i diritti fondamentali ponendoli sullo stesso piano di un interesse di natura collettiva quale l’efficienza della cooperazione giudiziaria. Va considerato, inoltre, l’alto tasso di discrezionalità, considerata la sua pretesa di misurare le differenze tra l’importanza di beni in realtà non suscettibili di una esatta quantificazione, con tutte le disparità di trattamento che potrebbero conseguirne.

Il principio di proporzionalità, nonostante tali limiti, offre, però, dei criteri razionali per evitare che i diritti fondamentali siano oggetto di una compressione ingiustificata, in modo da conferire la più solida scala di valori possibile a ciascun bilanciamento, scandendone i momenti costitutivi e rendendo più facile controllare le valutazioni che ne stanno a fondamento, nell’ottica del conseguimento di un’equità sostanziale nel singolo caso concreto più che di una conformità a regole formali.

Come in precedenza indicato, l’Italia ha provveduto a recepire la Direttiva 2014/41/UE con il D.lgs. 21 giugno 2017, n. 108.

Comportando non facili adattamenti tra i sistemi degli Stati di volta in volta coinvolti, l’Ordine europeo di indagine penale pone il problema generale di stabilire in che misura il suo impiego potrà pregiudicare la sopravvivenza delle regole italiane relative all’ammissibilità, alla raccolta ed all’utilizzazione delle prove.

Tali regole non prevedono vuoti formalismi ma sono state concepite per la tutela di valori fondamentali bilanciando l’esigenza del corretto accertamento dei fatti con le garanzie che spettano all’accusato ed alle altre persone coinvolte nei processi penali.

E’ chiaro che una risposta al problema potrà essere fornita solo quando l’OEI comincerà ad essere applicato. Nonostante ciò, qualche osservazione è già stata formulata sulla base del testo del Decreto.

Il Decreto n. 108 è articolato in diverse sezioni per disciplinare la procedura passiva in cui l’Italia opera come Stato di esecuzione e quella attiva, con le richieste che, invece, partono dall’Italia. Esso, nel complesso, risulta abbastanza fedele alla Direttiva europea ma presenta, secondo alcuni autori, aspetti criticabili che, comunque, appaiono superabili in via ermeneutica. Il primo aspetto riguarda le regole di ammissibilità delle prove, cioè le forme che fissano i requisiti che attengono all’an delle operazioni istruttorie, come la necessità dell’autorizzazione da parte di un giudice o di un pubblico ministero, la presenza di una base fattuale e l’attinenza del procedimento a reati di una certa gravità. Presupposti del genere sono tipicamente previsti dai legislatori nazionali in rapporto agli atti probatori che hanno delle ripercussioni su diritti fondamentali, si pensi, ad esempio, alle perquisizioni ed ai conseguenti sequestri o alle intercettazioni di comunicazioni, capaci di interferire con il diritto alla riservatezza oppure ai prelievi biologici coattivi, suscettibili di riflettersi sul diritto alla libertà personale.

Se dalla Direttiva 2014/41/UE emerge la necessità di salvaguardare le regole di ammissibilità delle prove operanti sia nello Stato di emissione sia in quello di esecuzione (criterio della “doppia legalità” nazionale), non sempre altrettanto chiaro appare il Decreto n. 108/2017.

Quanto al rispetto delle regole di ammissibilità dello Stato di emissione, l’art. 6, par. 1, della Direttiva è chiaro: l’OEI può venire disposto solo quando l’atto istruttorio avrebbe potuto essere emesso “alle stesse condizioni in un caso interno analogo”. Lo stesso non può dirsi per il Decreto.

L’art. 127 dello stesso non riproduce la stessa dizione della Direttiva in rapporto agli ordini di matrice italiana,  esso si limita a prescrivere che l’Ordine europeo di indagine può essere emesso dal P.M. o dal giudice “nell’ambito delle rispettive attribuzioni” senza richiedere l’osservanza di altri requisiti di ammissibilità previsti dal nostro sistema.

Riguardo, per esempio, alle intercettazioni relative a dispositivi o sistemi informatici che si trovino all’estero, gli artt. 43 e 44 indicano unicamente il P.M. quale organo competente all’emissione dell’OEI, trascurando il fatto che l’art. 267 c.p.p. postula, a livello interno, l’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari. Né vi è un richiamo alle ulteriori condizioni di ammissibilità delle intercettazioni previste dalla legge italiana. Inoltre, l’art. 14, par. 2, della Direttiva prevede la possibilità di contestare “le ragioni di merito dell’emissione dell’OEI” tramite un’impugnazione da proporre nello Stato di emissione.

L’art. 28 del decreto ha concretizzato tale prerogativa nella facoltà di contestare il sequestro disposto con l’OEI attraverso il riesame ex art. 324 c.p.p.. Tale prescrizione non fa altro che formalizzare l’indirizzo giurisprudenziale rinvenibile nella sentenza Monnier delle Sezioni Unite, ai sensi del quale il sequestro disposto all’estero presupporrebbe un provvedimento implicito di sequestro interno[3].

Tuttavia, tale impugnazione potrebbe non essere facile nelle situazioni in cui, come spesso accade con le rogatorie, il titolare del bene sequestrato si trovasse nello Stato di esecuzione (si pensi alle conseguenti difficoltà logistiche ed alle spese). Da qui la necessità di comprendere se sia consentito estendere l’area operativa dei rimedi esperibili in base alla lex loci , non confinandoli alle sole questioni che attengono allo svolgimento delle operazioni istruttorie.

Un appiglio in questa direzione è rinvenibile nella circostanza che la perentorietà della prima parte dell’art. 14, par. 2, della Direttiva trova un’attenuazione nella seconda parte, “fatte salve le garanzie dei diritti fondamentali nello Stato di esecuzione”.

Una previsione non diversa emerge dall’art. 13 del Decreto, il quale nell’introdurre un’inedita opposizione di fronte al giudice per le indagini preliminari nei confronti del procedimento di riconoscimento dell’OEI emesso dall’autorità di esecuzione italiana, precisa che la delibazione va annullata “se ricorrono i motivi di rifiuto” dell’esecuzione (comma 5), situazioni tra le quali emerge, in particolare, la violazione dei diritti fondamentali (art. 11, par.1, lett. f) della Direttiva e art.10, comma lett. e) del decreto).

Ebbene, se si tiene conto del fatto che il dovere di rispettare i diritti fondamentali comporta l’applicazione dei requisiti di ammissibilità degli atti istruttori di natura coercitiva, è consentito ritenere che di fronte al giudice per le indagini preliminari sia possibile contestare non solo le modalità di esecuzione, ma anche i presupposti di merito del sequestro. Questo, peraltro, non sarebbe possibile senza la disclosure  degli atti del procedimento straniero a favore della difesa. Quest’ultimo diritto, pur non espressamente contemplato, è suscettibile di trovare un appoggio normativo negli obblighi di informazione imposti all’autorità di emissione e di esecuzione dall’art. 14, par. 3, della Direttiva affinchè le impugnazioni “possano essere utilizzate efficacemente”. Un adempimento che non rischia di pregiudicare le attività istruttorie, considerato che l’impugnazione non sospende l’esecuzione dell’OEI (art. 14, par. 7 della Direttiva e art. 13, comma 4, del Decreto)

Per quanto riguarda le regole nazionali che disciplinano le modalità di raccolta delle prove (ossia quelle che attengono al quomodo delle operazioni istruttorie), ad esempio, quelle relative alla partecipazione del difensore alle perquisizioni, oppure all’adozione della tecnica dell’esame incrociato nell’assunzione delle prove dichiarative, è la stessa Direttiva ad essere ambigua.

La norma principale in materia è rinvenibile nell’art. 9, par. 2, fedelmente trasposta dagli artt. 4, comma 2, e 5, comma 3, del Decreto, ai sensi della quale l’autorità di esecuzione deve attenersi alle “formalità” ed alle “procedure” espressamente indicate dall’autorità di emissione, salvo che queste ultime siano in conflitto con i principi fondamentali del diritto dello Stato di esecuzione.

Tutto ruota sul concetto di “principio fondamentale”, nel quale, di sicuro, vi rientra il rispetto della libertà morale delle persone che partecipano al processo. Più incerto se il concetto ricomprenda anche la necessità di osservare le garanzie difensive ed il metodo dell’esame incrociato. Nello stesso tempo, è una prescrizione che lascia all’autorità di emissione la massima discrezionalità in ordine alle modalità istruttorie da indicare nell’OEI. L’interpretazione migliore che se ne può fornire è quella in base alla quale l’autorità di emissione dovrebbe domandare all’autorità di esecuzione di adottare le modalità previste, a pena di inutilizzabilità, dalla lex fori. Così intesa, però, la prescrizione rimane priva di autosufficienza; le sue implicazioni dipendono dal tenore delle regole di esclusione delle prove raccolte all’estero previste dall’ordinamento dello Stato di emissione.

L’art. 36 del Decreto 108/2017, sotto questo profilo, appare deludente. Esso, innanzitutto, estende alle prove acquisite con l’OEI le regole previste dall’art. 431 c.p.p. in rapporto alle prove acquisite con le rogatorie: sono utilizzabili i documenti ed i verbali degli atti non ripetibili, nonché i verbali degli atti ripetibili rispetto ai quali “i difensori sono stati posti in grado di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana”.

Il pericolo, secondo alcuni autori, è che si replichino le prassi interpretative già adottate dalla giurisprudenza nei confronti delle rogatorie, le quali, in un atteggiamento di deferenza rispetto alla lex loci, affievoliscono la protezione delle garanzie, in genere di quelle difensive, previste dal nostro ordinamento per i casi nazionali analoghi. Basta pensare, in particolare, alla sentenza Mills, con cui le Sezioni Unite hanno affermato che le prove raccolte all’estero sono inutilizzabili solo quando sono assunte attraverso modalità in contrasto “con norme inderogabili di ordine pubblico e buon costume”, che però “non si identificano necessariamente con il complesso delle regole dettate dal codice di rito e, in particolare, con quelle relative all’esercizio dei diritti della difesa”[4].

L’art. 36 del Decreto, inoltre, estende alle prove acquisite con l’OEI la prescrizione dell’art. 512 bis c.p.p., il quale prevede l’utilizzabilità delle dichiarazioni raccolte nel corso delle indagini rese dalle persone residenti all’estero, qualora l’esame in dibattimento risulti impossibile. Questo, stando a quanto statuito dalla sentenza De Francesco delle Sezioni Unite in rapporto alle rogatorie, ne legittimerebbe l’impiego anche a fronte del solo rifiuto immotivato dell’autorità straniera di consentire all’autorità italiana di partecipare all’audizione del dichiarante (c.d. concelebrazione)[5].

Questa interpretazione recessiva troverebbe conferma nell’art. 29 del Decreto, ai sensi del quale la raccolta concelebrata della prova potrebbe avvenire “previo accordo” con l’autorità straniera, consegnando a quest’ultima un potere di veto. Secondo alcuni autori, sarebbe stato preferibile adottare la diversa formulazione della norma contenuta nell’art. 9, par. 4, della Direttiva, secondo cui l’autorità di esecuzione potrebbe rifiutare la concelebrazione nella misura in cui confliggesse con i principi fondamentali del proprio diritto.

Non è da sottovalutare, pertanto, il rischio che si ripropongano le stesse dinamiche delle rogatorie. Tale esito perpetuerebbe lo status quo della raccolta transnazionale delle prove, tendenzialmente imperniato sull’adattamento alla lex loci.

Per evitare questo sarebbe indispensabile valorizzare quello che rappresenta uno dei tratti più caratterizzanti della nuova disciplina eurounitaria, cioè il principio di proporzionalità, la cui osservanza è imposta dalla Direttiva tanto all’autorità di emissione (art. 6, par. 1) quanto a quella di esecuzione (art. 11, par. 1, lett. f) e art. 10, par. 3). Tale principio discende, più in generale, dall’art. 52, par. 1, della Carta di Nizza, è riconosciuto dalla stessa Corte di giustizia dell’Unione europea[6] ed è, infine, previsto dall’art. 7 dello stesso Decreto 108/2017. Quest’ultimo ne indica la dimensione applicativa: l’OEI è da ritenere sproporzionato se dalla sua esecuzione derivi un sacrificio ai diritti fondamentali “non giustificato da esigenze investigative o probatorie del caso concreto, tenuto conto della gravità dei reati per i quali si procede e della pena per essi prevista”.

Ne deriva che ogni deviazione rispetto agli standard di raccolta della prova previsti dal diritto nazionale deve risultare strettamente necessaria, trovando una adeguata motivazione nelle peculiarità della singola situazione; non sarebbe, infatti, sufficiente il richiamo, frequente nelle decisioni della Corte di giustizia europea, alla formula stereotipa della “effettività” del diritto dell’Unione.

La proporzionalità serve da bussola ai fini della diagnosi delle inutilizzabilità stabilite negli artt. 431 e 512 bis c.p.p.; sarebbero, infatti, vietate le prove raccolte a seguito di una violazione del contraddittorio, del diritto di difesa e degli altri diritti fondamentali non debitamente motivata alla luce delle circostanze del caso concreto.

Pur nella consapevolezza delle molteplici difficoltà e resistenze che si frappongono alla realizzazione dell’obiettivo di realizzare un sistema generale di acquisizione delle prove nelle cause aventi dimensione transfrontaliera, basato sul principio del riconoscimento reciproco, appare corretto sostenere che solo attraverso un sistema condiviso di reciproca ammissibilità della prova, il mutuo riconoscimento può essere effettivamente ed efficacemente funzionale al miglioramento della cooperazione giudiziaria, nella prospettiva di rafforzare lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.

Da questa prospettiva occorre ribadire che il processo di ravvicinamento tra le diverse legislazioni deve necessariamente prendere le mosse dalla creazione di una piattaforma unitaria di matrice europea che contenga norme minime dirette non solo a disciplinare i criteri di ammissione della prova, ma anche a dettare un numero chiuso di regole di esclusione di determinate fonti di prova dal panorama cognitivo sottoposto alla valutazione dell’autorità giudiziaria.

 

Avv. Teresa Aloi,  Foro di Catanzaro.

 

[1] Cass. pen., sez. VI, 4 marzo 1994, Palamara. Negli stessi termini, Cass. pen., Sez. Un., 25 febbraio 2010, Mills.

[2] Direttiva 2010/64/UE sul diritto all’informazione ed alla traduzione nei processi penali; Direttiva 2012/13/UE sul diritto all’informazione nei processi penali; Direttiva 2014/43/UE sul diritto di avvalersi di un difensore nel processo penale e nel processo di esecuzione del mandato d’arresto europeo; Direttiva 2012/29/EU che istituisce norme minime in materia di diritti di assistenza e protezione delle vittime di reato.

[3] Cass., Sez. Un., 16 aprile 2003, Monnier, n. 21420.

[4] Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2010, Mills, n. 27918.

[5] Cass., Sez. Un.,25 novembre 2010, De Francesco, n. 27918.

[6] Corte di giustizia UE, 17 dicembre 2015, WebMindLicences KfT, C-419/14.

 

Fonti: www.ec/europa.eu;  www.senato.itwww.penalecontemporaneo.it

altalex.comwww.ilsole24ore.com.