A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

EDITORIALE 

IL RUOLO DEL DIRITTO PER UN'EUROPA FUORI DALLA CRISI. 

Autore: Prof. Claudio De Rose

 

 

       1.- “Per un diritto a dimensione europea”: questo fu il titolo dell’editoriale con cui Foroeuropa si presentò al pubblico della Rete col suo primo numero nell’ormai lontano 2001. Con quel titolo si intendeva porre in evidenza come si stesse sempre più accentuando il processo di sedimentazione del diritto europeo in una dimensione propria, per più versi coinvolgente quella degli ordinamenti nazionali e tendenzialmente destinata, quindi, a ridurne gli spazi di identità originaria. E si intendeva altresì rimarcare di quale e quanta utilità fosse per l’Europa l’affermarsi di un proprio diritto, per così dire sovranazionale.      

       E tanto più può esserlo oggi per aiutare l’Europa ad uscire dalla crisi attuale, in quanto non solo quel processo è continuato a espandersi, e continua a farlo nonostante i venti di crisi politica ed economica, ma può altresì affermarsi che la dimensione giuridica europea è ormai radicata nel “dna” degli ordinamenti nazionali e, quindi, in una larga parte delle regole di convivenza dei popoli europei. E lo è tanto da far apparire arduo, se non impossibile, pensare ad una teoria generale del diritto, pubblico o privato, di impronta romanistica-germanica o anglosassone che sia, la quale non tenga conto dei fondamentali del diritto comunitario, ed ora di quello europeo.

       Per dirla in termini concreti e di immediata percepibilità, a quegli stessi che in Europa pensano di dissociarsi dall’euro, o comunque ne parlano con la massima disinvoltura, non verrebbe neanche in  mente di ipotizzare un libero mercato che sia del tutto emancipato dalle regole europee sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato. E così pure, a quegli stessi che auspicano un ordinamento nazionale libero dai vincoli e dalle pedanterie della “burocrazia europea” sembrerebbe strano e incomprensibile che l’Italia, ad esempio, riscrivesse in proprio e senza alcun “europeismo” il codice dei contratti pubblici o le regole sulla tutela dei diritti del consumatore.

       Ed a ben pochi verrebbe in mente, oggi, di auspicare che i propri giudici o il proprio legislatore diano il benservito a principi-cardini dell’ordinamento europeo, come quelli di proporzionalità e di cautela o agli insegnamenti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ovvero riscrivano in proprio la tutela dei diritti umani dissociandosi dalla Convenzione europea e dalla Corte di Strasburgo. Con tutto il rispetto per le Carte costituzionali dei vari Stati membri, la sensibilità giuridica, anche dei non addetti ai lavori, avverte che oggi le stesse e le rispettive Alte Corti e Corti costituzionali non bastano più a tutelare in pieno quei principi e quei diritti.

       2.- A voler poi considerare le evenienze dell’Eurozona e, più in generale, della stato di crisi economico-finanziaria in cui tuttora versano molti Stati dell’Eurozona stessa, appare evidente che chi mal vede la posizione egemone della Germania (con quella della Francia, oggi meno evidente ma pur sempre esistente) e il correlato autoritarismo economico-finanziario della “troika”, non può non constatare che ad una tale situazione di supremazia si è pervenuti non con la forza delle armi o all’insaputa delle classi dirigenti degli altri Stati membri dell’Unione, ma col loro consenso attraverso la sottoscrizione del Trattato di Maastricht del 1992 e del successivo Trattato di Amsterdam, che ha integrato il precedente con il Patto di stabilità e crescita.

     E, quindi, attraverso l’uso, del tutto  volontario, di strumenti, del tutto pacifici, messi a disposizione degli Stati membri dal diritto europeo.

    In questo stesso numero di Foroeuropa, Enea Franza pone in evidenza che parametri tanto restrittivi come quelli introdotti dal Trattato di Maastricht “possono essere soddisfatti, e comunque a fatica, da un ristretto numero di nazioni, escludendo una parte significativa di esse”, obiettivamente impossibilitate a farlo, come può dirsi, ad esempio, per la Grecia e, in certi momenti storici, per la Spagna, il Portogallo  e per la stessa Italia.

     Ed allora perché i nostri governanti e quelli degli altri Paesi più deboli e indebitati  accettarono di far parte dell’Eurozona o Eurogruppo che dir si voglia?  Ci fu certamente un calcolo di convenienza e l’A. dianzi citato ne indica una componente essenziale nella fiducia nella stabilità monetaria e nelle sue conseguenze positive, anche se non mancarono dubbi e perplessità al riguardo, in parte poi confermate dai fatti successivi, anche recenti. Né mancò la valutazione di altri valori socio-economici, quali quelli del Mercato Unico e quelli delle politiche di coesione, che l’appartenenza all’Eurozona andava a rafforzare con vantaggi sperati per la propria produzione, per i propri commerci e per la propria occupazione, aspetti anche questi successivamente posti in discussione.

     Tradotto in termini giuridici, tutto questo significò aderire non ad un sistema di alleanze o di cooperazione tra Stati pienamente sovrani, né ad un sistema di cooperazione tra Stati, a tutela di interessi comuni e con cessioni di sovranità mirate specificamente a tali interessi, che è stato il traguardo limitato dell’ordinamento comunitario, bensì a un sistema di convivenza politica, con precise linee istituzionali e quindi con una ben definita dimensione giuridica. Che è quella della politica monetaria in un tutt’uno con la politica economica, un binomio però non perfettamente pensato e/o attuato, il che ha ben precisi effetti sulle incerte sorti dell’euro. 

Ma questa logica conseguenza non è da tutti condivisa.

    C’è, infatti, chi crede che l’insieme delle regole concernenti l’euro e i connessi poteri della BCE siano solo espressione di un’intesa politica sul piano economico-finanziario, senza un sostrato di vincoli e impegni giuridici, neanche di quelli tradizionalmente propri del diritto internazionale, a cominciare dalla regola-base “pacta sunt servanda”. L’unico collante sarebbe il calcolo di convenienza politico-economica, in nome della quale si accetta anche la supremazia di alcuni Stati membri. Ed anche di quella della c.d. troika (Banca Centrale Europea-BCE, Commissione europea e Fondo Monetario Internazionale), ma non in forza di norme cogenti la cui inosservanza produca conseguenze giuridiche, bensì in base a valutazioni di ordine meramente politico (se non addirittura partitico).

     Non si può concordare con tale opinione perché, in realtà, l’Eurozona trova una sua precisa collocazione giuridico-istituzionale nell’Unione Economica e Monetaria (UEM), la quale è appunto costituita dagli Stati che aderiscono alla moneta unica formando nel loro insieme l’Eurogruppo. L’UEM, in base alla normativa primaria che la concerne - e che, a livello di Trattato (rectius: Trattati) di Lisbona del 2007 è rappresentata dall’art.3 par.4 del Trattato sull’Unione Europea (TUE) e dagli artt.136-138 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) - costituisce un rafforzamento della politica economica e monetaria dell’Unione Europea mirata alla sua crescita (art.119 TFUE).

    Tale rafforzamento consiste nell’assoggettabilità degli Stati dell’Eurogruppo a misure di verifica del rispetto dei parametri di Maastricht più stringenti di quelle cui sono assoggettabili gli Stati non aderenti all’Euro. Questo aspetto emerge dall’art.136 TFUE citato, in base al quale, per contribuire al buon funzionamento dell’UEM, il Consiglio adotta misure concernenti gli Stati membri la cui moneta è l’euro al fine: a) di rafforzare il coordinamento e la sorveglianza della disciplina di bilancio; b) di elaborare, per quanto li riguarda, gli orientamenti di politica economica vigilando affinchè siano compatibili con quelli adottati per l’insieme dell’Unione, e garantirne la sorveglianza.

     E’ importante rilevare che nello stesso art.136 viene precisato che tali misure vengono adottate con le stesse procedure previste dagli articoli da 121 a 126 TFUE per gli Stati non aderenti, il che fa intendere che le procedure sono identiche sia per i non aderenti all’euro sia per gli aderenti, ma per questi ultimi i contenuti possono essere diversi e più specificamente restrittivi.

     La “ratio” di questa fondamentale differenza sta tutta nella maggiore vincolatività dei parametri di Maastricht per quegli Stati che vogliono beneficiare dei vantaggi connessi alla moneta unica, come conferma quanto risulta dal Protocollo sull’Eurogruppo previsto dall’art.137 TFUE e allegato col n.14 al Trattato stesso.

     In detto Protocollo si legge che gli Stati aderenti all’euro sono desiderosi di favorire le condizioni di una maggiore crescita economica dell’Unione Europea e consapevoli della necessità di prevedere disposizioni particolari per un dialogo rafforzato tra gli stessi e perciò convengono di riunirsi, a titolo informale, con i loro ministri competenti, con la Commissione e con la BCE, “per discutere questioni attinenti alle responsabilità specifiche da essi condivise in materia di moneta unica”.

     Sono concetti che fanno luce sul clima in cui si sono sinora andato maturando le condizioni giuridico-istituzionali  per adottare le misure a carico degli Stati dell’Eurogruppo, o per non adottarle, differirle, condizionarle o ridimensionarle. L’informalità, cui si ispira tale clima (e che comunque ha validità giuridica in quanto espressamente consentita da una fonte normativa, quale il Protocollo, che ha lo stesso valore delle clausole del Trattato), consente certamente maggiore sincerità nelle informazioni e maggiore duttilità nelle posizioni, e si deve a tale clima  informale se si sono determinate due innovazioni non espressamente previste dai Trattati.

    Una è l’entrata in scena di una “troika” formata da due entità aventi titolo a stare in gioco, cioè la Commissione UE e la BCE, e da una terza entità, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), del tutto estranea all’armamentario istituzionale dell’Unione Europea ma che, per la sua competenza in materia e soprattutto per la sua estesa potenzialità di conoscenza della realtà monetaria e finanziaria dei mercati globali, è stata cooptata, a quanto si sa con l’unanime consenso degli Stati dell’Eurogruppo, tanto ai fini della discussione dei problemi quanto ai fini delle misure da adottare nei riguardi degli Stati inadempienti.

     L’altra innovazione, che ha potuto generarsi in virtù del clima informale di cui al Protocollo 14, è costituita dall’instaurazione del “Fondo Salva Stati”, che certamente non rientra né nella lettera né nella logica originaria della citata normativa primaria in tema di Unione Economica e Monetaria.

    Il Fondo, però, ben può essere annoverato tra le misure intese a salvaguardare “il buon funzionamento dell’unione economica e monetaria”, cui è mirato l’art.136 TFUE, qui in commento.

    Il suo ingresso tra le misure possibili si basa sul principio di effettività, da cui hanno tratto fondamento anche altre forme evolutive di principi e di norme del diritto europeo, come messo in evidenza da questa Rivista nell’editoriale del n.1/2002, intitolato “L’Europa nasce dai fatti”.

     E che si tratti non di elargizioni a fondo perduto ma di prestiti – naturalmente a condizioni non usurarie - non appare in contrasto né con i principi generali del diritto interno e del diritto internazionale, né con la solidarietà tra gli Stati membri, che l’Unione è impegnata a promuovere ai sensi dell’art.3 TUE.  E’ evidente, infatti, che, per il successo dell’UEM e dell’euro (che nelle intenzioni del Protocollo 14 è destinata a diventare la moneta di tutti gli Stati membri dell’Unione), non è possibile perseguire il benessere di un popolo ai danni del benessere di altri popoli.

     Quindi la restituzione del prestito da parte dello Stato beneficiario ha, quantomeno, le caratteristiche di un’obbligazione naturale, cioè di quelle che traggono fondamento dal comune sentire dei popoli.

     Ed altrettanto in linea con i principi è che uno Stato beneficiario del prestito, come la Grecia, chieda un’equa dilazione della restituzione, fermo restando il computo del debito verso l’UE nel debito pubblico greco agli effetti delle regole di Maastricht.

    Queste sono le regole del gioco: certo, è possibile uscire dall’area dell’euro in qualsiasi momento, anche se ciò non è espressamente previsto nel Trattato, ma il debito resta, con i suoi effetti patrimoniali ed anche con quelli relativi alle regole di Maastricht,  qualora  lo Stato che recede dall’Euro decida però di rimanere nell’Unione Europea. Ed infatti, come accennato, dette regole valgono per tutti gli Stati membri dell’Unione e nei riguardi di quelli aderenti all’Eurozona è soltanto rafforzata, nei presupposti e nelle conseguenze, la vigilanza sul loro rispetto.

    3.- Si è voluto dedicare particolare attenzione alle evenienze giuridico-istituzionali  dell’Eurozona perché cruciali in questo momento storico e perché  da parte dei politici e, in certi limiti, degli stessi economisti, vengono per lo più messi in evidenza solo gli aspetti politici o, al massimo, di politica economica della problematica in questione.

     Ma, come si è visto, anche il diritto ha in proposito un ruolo preciso ed effetti rilevanti e, soprattutto, esso offre  soluzioni alternative. Quello che manca all’Eurozona è, in realtà, una maggiore democraticità delle decisioni-cardine, posto che il Parlamento europeo ne resta fuori.

    Certe asperità, certe egemonie ed anche la revisione di certe scelte quali l’austerità ad ogni costo dovrebbero, in realtà, passare al vaglio del Parlamento europeo, per essere veramente mirate al benessere dei popoli europei. Ed in questo campo dovrebbe forse trovare spazio quella cooperazione interparlamentare tra il Parlamento europeo ed i Parlamenti nazionali di cui al Protocollo n.1 allegato al Trattato di Lisbona.

    In altri termini, la volontà, le attese, le preoccupazioni e le speranze dei cittadini europei non possono rimanere fuori dalla gestione della moneta unica ma devono avere il loro peso sulle decisioni e sulle relative procedure attraverso il filtro della rappresentanza parlamentare.

    Ed anche per questo profilo, il ruolo del diritto, principalmente di quello europeo ma anche - perché no - di quelli nazionali in coordinamento col primo, è indubbiamente essenziale per fissare i necessari punti di equilibrio istituzionale e, occorrendo, costituzionale, tra le istituzioni europee e nazionali coinvolte.

    4.- Analoghe esigenze di verifica di democraticità si pongono nei confronti della Banca Centrale Europea (BCE) e del Sistema di Banche Centrali (SBCE) che gravita intorno ad essa, sia con riferimento  a quanto le compete in sede di Eurozona sia, più in generale, con riferimento a quel che concerne la governance della moneta unica e dei suoi tassi di interesse, nonchè i rapporti di cambio tra la stessa e le altre monete.

     In questa delicata materia vige in seno all’Unione un fondamentale principio, fissato  dai Trattati di base, da ultimo anche da quello di Lisbona del 2007.

     Tale principio è costituito dall’indipendenza della BCE, sancita dall’art.130 del TFUE, in base al quale né la BCE né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri, né da qualsiasi altro organismo. Soggiunge la norma che “Le istituzioni, gli organi egli organismi dell’Unione nonché i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali nell’assolvimento dei loro compiti”.

     E’ questo un principio sacramentale, che da secoli è al centro del dibattito politico ed economico finanziario, ed a torto trascurato dai giuristi. Secondo alcuni, la rivendicazione di indipendenza delle banche centrali risalirebbe all’uso antico di affidare ai sacerdoti l’oro ed in genere i tesori comuni della tribù o della città-Stato perché li custodissero negli inviolabili templi del culto religioso. I sacerdoti avrebbero col tempo monopolizzato il potere non solo di custodia ma anche di gestione di quei tesori, per poi concederli ai capi per opere di pace solo dopo attente riflessioni, sì da conservarli  pressoché integri  per fronteggiare guerre, carestie o disastri naturali.

     Questa sacralità della gestione del tesoro comune si sarebbe poi protratta fino ai giorni nostri trasformandosi in indipendenza della banca centrale, fatti salvi, si capisce, i ricorrenti periodi di tirannia, in cui però è anche successo che taluni regimi dispotici, ad esempio il fascismo, hanno preferito far salvo almeno formalmente il principio. Inoltre, in taluni ordinamenti democratici è previsto un controllo conoscitivo da parte del parlamento.

     I concetti di base di questo importante aspetto della vita pubblica, non noto a tutti ed a volte volutamente tenuto in sordina anche dai governi democratici, vengono magistralmente sintetizzati nella nota di presentazione del FOCUS a cura di Lucrezia Reichlin svoltosi il 1 giugno 2014 a Trento nell’ambito del Festival dell’Economia, con introduzione di Carmen Santoro. La nota si intitola “Quanto deve essere indipendente la BCE?” e recita come segue: “Le banche centrali hanno il monopolio della creazione della moneta e storicamente i governi fanno pressione perché quella moneta si stampi finanziando il debito pubblico, ciò che però crea inflazione. Nella maggior parte dei casi le banche centrali sono, per questa ragione, formalmente indipendenti, pur rendendo periodicamente conto al parlamento del loro operato. E’ sufficiente questo controllo democratico?

    E’ giusto separare la politica monetaria dalla politica di bilancio dello Stato? Il caso della BCE negli anni della crisi.”

    Gli interrogativi posti dalla nota citata sono pertinenti ed inquietanti, tanto più che i Trattati sull’Unione Europea non prevedono affatto un controllo, sia pure meramente conoscitivo, del Parlamento europeo sulla BCE né aiuta molto in tal senso il controllo parlamentare previsto da talune costituzioni, non la nostra, sulle banche centrali nazionali. 

    I fatti recenti e le decisioni recenti della BCE, quale il “quantitative easing”, inducono a consigliare una riflessione sul tema, anche in questo caso in termini di equilibri giuridico-istituzionali tra gli organi dell’Unione e tra l’Unione e gli organi rappresentativi dei suoi cittadini.  

 

Prof. Claudio De Rose - Direttore responsabile e Coordinatore Scientifico.