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LA VITTIMIZZAZIONE DELLE MINORANZE IN EUROPA:

LA LEZIONE DELLA GRAN BRETAGNA DOPO BREXIT

Autore: Dott.ssa Giulia Ventimiglia

 

Il rapporto EU-MIDIS su “Minoranza e discriminazione nell’Unione europea” (FRA, 2009), della European Union Agency for Fundamental Rights, ha registrato un tasso di vittimizzazione delle minoranze in Europa del 24%. Ciò equivale a dire che, in media, per ogni quattro persone appartenenti ad una minoranza etnica o religiosa in Europa, una è stata vittima di crimini di percepita matrice razzista o scaturiti dall’intolleranza religiosa solo nell’arco dei 12 mesi precedenti all’indagine, che ha coinvolto 23.500 intervistati tra migranti e appartenenti a minoranze etniche distribuite nei 27 Paesi membri. Oltretutto, secondo lo stesso rapporto, le minoranze sono, in media, più esposte a reati contro la proprietà e la persona, rispetto alla maggioranza della popolazione.

A livello aggregato, il più alto tasso di vittimizzazione in Europa sarebbe relativo alla minoranza sub-sahariana (33%), subito seguita dalla quella Rom (32%). Le stesse minoranze, peraltro, sono quelle, in media, più esposte ai reati contro la persona: la minoranza Rom è quella che risulta essere più colpita (18%) al pari della etnia sub-sahariana (18%) (FRA, 2009).

Il quadro, già estremamente negativo, emerso dalla approfondita indagine della FRA, è peraltro parziale, in relazione alla mancata registrazione di molti di questi crimini. Secondo il rapporto EU-MIDIS Data in focus 6: Minorities as victim of crime (FRA, 2012), tra il 57% e il 74% delle aggressioni e delle minacce rivolte alle vittime di crimini dell’odio non viene denunciato. Per esempio, tre quarti delle persone intervistate di fede ebraica, che hanno dichiarato di aver subito aggressioni mosse da convinzioni antisemite, non hanno riportato i fatti né alle forze dell’ordine né ad altre organizzazioni o associazioni. Gli intervistati LGBT, Rom, di fede ebraica e di origine africana hanno, nella maggior parte dei casi, motivato questa scelta sostenendo che nulla sarebbe cambiato con la denuncia e che “such incidents happen all the time” (FRA, 2009). Alcuni intervistati hanno invece espressamente motivato la decisione di non denunciare i fatti alla polizia dichiarando di non fidarsi delle forze dell’ordine. Le evidenze empiriche a supporto della sopra citata indagine del FRA conducono ad affermare che, in realtà, la percezione di sfiducia da parte dei Rom è particolarmente significativa se confrontata con quella delle altre minoranze. Il dato è probabilmente da leggere insieme a quello relativo al c.d. police profiling, da intendersi come la percezione di essere stati fermati dalla polizia in ragione di un percepito pregiudizio razziale da parte delle stesse forze dell’ordine. A livello aggregato, infatti, sono gli intervistati Rom (16%) ad aver avuto maggiormente questa percezione, preceduti solo dai nord-africani (19%). Quindi, la scarsa fiducia nelle forze dell’ordine scaturisce dalla sensazione che siano le stesse ad avere un pregiudizio di natura razziale nei loro confronti, del tutto similmente, dunque, a coloro i quali commettono hate crime. In altre parole, le persone appartenenti alle minoranze sono spesso ben lontane dal cercare protezione e tutela negli organi di polizia, ritenendo, al contrario, che siano in primo luogo questi ultimi a discriminarle (FRA, 2009). Del resto, le esperienze riconducibili a queste dinamiche non sono purtroppo rare. Esemplificativa in questo senso è la testimonianza di una persona di origine Rom che ha raccontato, nell’ambito del progetto “Giving victim a voice” del FRA, la propria esperienza con la polizia italiana: “one evening, just out of the mosque, I was stopped by police. The police did a search in the car. [...] I was detained for an hour and a half, then two more patrols came. There were twelve policemen in that place. After this began the worst of insults by young policemen, like this: "These Gypsies! I would like to put them against the wall and shoot them" (FRA, 2013).

Sensibili differenze sono rilevabili in relazione al grado di sfiducia delle minoranze oggetto di studio nei singoli Paesi. Il minor grado di fiducia è percepito dalla minoranza Rom in Polonia, dove il 58% degli intervistati dichiara di non confidare nella polizia, mentre solo il 13% è propenso ad affidarsi alle forze dell’ordine. Anche in Francia il dato risulta essere particolarmente negativo: oltre il 40% degli intervistati di origine sub-sahariana tende a non fidarsi della polizia (FRA, 2009).

La carenza di fiducia nelle forze dell’ordine e nelle loro percepite capacità investigative rimane un problema di focale importanza nell’ottica del perseguimento dei crimini dell’odio e nell’effettiva tutela del principio di non discriminazione, sancito dalle costituzioni nazionali e dalla normativa europea ed internazionale.  Infatti, la diffusa pratica di non denunciare i crimini subiti, per le più svariate ragioni, agli organi di polizia rimanda non solo ad un insufficiente sistema di contrasto dei crimini dell’odio e di protezione delle vittime ma anche alla ridotta consapevolezza dei propri diritti da parte di queste ultime. L’ovvia conseguenza è che molti di questi crimini rimangono sostanzialmente impuniti e ciò incide negativamente sul reale godimento dei più fondamentali diritti umani e di cittadinanza da parte delle minoranze etniche o religiose in Europa.

La European Union Agency for Fundamental Rights (FRA) ha in più occasioni espresso la necessità di predisporre con assoluta urgenza, a livello nazionale ed europeo, un  più effettivo sistema di contrasto degli hate crime e delle dinamiche fortemente discriminatorie ad essi sottesi e si è espressa nell’ottica di suggerire ai policymakers i necessari passi da compiere al fine di giungere ad un più effettivo sistema di contrasto degli hate crime (I reati generati dall’odio in UE, 2009).

Occorrerebbe, innanzitutto, assicurare i responsabili alla giustizia, attraverso strumenti investigativi efficaci e un coerente quadro sanzionatorio e ciò al fine di arginare le radicate condotte discriminatorie di cui gli hate crime sono spia: l’effettivo e sistematico perseguimento di questi reati è probabilmente il miglior mezzo per contrastare la diffusa percezione che i diritti delle vittime siano violabili.

Parallelamente, le forze dell’ordine, unitamente agli organi di giustizia, dovrebbero mantenere un alto livello di allerta rispetto ad ogni segnale che, direttamente o indirettamente, rimandi alla matrice razzista dei reati denunciati, prevedendo, ove presente, pene più severe, proprio al fine di sottolineare la particolare gravità di questi atti criminosi. Inoltre, occorrerebbe rendere questi reati più “visibili” a livello mediatico, al fine di trasmettere un contro-messaggio alla società nel suo complesso, alle vittime e ai seminatori di odio. Il coinvolgimento della collettività nel discorso dei crimini dell’odio è, infatti, fondamentale al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sottolineando la gravità dei crimini dell’odio, in termini sanzionatori e in relazione al loro impatto sulla sicurezza sociale.

La costruzione di un efficace quadro normativo, volto all’effettivo contrasto dei reati generati dall’odio, non può comunque prescindere da un’approfondita conoscenza del tema e di un costante monitoraggio del fenomeno: l’agenzia europea ha più volte sottolineato l’importanza di un sistema di raccolta dei dati utile a fornire un quadro il più possibile aderente alla realtà. Ad oggi, infatti, solo 8 Stati membri su 27 registrano regolarmente i reati mossi da pregiudizi di natura eterosessista e solo 4 raccolgono i dati dei crimini dell’odio contro i Rom, così come rilevato dal rapporto Making hate crime visible in the European Union, acknowledging victims’ rights (FRA, 2012). L’Unione europea dovrebbe, quindi, porre un vincolo ancor più stringente, adottando strumenti tesi a vincolare gli Stati alla registrazione e pubblicazione di dati statistici aggiornati sui crimini dell’odio. La disaggregazione di questi ultimi, in relazione all’età, al genere e ad altre variabili, permetterebbe di giungere ad una più compiuta comprensione del fenomeno nonché ad un adeguamento alla realtà empirica dei modelli di vittimizzazione e di reato. Ciò al fine di giungere ad identificare le cause scatenanti e ad impostare provvedimenti ad hoc atti al contrasto preventivo, oltre che successivo, dei crimini dell’odio. In ultima analisi, gli hate crime devono essere riconosciuti e trattati per ciò che sono: abusi dei diritti fondamentali delle vittime.

Eppure, il quadro normativo delineato dall’Unione Europea a tutela del principio di non discriminazione risulta essere già particolarmente stringente, ponendo obblighi normativi atti a vincolare gli Stati membri a contrastare i crimini motivati da razzismo, xenofobia, intolleranza religiosa così come dall’orientamento sessuale, identità di genere o disabilità di una persona.

Infatti, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea garantisce, al suo art. 1, il rispetto e la tutela della dignità umana, sancita come inviolabile. L’art. 10 dello stesso documento pone, invece, il principio della libertà di pensiero, coscienza e religione, in virtù del quale ogni individuo ha diritto a “manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”. Ai sensi dell’art. 21 è ¨vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. Oltretutto, il c.2 dello stesso articolo vieta qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, in applicazione del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE) e del Trattato sull’Unione europea (TUE), ambedue assunti al ruolo di Costituzione dell’UE de facto.

Il principio di non discriminazione è ulteriormente rafforzato dall’art. 14 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che pone l’esplicito divieto di ogni discriminazione, in particolare fondata “sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”, nel godimento dei diritti e delle libertà riconosciute nella stessa Convenzione.

Il mancato perseguimento dei crimini dell’odio, secondo un coerente e specifico quadro normativo, che includa l’elemento del pregiudizio, corrisponde alla perpetuazione di un ulteriore discriminazione verso le vittime, selezionate in virtù di un qualche frammento della loro identità, tale da ricondurle ad un determinato gruppo sociale, in palese violazione del sopracitato art. 14 CEDU. Sanzionare l’elemento discriminatorio alla base del crimine stesso assume, quindi, un’importanza fondamentale al fine di affermare l’uguaglianza delle vittime rispetto agli altri membri della collettività. Invece, l’esclusione o la non considerazione del pregiudizio alla base della selezione della vittima e del compimento del crimine stesso si concretizza nella violazione dei principi di uguaglianza e democrazia sanciti dall’UE, confermando la convinzione degli offender per cui i diritti di una individuabile categoria di cittadini siano violabili o insignificanti .

L’elevata percentuale di crimini non denunciati comporta che molti di essi rimangano sostanzialmente “invisibili”. Ne consegue che i diritti delle vittime, egualmente cittadini o persone poste sotto la giurisdizione dell’autorità pubblica, rischiano di non essere rispettati, calpestati prima dagli offender e poi dallo Stato, violando i doveri di protezione e tutela delle vittime da parte dei Paesi membri dell’Unione europea.

In applicazione a questi principi, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è più volte espressa, ponendo in capo agli Stati l’obbligo di “indicare chiaramente la motivazione alla base di reati di matrice razzista o di quelli commessi a causa del credo religioso della vittima” . L’enfasi, posta in più occasioni dalla Corte, è da ricondursi alla particolare gravità degli atti compiuti dagli offender che, selezionando le vittime per quello che rappresentano o sono ritenute essere, trasmettono alla società nel suo complesso un messaggio non solo negativo ma anche umiliante e degradante. Come sostenuto dalla European Union Agency for Fundamental Rights, infatti, “la vittima non viene percepita come un individuo con personalità, abilità ed esperienze proprie ma soltanto come un membro senza volto di un gruppo contraddistinto da un’unica etichetta caratterizzante”  (FRA, 2012).

In questa prospettiva, il caso del Regno Unito risulta essere particolarmente rappresentativo. Infatti, il rapporto OSCE-ODHIR “Hate crime reporting” del 2014 registra qui il più alto numero di hate crime di matrice razziale o xenofobica tra tutti i Paesi europei partecipanti al progetto. Secondo le fonti ufficiali, sono stati perpetuati 42,930 crimini dell’odio di matrice razzista, xenofobica e antisemita in Galles ed Inghilterra solo nel 2014 e a questi vanno sommati i 183 casi dell’Irlanda del Nord. Vale la pena sottolineare come non sia disponibile alcuna rendicontazione relativa alla Scozia.

I crimini dell’odio di matrice razziale o xenofobica rappresentano, nel Regno Unito, la categoria maggioritaria rispetto al numero complessivo di hate crime perpetuati nel 2014, quantificati dalle autorità competenti in 52,843 casi. Seguono, in ordine numerico, i crimini dell’odio derivati dall’intolleranza religiosa (3,319 casi); gli hate crime perpetuati contro le persone LGBT (6,202 casi) e, infine, i crimini perpetuati contro altri gruppi o persone con disabilità mentale o fisica (2,531 casi).

I dati del 2014 relativi al Regno Unito riflettono, peraltro, un nuovo aumento nella perpetuazione di questi crimini rispetto all’anno precedente. Nel 2014, infatti, si è rilevato un nuovo peggioramento rispetto alla già impressionante casistica dell’ultimo triennio: nel 2011 sono stati riportati 50,688 casi; nel 2012, 47,676 casi e nel 2013 47,986 crimini. Anche in termini di effettivo perseguimento dei crimini dell’odio il quadro è estremamente negativo: nel 2013, in sostanziale allineamento con il triennio precedente, si sono perseguiti 19,689 reati. Questa cifra si è sostanzialmente ridotta nel 2014, con solo 4,872 casi perseguiti e ciò nonostante l’aumento di crimini registrato nello stesso anno rispetto al 2013. Conseguentemente, si è avuto un netto peggioramento in termini di condanne: nel 2013 queste sono state quantificate in 12,353 mentre nel 2014 solo in 549 (OSCE-ODHIR, 2014). I dati appena esposti sono peraltro parziali, soprattutto in termini geografici. Ciò è probabilmente riconducibile alla pluralità ed eterogeneità degli organi competenti alla raccolta e classificazione dei dati relativi ai crimini dell’odio. In Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, infatti, i dati ufficiali sugli hate crime sono raccolti dall’Association of Chief Police Officers, dal Crown Prosecution Service e dall’Home Office. In Scozia, invece, la classificazione dei dati in materia è realizzata dal Procurator Fiscal. Non è inoltre prevista alcuna disaggregazione dei dati in ragione del reato commesso. Non è, dunque, dato sapere quale fattispecie di reato è maggiormente frequente all’interno del sottogruppo “hate crime di matrice razzista o xenofobica”. Eppure, come già sottolineato da numerose organizzazioni governative e non, una maggiore completezza dei dati sarebbe necessaria al fine di comprendere, analizzare e sanzionare sistematicamente il fenomeno degli hate crime nel Regno Unito, connotato, come visto, da particolare gravità.

Una maggiore analiticità nel raccoglimento dei dati è riscontrabile nel rapporto dell’Home Office. Secondo quest’ultima fonte, tra il 2015 e il 2016 si rilevano 62,518 crimini dell’odio perpetuati in Inghilterra e Galles, con un aumento complessivo del 19% rispetto al dato del 2014-2015 (52,465 casi).

Sebbene l’aumento più significativo fra i crimini dell’odio, perpetuati tra il 2015 e il 2016, si registri tra quelli contro le persone con disabilità mentale o fisica (44%), nella categoria degli hate crime generati dall’intolleranza religiosa vi è stato un aumento del 34%, mentre in quella maggioritaria dei crimini di matrice razziale del 15%. In altre parole, nonostante un aumento significativo sia stato registrato per tutte le tipologie di crimini dell’odio e, dunque, anche per quelli perpetuati contro le persone LGBT e con disabilità mentale o fisica, occorre tenere in considerazione che, tra il 2015 e il 2016, al 79% degli hate crime è stata riconosciuta matrice razzista (49,419 casi), cui si aggiunge il 7% dei crimini motivati dall’intolleranza religiosa (4,400 casi) (Home Office, 2016).

Una spiegazione ad un così sostanziale aumento nella perpetuazione dei questi crimini è offerta dallo stesso rapporto dell’Home Office che, disaggregando i dati per mese, ha verificato la sussistenza di una relazione tra hate crime e fatti ritenuti potenzialmente significativi, o meno, per l’espansione del fenomeno. I dati raccolti dall’Home Office dimostrano una relazione tra eventi particolarmente scioccanti o di grande rilevanza mediatica e la perpetuazione di crimini dell’odio di natura razziale o generati dall’intolleranza religiosa. Si registra infatti un sensibile aumento nel compimento di questi atti criminosi nel luglio 2013, periodo immediatamente successivo all’uccisione di Lee Rigby. Il giovane soldato britannico fu sgozzato, nel maggio 2013, da due presunti terroristi islamici che, dopo averlo investito, lo aggredirono a colpi di machete. La particolare efferatezza del crimine scaturì in un’ondata di crimini dell’odio di matrice razzista e religiosa nei mesi immediatamente successivi. Sembra, invece, essere ridotto l’impatto, sull’espansione del fenomeno, della crisi di Gaza dell’estate 2014, similmente al rapporto Jay sull’incidenza dei casi di abusi di minori nella Chiesa cattolica, sebbene tra il settembre e l’ottobre del 2014, si è assistito ad un aumento relativamente significativo dei crimini generati dall’intolleranza religiosa, pur registrandosi una diminuzione nel periodo immediatamente successivo.

Più evidente, invece, è l’impatto dei fatti di Charlie Hebdo sulla perpetuazione dei crimini dell’odio di natura xenofobica o religiosa in Inghilterra e Galles: i dati trasmessi dalla polizia suggeriscono, infatti, un sostenuto aumento dei crimini dal gennaio al giugno 2015. Sembrerebbe, dunque, che siano gli atti terroristici ad essere più strettamente connessi all'esplosione di nuove ondate di hate crime, perpetuati in logica ritorsiva e contro un determinato gruppo sociale, ritenuto collettivamente responsabile.

Questa apparente relazione tra incremento dei casi registrati di crimini dell'odio ed eventi percepiti come particolarmente destabilizzanti ed allarmanti da parte della società inglese è, almeno parzialmente, confutata dall’impatto dei fatti di Parigi del novembre 2015 cui, contrariamente alle aspettative, non è seguito un nuovo picco nei dati relativi alla perpetuazione di crimini generati dall’odio razziale o religioso.

È più facilmente sostenibile, invece, che l’altissima casistica di questo tipo di hate crime sia da correlarsi all’esistenza di un malcelato pregiudizio razziale radicato in alcuni gruppi sociali, di cui i preoccupanti dati sui crimini dell’odio perpetuati annualmente nel Regno Unito sono specchio. Certamente, i drammatici eventi ricollegabili, direttamente o indirettamente, ad una difficile integrazione e che ottengono maggiore risonanza mediatica hanno l’effetto di acuire il fenomeno, agendo su un tessuto culturale già propenso. Non si spiegherebbe altrimenti l’altissima casistica relativa al compimento di questi crimini che si registra annualmente, indipendentemente dal verificarsi di eventi "scatenanti". 

Questa interpretazione sembrerebbe essere confermata dal nuovo drammatico aumento dei crimini dell’odio, motivati dal pregiudizio razziale e dall’intolleranza religiosa, registrato dopo il referendum dello scorso giugno sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. Come riportato dal Financial Times (2016), stando ai dati pubblicati dall’Home Office relativi al luglio 2016, questi crimini sono aumentati del 41% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Ciò è probabilmente da ricondursi al dibattito pubblico che ha accompagnato la campagna referendaria, caratterizzata da toni forti e da un linguaggio tutt’altro che privo di sfumature xenofobe. Un duro rapporto dello UN Committee on Eliminating Racial Discrimination, “Concluding observations on the twenty-first to twenty-third periodic reports of United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland” (UN-CERD, 2016), ha sottolineato il ruolo di alcuni politici inglesi che attraverso una “divisive, anti-immigrant and xenophobic rhetoric” hanno rafforzato i pregiudizi e “thereby emboldening individuals to carry out acts of intimidation and hate”. La campagna referendaria ha, infatti, scatenato un forte movimento anti-immigrazione che si è scagliato contro l’incontrollato ingresso dei migranti europei nel territorio britannico e che ha provocato un’ondata di odio verso l’indistinta categoria degli “stranieri”. I toni del dibattito ed il ruolo dei politici, spesso assimilabile a quello dei “seminatori di odio”, ha evidentemente fatto leva su un preesistente e radicato pregiudizio razziale e xenofobo, le cui conseguenze sono state immediatamente osservabili.

Alcuni dati possono chiarire il punto e supportano questa deduzione. L’Home Office ha registrato 1,546 crimini di matrice razziale o motivati dall’intolleranza religiosa, solo nelle due settimane precedenti al referendum; nell’arco dei 15 giorni immediatamente successivi si sono raggiunti i 2,241 casi, 207 dei quali registrati solo il 1 luglio 2016. Anche nelle settimane seguenti i crimini riportati sono sempre stati in costante aumento, con un nuovo picco registrato alla fine di luglio 2016 (5, 468 casi). Benché ad agosto 2016 si sia osservato un calo nella perpetuazione degli hate crime, i dati continuano a riportare livelli di criminalità superiori al periodo precedente al referendum.

Come anticipato, nonostante i casi di crimini dell’odio dettati dal pregiudizio razziale e religioso continuino a crescere nel Regno Unito, i dati relativi al perseguimento di questi reati rimangono ancora relativamente bassi. Ciò equivale a dire che solo un ridotto numero di atti criminosi generati dall’odio viene sanzionato dalle Corti di giustizia penali. Gli effetti di questo dato, in termini di opportunità nel godimento dei più fondamentali diritti civili da parte delle vittime e di sicurezza sociale, sono estremamente negativi. Peraltro, come sostenuto dallo Human Rights Watch, finché i politici continueranno ad adottare una retorica tesa, volontariamente o meno, ad acuire le tensioni interne alla collettività, anche la condanna sociale di questi crimini è ben lontana dall’essere percepita. Del resto, la classe politica ha ancora molto da fare in termini di tutela delle vittime, specialmente a seguito del referendum BREXIT. Nonostante, infatti, il generale supporto alla causa, il governo inglese non ha ancora fornito garanzie effettive sugli strumenti di tutela dei cittadini europei già residenti nel Regno Unito, acuendo il clima di incertezza e insicurezza. In altre parole, il rischio è quello di rafforzare le posizioni intolleranti e razziste di chi ha inteso il referendum sulla permanenza del Regno Unito in Unione europea come un voto per espellere i migranti.

Al fine di sradicare il pregiudizio su cui si basa la perpetuazione sistematica di questi crimini, sarebbe quindi necessario predisporre gli elementi culturali e giuridici utili alla trasmissione di un contro-messaggio, rivolto alle vittime e alla collettività. Quest’ultimo deve sostanziarsi in un netto rifiuto verso la xenofobia e l’intolleranza religiosa e deve essere volto ad affermare non solo l’illegalità ma anche l’inaccettabilità, socialmente percepita, delle condotte ispirate dall’odio.

Dal caso del Regno Unito, in relazione all'andamento del fenomeno nel periodo coincidente ed immediatamente successivo al referendum per la permanenza della Gran Bretagna in Unione europea, dovrebbe essere quindi tratta un’importante lezione. L'insufficienza degli strumenti giuridici ma soprattutto culturali atti ad arginare l’odio verso determinate categorie sociali, individuate spesso anche dalla classe politica come “estranee” alla società, ha certamente influito negativamente nell' espansione incontrollata del fenomeno. Lo sradicamento delle dinamiche discriminatorie non può prescindere dalla “sanzione sociale” di questi atti criminosi. Questo esito non può essere raggiunto fino a che la classe politica non si spenderà, attivamente e concretamente, nella tutela delle vittime, evitando l’uso di un linguaggio discriminatorio e divisivo.

Per concludere, le dimensioni assunte dal fenomeno in Europa hanno condotto alla  constatazione che misure più efficaci ed incisive di quelle già implementate sono necessarie, al fine di scongiurare ancor più serie conseguenze in termini di sicurezza sociale. Gli obblighi posti dalla normativa europea in capo agli Stati si rilevano infatti come empiricamente insufficienti e manifestatamente inefficaci, anche in funzione di carenze strutturali nel quadro normativo, che non ha condotto alla rilevazione sistematica di questi crimini attraverso coerenti sistemi di raccolta dei dati.

Le radicate dinamiche discriminatorie, generate dal pregiudizio ed alimentate dalle trasformazioni sociali in corso, possono essere arginate solo attraverso l’effettivo perseguimento dei crimini dell’odio da parte dell’autorità pubblica, in quanto funzionale alla trasmissione di quel contro-messaggio, rivolto alla collettività nel suo complesso, teso a comunicare l’intollerabilità, in una società giusta e umana, di questi comportamenti discriminatori. In altre parole, la certezza della condanna giudiziaria è tesa plasmare i valori della società e ad ottenere la sanzione sociale di questi atti, agendo sul tessuto culturale al fine di estinguere la causa primaria dei crimini dell’odio: il pregiudizio.

 

Dott.ssa Giulia Ventimiglia, collaboratrice del Centro LUISS LAPS (Laboratorio Analisi Politiche e Sociali).

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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