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AVV. ANTONELLA ROBERTI

CASO ITALIA: BASSA PRODUTTIVITÀ IN UNA SOCIETÀ REPLICANTE?

Autore: Dott. Enea Franza

 

I tanti rapporti sulla situazione sociale del Paese mostrano come l’Italia abbia affrontato la crisi internazionale riproponendo in realtà “il tradizionale modello adattativo-reattivo”, ovvero, conservando quello che è stato il modello di sviluppo incentrato su piccole imprese, limitandosi a rafforzare le strutture di garanzia ed assistenza che fanno da cuscinetto al sistema. Le tante convergenze di opinioni, pertanto, di cui non può non tenersi conto e che certamente non possono non inquietare chi ritiene che le tendenze dell’economia mondiale abbiano già messo fuori gioco il modello italiano[1].

In fondo, infatti, a bene vedere, quello che venne decantato come il  nuovo miracolo italiano di fronte alla crisi[2], è in realtà, ciò che fino a qualche tempo prima era stato considerato da molta letteratura economica il punto di debolezza del sistema Italia, ovvero, un Paese mal organizzato e caratterizzato da familismo, localismo e nanismo imprenditoriale.  

Vediamo meglio di che cosa in realtà si parla. Sul familismo ovvero, sul vincolo di solidarietà fra i membri di una stessa famiglia, considerato da sempre come caratteristica principale della società italiana, sono state fatte infinite osservazioni da parte di sociologi, politologi ed economisti. Tali analisi hanno alla base le riflessioni del sociologo americano Edward C. Banfield elaborate nel saggio “Moral Basis of a Backward Society” (Le basi morali di una società arretrata), del 1958 e del ricercatore di Harvard Robert Putnam nel suo “Making Democracy Work del 1993”. Il termine "familismo", pare coniato proprio dal Banfield, per interpretare il sistema delle relazioni di una piccola comunità lucana (quella di Montegrano), caratterizzata da estrema povertà ed arretratezza, si presenta per Banfield come un comportamento dei singoli individui di quella comunità che è volto a massimizzare gli interessi all'interno della propria cerchia familiare escludendo di per se la possibilità di costruire solidarietà allargate al di fuori di essa come, ad esempio, relazioni sociali morali tra famiglie e tra individui all'esterno della famiglia ed per tale via, invece di una corretta partecipazione al processo democratico che avvantaggerebbe l’intera collettività, si privilegia il favore ai propri familiari.

Per farlo si finisce con il ricorrere spesso a corruzione, clientelismo e altri comportamenti contrari alla legge, con due importanti conseguenze. Primo: la priorità data al privato sul pubblico, quello che è stato definito un "limitato senso civico" tipico di un certo modo di sentire italiano. Secondo e, forse, più grave ancora: la propensione a stabilire i rapporti sulla base di solidarietà di tipo familistico.  Nella sostanza tale comportamento di privilegiare i legami famigliari a quelli di una comunità più ampia ed esterna alla stessa, sembrerebbe caratterizzare tutto il nostro Paese, e non solo il profondo Sud[3] ma anche, diversamente da come in un primo tempo si era indotti a ritenere, le aree più ricche e produttive del Nord.

In particolare, rispetto alle analisi condotte negli anni sessanta, il familismo del 2000 resisterebbe ancora oggi in tutto il Paese come caratteristica del tessuto sociale “in quando soggetto economico e relazionale in grado di fornire ai suoi membri un riparo alla inospitabilità del mondo[4] estendendosi peraltro, anche a determinare i comportamenti economici.  Illuminante sarebbe, al riguardo, il confronto tra il sistema di legami familiari nella strutture proprietarie delle imprese italiane rispetto a quelle che sembrano caratterizzare altri Paesi dell’Occidente che evidenziano come nei nostri partner tali vincoli siano molto più deboli e difficilmente superino il nucleo familiare in senso stretto (legame tra padre e figlio). Anche se siamo ben lontani dal pensare che, almeno nel grande capitalismo, l’Italia sia un’una eccezione (e ci conforti pensare ai Ford in America, ai Toyoda, ovvero, la Toyota, ed alla famiglia Murdoch, che è saldamente al potere del più grande network mediatico del mondo) nella generalità di tali Paesi, tuttavia, i sociologi ritengono che i legami familiari sembrerebbero essere più l’eccezione che la regola e che, certamente, non assumono il ruolo predominante che avrebbero in Italia.

Le caratteristiche del capitalismo familiare nostrano sono state indagate per lungo tempo, e sebbene esso non abbia più la compattezza che gli conferiva Mediobanca sotto la guida di Enrico Cuccia, si può tuttavia convenire che ne continua la propensione con le catene societarie che assicurino il controllo.

A confortare le analisi dei sociologi sulle caratteristiche intrinseche della società italiana, va evidenziato che l’universo di imprese italiane non è, tuttavia, rappresentato dalle grandi imprese che quotano i loro titoli su molti mercati finanziari internazionali (Fiat, Pirelli, Mediaset, ecc), ma anzi soprattutto da 4600 aziende di medie dimensioni e da 600/700 aziende un po’ più grandi (il numero dipende dalle variabili che si sceglie di includere o escludere nelle definizioni di grandi imprese). Ebbene, se si va a vedere nel gruppo più numeroso, quelle delle 4600 imprese (concentrate in buona parte nel Nord e Nord Est, e quindi con caratteristiche anche locali), la proprietà è quasi esclusivamente di tipo familiare e tali imprese hanno già preso le loro determinazioni per quanto riguarda la successione all’interno del nucleo familiare.

I fondi di “private equity” hanno in mano una quota insignificante del capitale di queste imprese, e contano davvero molto poco. Molto più contano le Banche e la loro capacità di assicurare il finanziamento al capitale circolante. Per inciso, va segnalato che l’indotto che gira intorno a tali imprese è pari a circa metà del valore aggiunto dell’intero comparto manifatturiero italiano. Una cifra veramente enorme, che rende evidente l’anomalia italiana.

In altre parole il familismo, plasma l’ulteriore fenomeno del c.d. nanismo imprenditoriale, altra caratteristica del nostro Paese. Vediamo come. Secondo molti commentatori di cose economiche il c.d. il eccesso di familismo incide, infatti, anche sulle modalità di trasmissione ereditaria, dove ai figli viene prevalentemente lasciata non solo la proprietà ma anche la gestione manageriale di imprese familiari. Non mancano neanche osservazioni su quanto i legami familiari influenzino le scelte di investimento patrimoniale che privilegiano, direi naturalmente, gli investimenti immobiliari ed in titoli di Stato rispetto ad investimenti in azioni o in fondi azionari più rischiosi e meno conservativi. Risulta, peraltro, che queste imprese non hanno la forza ed il bisogno (e direi la voglia) di diventare molto più grandi, in quanto la loro energia sta nell’essere di tipo medio, quindi agili e flessibili e di avere una proprietà “familiare” che può prendere decisioni molto in fretta. In qualche caso ci sono anche dei manager addetti alle decisioni operative, ma la strategia risulta saldamente in mano alle famiglie.  

Ma quali sono, in estrema sintesi, i punti di forza e quelli di debolezza del “capitalismo familiare”?  In primo luogo la coincidenza tra il proprietario ed il manager. Per definizione non c’è conflitto di interessi e quindi non esiste il pericolo che le decisioni gestionali possano essere in contrasto con il profitto dell’impresa, a meno naturalmente di errori umani. Viceversa, le decisioni di un manager stipendiato possono discostarsi dalla massimizzazione del profitto, per il semplice fatto che il manager amministra soldi che non sono suoi.

Le casistiche in cui la condotta di un manager può discostarsi da quella che il suo datore di lavoro desidererebbe posso essere molteplici: dall’utilizzo dei beni aziendali per scopi privati, allo scarso impegno nella gestione aziendale, dall’assunzione clientelare alla vera e propria distrazione di fondi dalle casse aziendali. In estrema sintesi: per un medio imprenditore (e la sua famiglia) l’impresa è un progetto di vita. Per un manager, invece, è soltanto un’occasione di carriera e di guadagni. Altro punto di forza dell’impresa familiare è la capacità di un’impresa famigliare di attingere in maggior misura all’autofinanziamento non essendo necessario provvedere alla remunerazione annuale del capitali di rischio di cui necessità, invece,  una struttura cui partecipano al capitale soggetti terzi. Ma molte sono le problematiche del capitalismo famigliare. In primo luogo le risorse personali e quelle finanziarie. Crescendo, infatti, l’impresa raggiunge prima o poi una grandezza tale che normalmente le forze di una famiglia non bastano più a fornire le capacità gestionali (ovvero, come insegna la scienza manageriale, le capacità di  programmazione, organizzazione, controllo, decisione, orientamento ai risultati ed al cliente) nonché le risorse finanziarie necessarie per l’ulteriore espansione. E’ questo il "tallone d’Achille" del capitalismo famigliare? La penuria di capacità gestionali tende a verificarsi in coincidenza con la successione nella conduzione aziendale; figli incapaci o litigiosi coinvolgono tutti coloro il cui destino è legato alla sopravvivenza dell’impresa. Peraltro, anche una analisi di tipo probabilistico ci conferma la fragilità della una struttura di tipo aziendale familiare. Se si osserva, infatti, che l’abilità gestionale (ed il quoziente intellettivo) sono distribuiti in modo casuale tra la popolazione (secondo una curva che statisticamente viene detta normale), esiste pertanto un’alta probabilità che un familiare incapace porti alla rovina un’impresa familiare. A volte, se non è l’incapacità gestionale degli eredi, è la loro litigiosità a rovinare l’impresa: perché il controllo sull’impresa è uno, mentre coloro che desiderano comandare sono più d’uno e ciò impedisce scelte univoche nella conduzione dell’impresa.

Altro limite è il patrimonio familiare che può non essere più sufficiente a finanziare la crescita dell’impresa; a quel punto, l’impresa può indebitarsi oppure cercare di attrarre capitale azionario esterno, ma entrambe queste soluzioni reintroducono, in una forma o nell’altra, il conflitto di interesse tra finanziatore e finanziato, e quindi quei costi la cui assenza è la forza intrinseca dell’impresa familiare. L’indebitamento, specie se eccessivo, spinge peraltro l’imprenditore ad assumere rischi eccessivi, introducendo una sorta di deresponsabilizzazione della gestione (che fine sempre più appiattita sui desiderata del finanziatore, e le partecipazioni azionarie esterne pongono il proprietario, in una certa misura, nella stessa posizione di conflitto di interessi di un manager. A questo punto, l’alternativa dell’impresa è rinunciare alla crescita o, magari, vendere l’impresa a chi è in grado di trasformarla in senso manageriale o ricapitalizzarla inglobandola in un’impresa più vasta.

La soluzione, pertanto, è scontata: arrestare o, rallentare, la crescita dell’impresa per renderla compatibile con le capacità gestionali e di finanziamento della famiglia. Ma perché un’azienda dovrebbe crescere? Essenzialmente il motivo è che solo la grande impresa riesce a far sentire il suo peso nella competizione internazionale, nel controllo dei mercati internazionali e nella ricerca. Alle imprese più piccole resta solo un mercato di nicchia (non per questo tuttavia meno redditizio).

Le PMI, in definitiva purché tecnologicamente aggiornate sono, certamente, proprio per la ridotta dimensione, più flessibili, dinamiche e pronte ad adattarsi all'ambiente economico mutevole ma non sono però in grado di giocare alcun ruolo nel contesto globale[5].

Le osservazioni fatte, troverebbero un sostanziale conforto in una recente ricerca condotta dalla Harvard Business School di Boston, che cerca di spiegare le ragioni della differente produttività tra  vari paesi, connettendola ad un generale problema d’impresa e, in particolare, alle modalità di selezione aziendale della direzione aziendale[6]. In effetti, a bene vedere, alla direzione aziendale spetta non solo il coordinamento, la guida delle risorse umane a disposizione dell'azienda o della parte di azienda (unità organizzativa), ma anche e soprattutto l'assunzione di decisioni di pianificazione e di gestione, scelte, che, sono mirate a garantire l'ottenimento di risultati in linea con gli scopi aziendali ed in grado di soddisfare i portatori di interessi nei confronti dell'azienda (ovvero, i stakeholder). Nella sostanza, un deficit di capacità manageriali che si traduce direttamente in una perdita di produttività per l’impresa. E tale deficit, per il nostro Paese sarebbe particolarmente pesante, per via della struttura familistica.

L’Italia, infatti, dopo aver sfruttato il punto di forza dell’impresa familiare, nella fase di crescita postbellica, in cui la maggior parte di queste imprese si trovava allo stadio nascente, ora si trova dunque affrontarne l’incapacità di superare la soglia dimensionale critica, che è quella finanziabile e gestibile da una famiglia. Una analisi sulle aziende presenti nel nostro paese e capaci di acquistare ed inglobare un’imprese più piccole scarseggiano, in quanto manca certamente il capitale finanziario necessario e la capacità di risolvere i conflitti di interesse di una gestione manageriale. Peraltro, per avere dei giganti industriali capaci di competere sui mercati internazionali, bisognerebbe poter disporre di forti investimenti infrastrutturali pubblici  e di aziende globali (meglio se in mano pubblica) capaci di fare da volano.

Ma tutto questo è  al momento assente, in parte dissipato nell’orgia della privatizzazione selvaggia degli anni ottanta, ed in parte difficilmente recuperabile attraverso uno stimolo al mercato finanziario, che alla mancanza di appeal che ancora oggi sconta il mercato di borsa colpito dal sentiment di sfiducia che coinvolge il paese, è penalizzato da un eccesso di regolamentazione che ne impedisce un fruttuoso sviluppo.  Il problema, dunque, mancando al Paese soprattutto una competitività generale (c.d. capitale sociale) può essere affrontato o, favorendo massicci investimenti esteri in Italia, ovvero, costringendo le imprese alla costituzione di raggruppamenti per il raggiungimento di fini condivisi sui mercati internazionali e per le produzioni sul mercato interno, a favore di politiche industriali fortemente mirate. Insomma, un ritorno ad un modello, quello delle partecipazioni statali, che qualche soddisfazione ha dato al nostro paese.

 

Dott. Enea Franza, Responsabile Ufficio Camera Conciliazione ed Arbitrato-Consob.

 

[1] I punti di forza del sistema Italia sarebbero: poca economia finanziaria; una forte presenza dell’industria manifatturiera; presenza di molte piccole imprese sparse sul territorio; un mercato del lavoro flessibile per la presenza di un forte lavoro sommerso; molto risparmio; un sistema bancario radicato sul territorio; un paese che soffre del c.d. “mal di mattone” e che caratterizzato da avere 85% delle famiglie con case di proprietà; forte presenza dello Stato nell’economia (economia di tipo misto).  Per chi intenda approfondire il tema, sarà sorpreso sapere come questo quadro del Paese sia offerto dagli studi prodotti dalla Banca d’Italia e dall’Istat. 

[2] Tra i tanti documenti circolati vi segnalo le considerazioni finali che il Censis  ha elaborato sull’Italia del 2009, che tra faceva eco ad una convinzione diffusa in quegli anni sulla solidità finanziaria del nostro Paese: “ … non abbiamo esasperato il primato della finanza sull’economia reale, le banche hanno mantenuto un forte aggancio al territorio, il sistema economico è caratterizzato da una diffusissima e molecolare presenza di piccole aziende, il mercato del lavoro è elastico (si pensi al sommerso) e protetto (si pensi al lavoro fisso e agli ammortizzatori sociali), le famiglie sono patrimonializzate. La crisi ha finito per rallentare il processo di uscita dal puro adattamento intravisto lo scorso anno, quando all’orizzonte si presentava quasi una «seconda metamorfosi», dopo quella degli anni fra il ’45 e il ’75”.

[3] Vorrei ricordare che Gramsci, a proposito dei contadini meridionali, scrisse: "è noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia tra le masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell'ltalia: i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci...".

[4] Rapporto Eurispes 2008.

[5] Autofinanziamento nell'economia dell'impresa, P. Capaldo, Giuffrè.

[6] “Does Management Matter  in Schools?” (with Nicholas Bloom, Renata Lemos and John Van Reenen). Economic Journal, 125 (May 2015): 647-674.