A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

LA MADRE DI TUTTE LE CRISI, OVVERO, SARÀ CRISI DEL DEBITO SOVRANO?

Autore: Dott. Enea Franza

 

E’ di pochi giorni fa la notizia che il debito pubblico Giapponese ammonta a un milione e diciassettemila miliardi di yen, ovvero circa 7.200 miliardi di euro. L’ennesimo record per un Paese il cui indebitamento è più del doppio del prodotto interno lordo (il 236%). Per la fine del 2019, l’OCSE stima un rapporto debito/pil pari a 245%[1].

Il  debito pubblico USA, invece, era a maggio 2014 di oltre 17 trilioni di dollari. Esso nel corso di questi quasi due anni (nonostante i bassi tassi d’interesse) non è diminuito e, anzi, resta il più alto al mondo.  In rapporto al pil, esso  si attesta ad oltre 105,7% e, stando alle previsioni OCSE, giungerà a  106,7 % nel 2019.  

Nell'UE-28 il rapporto tra debito pubblico e Pil è passato dall'85,2 % alla fine del 2012 all'87,1 % alla fine del 2013, mentre nell'area dell'euro (AE-18) è passato dal 90,7 % al 92,6 %. In totale 16 Stati membri dell'UE hanno registrato un rapporto debito/Pil superiore al 60 % nel 2013.

Le recenti proiezioni fatte dal Fmi sull’andamento del debito nei paesi industrializzati vedono un incremento del debito complessivo mondiale. Nel caso cinese non inquieta tanto il livello assoluto del debito, quando la sua rapida crescita negli ultimi tempi: alla fine di giugno 2014 il debito totale ha raggiunto il 251%.

Peraltro, nei primi sei mesi del 2014 le aste di bond sovrani emessi dai mercati in via di sviluppo (India e Brasile in primo luogo) hanno toccato quota 69,47 miliardi di dollari, con un incremento del 54% rispetto al 2013. Sembra nella sostanza che i Paesi emergenti stiano profittando dei bassi tassi d'interesse per emettere debito a scadenza ravvicinata.

Una rapida analisi dei  dati, fa sorgere un prima spontanea domanda: nel debito degli emergenti potrebbe nascondersi un'altra bolla capace di azzoppare la finanza globale. In altre parole, ci stiamo incamminando verso la bolla del debito pubblico, ovvero  verso la madre di tutte le crisi ?

Allo scoppio della grande depressione del 1929 il debito pubblico americano era del 17% del Pil e salì al 40% nel 1934, al 43% nel 1938 ed al 121% nel 1946, per il gigantesco impegno nella mobilitazione militare e nella ricostruzione[2].

Non molto diverso appare la situazione del governo di Sua Maestà. Nel 1815, concluse le guerre napoleoniche, l'indebitamento toccava, secondo stime attuali, il 250% del Pil ed il debito pubblico britannico rimase per mezzo secolo sopra il 100% del Pil. La crescita economica - gli anni 1830-1860 furono tra i più dinamici dell'economia inglese - e l'elevata tassazione ne ridussero poi progressivamente il peso sino a meno del 50% alla fine del secolo. Dopo la Seconda guerra mondiale il rientro fu più rapido (dal 230% del 1945 al 100% nei primi anni 60)[3].  

E’ possibile osservare, tuttavia, che nei casi citati la spesa pubblica era diretta agli investimenti nella produzione, in particolare a quella bellica, e che forse il volano della ripresa può essere proprio imputata alle ricadute positive nei settori dell'economia civile.  Ma un dato è certo, nelle emergenze belliche (così come in quelle finanziarie) i governi non sono mai andati per il sottile.

Quando è in gioco la sopravvivenza stessa del paese, della sua economia gli interventi pubblici sono chiesti da tutti a gran voce. E, l'uso spregiudicato dell'indebitamento per sostenere una spesa crescente è sempre stato una delle prime armi utilizzate. Anche qui la storia ci da qualche esempio illuminante.

Dopo la prima guerra mondiale, la Germania fece piazza pulita del debito con la più colossale iperinflazione della storia europea dai tempi della Rivoluzione francese[4]. La Germania pagò un prezzo sociale non piccolo a questa soluzione: la distruzione della classe media. Nel secondo dopoguerra lo stesso Einaudi permise all'inflazione di distruggere l'indebitamento bellico. In Italia piansero sottoscrittori del prestito Soleri, gli altri cittadini si consolarono, a tempo debito, con la rapida crescita dei redditi[5].  

Cosi è dato leggere su un vecchio articolo della stampa inglese a proposito degli alti livelli della spesa pubblica: “Il debito pubblico è un prodigio che ha confuso la saggezza e l'orgoglio degli statisti e dei sapienti. In ogni fase della sua crescita tutti asserivano seriamente che la bancarotta e la rovina erano alle porte. Eppure il debito continuò ad aumentare ma la bancarotta e la rovina restarono, come sempre, lontane”[6]

Il 16 febbraio 1916, inoltre, il New York Times pubblicò un articolo che riecheggia dopo oltre 50 anni Macaulay, e che da molto da pensare a chi sempre sostiene la insostenibilità dei debiti nazionali: «Chi predisse che l'Inghilterra sarebbe affondata sotto il peso di un debito di 50, poi di 80, poi di 150 e ora di 800 milioni cadde nel doppio errore di sopravvalutare il peso del debito e di sottovalutare la forza dell'economia che sosteneva quel debito».

Perché, allora, la congiuntura attuale dovrebbe fare eccezione rispetto all’esperienza storica che vede il debito pubblico espandersi a livelli enormi e poi rientrare?

Come visto in questi anni si è creato molto nuovo debito pubblico che è andato in maggior parte per sostenere le spesi correnti degli stati e per finanziare e sostenere  istituzioni finanziarie in bancarotta. A seguito di tali importanti interventi, si stima che solo nel 2010 gli Usa e l'Europa hanno rifinanziato enormi quantità di obbligazioni del tesoro in scadenza, rispettivamente per circa 3.000 miliardi di dollari e per 300 miliardi di euro.

Va da se che gli interventi effettuati dagli Stati  ha funzionato e ha ridato una certa stabilità nei mercati finanziaria sconvolti probabilmente perché il fatto che lo Stato sia il creditore di ultima istanza ha innestato un clima di fiducia.

I titoli dello Stato, infatti, sono considerati sicuri a condizione, naturalmente,  che lo Stato non dichiari bancarotta, come peraltro fece la Spagna per ben 16 volte fra la metà  800 e il 900[7] o di recente l'Argentina, che ha rifiutato di pagare i detentori di titoli ed ha cambiato moneta. Ma è, altresì, indubbio che la previsione di richieste di rifinanziamento dei debiti nazionali per importi cosi grandi, provochino una serie turbolenze sui mercati e sui tassi di interesse di cui non può non tenersi conto. Non mancano nella storia anche esempi più cruenti di reazione degli stati creditori. Ad esempio nel 1902, a seguito della rivoluzione iniziata nel 1898, il governo venezuelano si rifiutò di ripagare il debito sovrano. Italia, Inghilterra e Germania effettuarono un blocco navale ai porti venezuelani e la Germania bombardò il porto di San Carlos. Altri casi noti sono quelli dell'Egitto nel 1882, della Grecia nel 1898 e della Turchia nel 1881, che, a seguito di episodi di default sono stati costretti (con la forza) a cedere il controllo della propria amministrazione alle potenze europee.

Releghiamo, tuttavia, questi esempi storici alla serie dell’anedottica, in  quanto oggi non praticabili, e vediamo, più in dettaglio di capire perché nasce l'esigenza di tenere sotto controllo da parte di uno stato l'espansione del proprio debito pubblico.

Come sappiamo dai cosi di base si economia, uno Stato può finanziare le spese indebitandosi presso il pubblico, ossia emettendo titoli del debito pubblico e vendendoli ai privati, ed utilizzando il ricavato per finanziare la maggiore spesa pubblica (in tal caso, si parla in questo caso di finanziamento mediante indebitamento); ovvero, può indebitarsi presso la Banca Centrale emettendo titoli del debito pubblico e vendendoli alla Banca Centrale e si parla in questo caso di finanziamento mediante monetizzazione del debito pubblico perché l'acquisto dei titoli del debito pubblico da parte della Banca Centrale determina un aumento della Base Monetaria[8] e, quindi, l'emissione di moneta; ed, infine, uno Stato per far fronte agli incrementi di spesa può aumentare le tasse (a somma fissa o proporzionali al reddito) in modo da mantenere il bilancio pubblico in pareggio. Si parla in questo caso di finanziamento mediante prelievo fiscale[9].

Considerato che il ricorso alla Banca Centrale non è più possibile per molti paesi dell’occidente e che, in una situazione di crisi, i governi mal volentieri ricorrono all’aumento delle tasse, non resta che il debito pubblico cosi come in questa crisi finanziaria è stato fatto a piene mani.

Ma quali sono le principali ragioni che sotto l’aspetto economico sconsigliano il ricorso al debito pubblico? Le principali sembrano essere le seguenti: la prima di carattere finanziario, attiene alla difficoltà di finanziare il debito pubblico quando questo cresce troppo velocemente. Se cala la fiducia dei sottoscrittori dei titoli circa la capacità del debitore di pagare gli interessi e di restituire il capitale, il finanziamento del debito può avvenire solo corrispondendo interessi più elevati. Se la spesa per interessi aggrava il deficit pubblico, facendo ulteriormente aumentare il debito, può innescarsi un circolo vizioso in cui all'aumento vorticoso del debito corrisponde un aumento della spesa per interessi, dei deficit e quindi del debito pubblico. Senza interventi sulle entrate o sulle spese correnti, si rischia l'insolvenza del debitore[10].

Un’altra motivazione riguarda il cosiddetto effetto spiazzamento (o, per dirla all’inglese l’effetto crowding out). Se lo Stato finanzia la propria spesa ricorrendo al debito pubblico, per collocare i propri titoli presso gli operatori privati dovrà offrire tassi d'interesse competitivi. Ciò comporterà un aumento generalizzato della struttura dei tassi d'interesse e, di conseguenza, una riduzione negli investimenti privati. Inoltre, gli elevati tassi interni attrarranno capitali esteri, rivalutando il cambio e riducendo le esportazioni. Il tutto si tradurrà, pertanto, in una contrazione della domanda aggregata e, dunque, del reddito. E’ tuttavia evidente che se però gli investimenti sono poco sensibili alle variazioni del saggio d'interesse, il crowding out ha una portata relativamente limitata.

Ma ce ne è anche un’altra che attiene al problema della distribuzione della ricchezza[11]. I titoli del debito pubblico emessi per finanziare la maggiore spesa pubblica sono generalmente considerati una maggiore ricchezza dai privati che li hanno acquistati e, quindi, determinano un aumento nella loro spesa per consumi, apportando su questo aspetto un sostegno alla domanda globale.

Tuttavia (aspetto negativo) i titoli di credito del debito pubblico, portano al diffondersi e al rafforzarsi di una classe di creditori di Stato autorizzati a prelevare a loro favore certe somme sul gettito delle imposte.

Ricordiamo, a tale proposito, le parole di Marx, che citava il grande economista liberale Sismondi: ”I titoli di Stato non sono altro che il capitale immaginario rappresentante la parte determinata del reddito annuo destinata al pagamento dei debiti. Un capitale di pari grandezza è stato sprecato; tale capitale serve da denominatore al prestito, ma non è quello rappresentato dai valori di Stato, poiché esso ormai non esiste più. Frattanto dal lavoro della industria devono sorgere nuove ricchezze; una quota annua di tali ricchezze viene assegnata in anticipo a coloro che avevano prestato quelle ricchezze sprecate; tale quota viene tolta per mezzo delle imposte a coloro che producono le ricchezze per essere distribuita ai creditori dello Stato e, in base al rapporto in uso nel paese fra il capitale e l’interesse, si suppone un capitale immaginario di una grandezza pari a quella del capitale da cui potrebbe derivare la rendita annua che i creditori devono ricevere”. Se si esclude la soluzione di un consolidamento forzato del debito (che porterebbe svalutazione della moneta, rincaro delle importazioni e caduta delle esportazioni, inflazione, eccetera), la solvibilità dello Stato viene garantita di anno in anno nei due modi più tradizionali: si tengono alti i tassi di interesse dei titoli di credito; si rastrella quanto più denaro è possibile con imposte e tagli di spesa. In ogni caso, a pagare è sempre — aveva ragione il liberale Sismondi — chi col proprio lavoro produce la ricchezza della nazione”[12].  Insomma, ipotecano il futuro produttivo a favore dei renitier.

Messo cosi, il problema vero  non è pertanto il raggiungimento o meno, durante una grave emergenza nazionale, di un livello d'indebitamento più o meno alto o, per altro verso, superare una quota di tale debito arbitrariamente stabilita (ad esempio 100% del PIL), quanto quello della capacità di rilanciare la crescita e di ridurre progressivamente l'indebitamento. Cosi visto il problema del debito appare sotto un’altra luce: il problema non sarebbe il debito di per se, ma come sia  possibile puntare alla crescita dell’economia anche con un alto livello del debito pubblico.

Esperienze storiche ce ne sono e fanno perno sulla moneta. Mi spiego meglio. Ho sotto gli occhi la breve esperienza di Abraham Lincoln, che aveva finanziato la Guerra Civile Americana con banconote stampate dallo Stato (le Greenbacks) e quella della Germania Nazista[13].

La Storia narra che gli Stati Uniti d’America necessitavano di denaro per finanziare la guerra contro gli Stati Confederati ed i banchieri erano disposti a prestarli, ma con interessi esorbitanti, tra il 24 e il 36%. Il Presidente Lincoln si rese conto che ciò significava mandare il Nord in bancarotta, e chiese a un collega di sua fiducia (il Col. Taylor) di approfondire la materia e trovare una soluzione migliore[14].

Lincoln finanziò la guerra stampando banconote garantite dal governo. Tali banconote USA a corso legale, o greenbacks, costituivano le ricevute per il lavoro e le merci prodotti negli Stati Uniti. Con esse si pagavano i soldati e i fornitori e venivano scambiate contro merci e servizi equivalenti forniti alla comunità. Risultato: i greenbacks aiutarono l’Unione non solo a vincere la guerra ma forse anche a metter le basi per un periodo di espansione economica senza precedenti.  

Per descrivere l’esperienza tedesca, facciamo riferimento a Scriv Schacht, in The Magic of Money del 1967 che scrive: “quando Hitler arrivò al potere, il paese era in rovina[i] … La speculazione, sul marco tedesco aveva provocato il suo crollo, dove 100 miliardi di marchi non bastavano a comprare nemmeno un tozzo di pane ... Hitler ed i Nazional Socialisti, arrivati al potere nel 1933, si opposero al cartello delle banche internazionali iniziando a stampare la propria moneta”.  

Da “A Military History of the Western World” (Minerva Press, 1956) del Britannico, J.F.C. Fuller, si legge: “la comunità delle nazioni non vive del fittizio valore della moneta, ma di produzione di merci reali; la quale conferisce valore alla moneta. E’ questa produzione ad essere la vera copertura della valuta nazionale, non una banca o una cassaforte piena d’oro”- Egli [Hitler] decise dunque 1) di rifiutare prestiti esteri gravati da interessi, e di basare la moneta tedesca sulla produzione invece che sulle riserve auree. 2) Di procurarsi le merci da importare attraverso scambio diretto di beni – baratto – e di sostenere le esportazioni quando necessario. 3) Di porre termine a quella che era chiamato ‘libertà dei cambi’, ossia la licenza di speculare sulle {fluttuazioni delle) monete e di trasferire i capitali privati da un paese all ‘altro secondo la situazione politica. 4) Di creare moneta quando manodopera e materie prime erano disponibili per il lavoro, anziché indebitarsi prendendola a prestito”. Segue Fuller: “Hitler era convinto che, finché durava il sistema monetario internazionale [...], una nazione, accaparrando l’oro, poteva imporre la propria volontà alle nazioni cui l’oro mancava. Bastava prosciugare le loro riserve di scambio, per costringerle ad accettare prestiti ad interesse, sì da distribuire la loro ricchezza e la loro produzione ai prestatori”.

Si obietterà che seguendo una politica di tale genere, alla fine - arrivati alla piena occupazione dei fattori della produzione - l’inflazione finirebbe per erodere il potere di acquisto dei cittadini e quindi i cambi. Ma questa è un’altra storia, che le note vicende belliche non hanno consentito di appurare. Ed insomma, ritornando ad oggi, quel che ci consta,  ci sembra utile ripercorrere la storia per imparare forse che sono possibili diverse alternative a quelle che imporrebbero una uscita dagli impegni degli Stati (la c.d. exit strategy) fatti di lacrime e sangue.

Su Hjalmar Schacht, il banchiere di origini ebree che fu capo della banca centrale tedesca nella Germania Hitleriana - e che a nostro modo di vedere riassume egregiamente il mestiere banchiere centrale – si narra la seguente storia. Un banchiere americano pare gli avesse detto: “Dottor Schacht, lei dovrebbe venire in America. Lì abbiamo un sacco di denaro ed è questo il vero modo di gestire un sistema bancario”. E Schacht sembra replicò: “Lei dovrebbe venire a Berlino. Lì non abbiamo denaro. E’ questo il vero modo di gestire un sistema bancario[ii].

Al di la della battuta, il senso da dare a tale intervento è che la vera ricche di un Paese è fatto dagli uomini e dalle donne che vi lavorano. E che la moneta ed il debito sono solo strumenti a disposizione degli stati per mitigare le naturali fasi di depressione dell’economia. 

 

Dott. Enea Franza, Responsabile Ufficio Camera Conciliazione ed Arbitrato-Consob.

 

[1] Annual Report OCSE 2014

[2] “La grande depressione”, Murray N. Rothbard, Rubbettino, 2008

[3] “Le capitali della finanza. Uomini e città protagonisti della storia economica”, Youssef Cassism Brioschi, 2008

[4] “La Repubblica di Weimar: 1918-1933: storia della prima democrazia tedesca”,  Heinrich August Winkler, 1998

[5] “E l’Italia scelse la sua strada”Daniele Forti,Jaka Bokk,1978;

[6] ”History of England from the Accession of James II”  [Storia d’Inghilterra dal regno di Giacomo II], Thomas Macaulay, 1848-1861; sulle vicende del debito pubblico inglese a partire dalla fine del 600,  primo volume 1948.

[7] “Imprenditorialità e sviluppo economico. Il caso italiano (secc. XIII-XX)”, Società Italiana degli Storici Economici, Università Bocconi, 14-15 novembre 2008

[8] M0 (o base monetaria) comprende la moneta legale, ossia le banconote e le monete metalliche che per legge devono essere accettate in pagamento, e le attività finanziarie convertibili in moneta legale rapidamente e senza costi, costituite da passività della banca centrale verso le banche (e, in certi paesi, anche verso altri soggetti);

[9] Moneta e finanziamento del sistema economico,  Di Gianfranco Sabattini, Franco Angeli, 1999

[10] Per un approfondimento, vedasi “Lezioni di scienza delle finanze”, Volume 1 e 2 di Bruno Bises, 2014

[11] In particolare per il caso Italiano, si legga: “Debito pubblico in Italia fra ricostruzione e sviluppo,  Di Stefania, Manfrellotti, FrancoAngeli, 2008

[12] Il Capitale, Libro I Karl Marx, 1867

[13] “Storia della Germania nazista. Nascita e decadenza del Terzo Reich”, Volume 94 di I volti della storia, Klaus P. Fischer, Newton Compton, 2001.

[14] “I problemi della politica economica”, Siro Lombardini, Unione tipografico-editrice torinese, 1977.

[i] Il Trattato di Versailles aveva imposto al popolo tedesco risarcimenti, con i quali si intendeva rimborsare i costi sostenuti nella partecipazione alla guerra per tutti i paesi belligeranti, che pare ammontassero al triplo del valore di tutte le proprietà esistenti nel paese.

[ii] John Weitz, Hitler's Banker (Inghilterra: Warner Books, 1999).