A CURA DI

AVV. ANTONELLA ROBERTI

"Dirigenti illegittimi: quali conseguenze dopo la pronuncia della Corte Costituzionale"  

Autori: Dott.ssa Elisabetta Castilletti - Dott. Carmelo Mirko Di PietroComponenti CAT SIRACUSA

  

SOMMARIO

  1. Premessa. 2.Possibili effetti della pronuncia sull'attività accertativa 3.Ulteriori argomenti a sostegno della tesi invalidante l'atto: in particolare, i principi di cui alla legge n. 241/1990

 

  1. Premessa

Il 17 Marzo 2015 è stata depositata la sentenza n. 37 della Corte Costituzionale che ha dato finalmente voce alle eccezioni sollevate da lungo tempo nei ricorsi da parte dei contribuenti e, per essi, dei professionisti più attenti e critici.

La pronuncia ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma di cui all’art. 8, comma 24, del D.L. del 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44, la quale consentiva alle Agenzie fiscali di prorogare il conferimento degli incarichi dirigenziali, in attesa dei pubblici concorsi, ricorrendo a contratti individuali di lavoro a termine stipulati con funzionari interni.

Il punto di partenza, dal quale trae origine l'analisi della pronuncia in commento, è la c.d. “sanatoria del 2012”, con cui erano state convalidate le nomine dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate a ruolo di dirigenti, senza però il rispetto di quanto prescritto dalla norma costituzionale sull’accesso mediante pubblico concorso (art. 97 Cost.).

La questione di illegittimità costituzionale fu sollevata dal Consiglio di Stato: i Giudici di Palazzo Spada, nel corso di un giudizio riunito avente ad oggetto tre ricorsi proposti dall’Agenzia delle Entrate, per la riforma di altrettante sentenze del TAR del Lazio, con propria ordinanza di remissione, disposero la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, comma 24, del D.L. n.16/2012, che, difatti, avrebbe costituito una violazione delle regole fondamentali di accesso ai pubblici uffici mediante concorso e, con esse, un vulnus ai principi cardine dell'azione amministrativa incentrata su legalità, efficienza, buon andamento, imparzialità ed eguaglianza, di cui agli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione.

Emblematica la presa di posizione del giudice a quo, nella cui ordinanza di remissione si legge che il concorso pubblico assume “forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego, meccanismo strumentale al canone di efficienza dell'amministrazione, e dunque attuativo del principio di buon andamento”; ed ancora, “l'azione amministrativa, permettendo l'attribuzione di incarichi dirigenziali a funzionari privi della relativa qualifica, consente di conseguenza la preposizione ad organi amministrativi, titolari di potestà provvedimentale, di soggetti privi dei necessari requisiti, in tal modo determinandosi una conseguente diminuzione delle garanzie dei cittadini riposte in una amministrazione che, nell'esercizio dei poteri conferiti dalla legge, deve presentarsi competente, imparziale ed efficiente”.

La Corte Costituzionale dunque, con la propria pronuncia, dispone con fermezza la fondatezza della questione sollevata dal giudice a quo, e lo fa richiamando la propria consolidata giurisprudenza sul tema proposto.

Secondo la stessa, infatti, “nessun dubbio può nutrirsi in ordine al fatto che il conferimento di incarichi dirigenziali nell’ambito di un’amministrazione pubblica debba avvenire previo esperimento di un pubblico concorso, e che il concorso sia necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio. Anche il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso”; ancora “nel concorso va riconosciuta la forma generale ed ordinaria di reclutamento per pubblico impiego, in quanto meccanismo strumentale al canone di efficienza dell'amministrazione” (sentenze della Corte Costituzionale n. 194 del 2002, n. 217 del 2012, n. 7 del 2011, n. 150 del 2010 e n. 293 del 2009).

La pronuncia in commento rischia, di fatto, di paralizzare l'azione dell'Agenzia delle Entrate, i cui atti impositivi sono stati, per lungo tempo, sottoscritti, dunque posti a giuridica esistenza, da soggetti oggi “decaduti”, con evidenti riflessi e spiragli positivi a favore dei contribuenti.

 

  1. Possibili effetti della pronuncia sull'attività accertativa.

Risulta opportuno, a questo punto, approfondire un aspetto nodale, relativo alla possibile portata della pronuncia di illegittimità costituzionale sull'incarico dirigenziale, in riferimento ai possibili effetti invalidanti l'atto sottoscritto da questi soggetti, considerando che l'art. 42 del DPR 29 settembre 1973, n. 600 (norma cardine in tema di contenuti degli avvisi di accertamento) dispone che la sottoscrizione da parte “del capo d'ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato” è elemento essenziale ed imprescindibile dell'accertamento, la cui mancanza è causa di nullità dello stesso atto.

Prima di tutto, è necessario dire che nella recente giurisprudenza è ormai pacifico che gli atti dell’Agenzia delle Entrate, in quanto atti recettizi, debbano essere firmati dal Direttore dell’Ufficio e non da soggetti diversi, a meno che non siano muniti di legittima procura.

Non è una novità che molto spesso gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate siano stati sottoscritti da persone diverse dal Capo dell’Ufficio, prive dei poteri prescritti dalla legge o sprovviste delle delega da parte del Direttore.

così, in sede di contenzioso processuale, il ricorrente ha più volte eccepito la nullità dell’atto per carenza di uno degli elementi ritenuti fondamentale, cioè della firma del Capo dell’Ufficio.

Da ciò deriva la preminente esigenza del contribuente, destinatario dell’atto impugnato, di verificare l’esistenza di una delega e, soprattutto, di appurare che il delegato fosse in possesso dei requisiti prescritti dalla legge che gli permettevano di coprire cariche dirigenziali e di agire per conto del Direttore dell’ufficio, alla luce di qualità professionali certe e verificabili.

Ciò risulta di fondamentale importanza poiché l’avviso di accertamento, in quanto atto idoneo ad incidere autoritativamente sulla sfera giuridico-patrimoniale del contribuente, si qualifica come atto amministrativo che deve sommare in sé tutti gli elementi previsti dalla legge, tra i quali, appunto, anche la sottoscrizione dell’atto medesimo ovvero la prova certa e tangibile che trattasi di soggetto investito del pubblico potere, cioè della rappresentanza dell’Agenzia delle Entrate.

In questi casi è stata chiara, negli anni passati, la posizione assunta sia dalla Suprema Corte di Cassazione che dai giudici di merito nel proclamare l’illegittimità dell’atto.

In particolare, la giurisprudenza di merito ha ritenuto che “la sottoscrizione dell’avviso di accertamento costituisce un preciso obbligo di legge, da compiersi da parte del titolare dell’ufficio”.

Logicamente, laddove il soggetto preposto intenda delegare ed abilitare altri soggetti, con qualifica dirigenziale, alla sottoscrizione degli atti aventi rilevanza esterna, incombe sull’Amministrazione Finanziaria provare la sussistenza di tale attribuzione.

Ne discende che in assenza di idonea prova in ordine all’esercizio del potere sostitutivo o all’intervenuto conferimento di specifica delega del Direttore, il sottoscrittore non è abilitato alla sottoscrizione, rivestendo una qualifica che lo legittima esclusivamente ad espletare la sostituzione e la reggenza, nonché ad essere destinatario dei provvedimenti di delega nell’esercizio di funzioni istituzionalmente devolute al capo dell’ufficio.

La carenza di sottoscrizione dell’atto, pertanto, ne determinerebbe addirittura la giuridica inesistenza, la quale risulta propriamente insuscettibile di sanatoria in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo (ex art. 42 DPR 600/73).

Alla luce di quanto detto, appare evidente che l’irregolarità della sottoscrizione dell’atto impugnato comporti inevitabilmente la nullità degli atti stessi, in virtù anche dell’inosservanza dei principi sanciti in materia processuale-tributaria oltre che delle disposizioni a garanzia del contribuente, quale contraente più debole nei processi tributari.

Orbene, l’art. 8, comma 24, del D.L. del 2 Marzo 2012, n. 16, convertito dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44, contrasta sicuramente, come statuito dalla sentenza della Corte Costituzionale (n. 37/2015) con gli artt. 3, 51 e 97 Cost., poiché, consentendo l’attribuzione di incarichi a funzionari privi della relativa qualifica, eluderebbe la regola costituzionale di accesso mediante concorso nelle pubbliche amministrazioni.

Ormai da anni, dunque, l’Amministrazione Finanziaria ha fatto un uso distorto, per carenza di organo direttivo, delle cariche che sono per natura temporanea ed ha illegittimamente autorizzato dei funzionari pubblici, privi di qualifica e di titoli professionali adeguati nonché senza alcun conferimento di legge, a firmare degli atti in qualità di presunti dirigenti.

Difatti, con la delibera del comitato di gestione n. 55 del 02 dicembre 2009 con cui è stato istituito l’art. 24 del regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate, nonché il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate, prot. n. 146687/2010 ed il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 10 settembre 2010, con i quali veniva, per così dire, “sanata” la posizione di una serie di funzionari dirigenziali senza qualifica, in violazione dell’art. 52 co. 5 del D.Lgs. n. 165/2001 che sancisce la nullità dell’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore “al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2”, l’Ufficio ha travalicato i confini della propria autonomia regolamentare violando i principi cardine per l’accesso alla qualifica dirigenziale.

Questa illegittima prassi perseguita dall’Agenzia delle Entrate, che è stata già censurata dal TAR Lazio con la sentenza n. 06884/2010, non può che avere come logica conseguenza, come già detto, non la nullità degli atti, bensì, con maggior rigore, l’inesistenza di tutti gli atti sottoscritti dai funzionari reggenti, ma non dirigenti.

Pertanto, l’Agenzia delle Entrate ha così ecceduto i limiti del proprio potere di derogare a norme di rango superiore senza che la stessa abbia provveduto ad indire procedure concorsuali ex art. 97 Cost. per l’accesso alla qualifica dirigenziale.

 

  1. Ulteriori argomenti a sostegno della tesi invalidante l'atto: in particolare, i principi di cui alla legge n. 241/1990.

Ad ulteriore conferma della tesi invalidante gli atti tributari, con indubbi margini di favore per il contribuente, rilevano altri argomenti.

In primo luogo, il D.Lgs n. 165 del 30 marzo 2001, sull’ordinamento del lavoro alla dipendenze della P.A., il quale stabilisce, all'art. 4, comma 2, che “ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”.

Da tener in considerazione anche il Regolamento interno dell'Agenzia delle Entrare (approvato con delibera del Comitato direttivo n. 4 del 30 novembre 2000, da ultimo aggiornato con delibera n. 57 del 27 dicembre 2012) il quale statuisce, all'art. 5, comma 6, che “gli avvisi di accertamento sono emessi dalla direzione provinciale e sono sottoscritti dal rispettivo direttore o, per delega di questi, dal direttore dell’ufficio preposto all’attività accertatrice ovvero da altri dirigenti o funzionari, a seconda della rilevanza e complessità degli atti”.

Appare dunque evidente, secondo la normativa interna sopra accennata, che l'unica vera posizione apicale delle Agenzie delle Entrate è il dirigente (legittimo!), ed è solo quest'ultimo che può e deve sottoscrivere gli accertamenti o, in alternativa, delegare altri dirigenti o funzionari, a seconda della complessità e rilevanza degli atti.

Ma a dare maggiore forza argomentativa alle conseguenze invalidanti l'accertamento sottoscritto, direttamente o per delega, dal dirigente “decaduto”, si pongono, infine, i principi generali sul procedimento amministrativo e sui vizi e patologie degli atti, la cui disciplina cardine è rinvenibile nella legge n. 241 del 1990, norma pilastro del diritto amministrativo.

Prima di approfondire questo ulteriore tema a favore della natura invalidante l'atto, c'è da sottolineare come la trattazione dei vizi degli atti tributari è stata, per lungo tempo e prima ancora dell'entrata in vigore della suddetta normativa, osservata con logiche autonome rispetto ai tradizionali vizi dell’atto amministrativo; tuttavia, proprio con l’introduzione della legge n. 241/90 le distanze con la matrice scientifica del diritto amministrativo si sono fatte nel tempo sempre più evanescenti, per essere del tutto superate a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 15 del 11 febbraio 2005, che ha definitivamente “positivizzato” le figure di nullità ed annullabilità dei provvedimenti amministrativi.

Oggi, quindi, anche nel diritto tributario e nell'ambito dei vizi invalidanti il provvedimento impositivo, assume significato distinguere tra nullità ed annullabilità, con le differenti discipline giuridiche che alla loro pronuncia conseguono.

A mente dell'art. 21septies “è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”; secondo la successiva norma di cui all'art. 21octies “è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza”.

Non è di certo questa la sede opportuna per provvedere ad un'analisi attenta e completa delle singole fattispecie patologiche e delle loro conseguenze giuridiche. Ma quale conseguenza addossare, secondo la disciplina generale dei vizi del provvedimento amministrativo, ad un avviso di accertamento che, in quanto atto disposto dall'Amministrazione finanziaria, risulta sottoscritto, direttamente o per delega, da un soggetto che è privo dei legittimi poteri previsti dalla legge?

Ad avviso degli scriventi, la patologia in esame rientra nella fattispecie tipica di nullità assoluta, essendo l'accertamento, firmato da un soggetto che non è tenuto per legge a sottoscriverlo, privo di un elemento essenziale (nullità c.d. “strutturale”), necessario ai fini della produzione degli effetti giuridici; oltre a poter rientrare, quale eventuale ipotesi “residuale”, all'interno della tipologia di nullità espressamente prevista dalla legge (art. 42, ultimo comma, del DPR 600/73).

Nullità assoluta a cui si ricollega, quanto alle sue conseguenze, l'inesistenza giuridica dell'atto e, quindi, l'inefficacia ex tunc dello stesso (quod nullum est, nullum effectum producit), oltre alla insanabilità ed inconvalidabilità. Tutte conseguenze che potranno essere fatta valere in ogni stato e grado del giudizio, anche da chi abbia già promosso il ricorso.

Tale soluzione troverebbe inoltre maggiore forza espressiva e risalto grazie alla consolidata giurisprudenza di legittimità, la quale, negli anni, ha avuto modo di esprimersi su un tema contiguo, relativo agli atti sottoscritti da funzionari privi di delega, qualificando tale patologia proprio come una tipica ipotesi di nullità assoluta del provvedimento, a cui ricollegarsi l'inesistenza giuridica ed insanabilità dell'atto.

Dunque, se già la Suprema Corte ha ritenuto inesistenti gli atti firmati dai funzionari privi di delega del capo ufficio o, se anche muniti di delega, senza che la stessa fosse depositata in giudizio, a maggior ragione lo stesso ragionamento dovrà valere nelle ipotesi (molto più gravi, e di cui qui si discute) in cui l’accertamento sia stato firmato da un soggetto senza alcun minimo requisito di legge per impegnare l’Ufficio.

 

Dott.ssa Elisabetta Castilletti - Dott. Carmelo Mirko Di Pietro

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